Prefazione

“Tutti e nessuno”, verrebbe da rispondere al quesito posto dal titolo dell’ultimo libro di Carlo Di Lieto, Chi ha paura della psicoanalisi?
Tutti, perché è ancora oggi invalso il timore che un profondo scandaglio del proprio inconscio, come promette di fare la tecnica analitica, svelando le scaturigini bio-psichiche della scrittura, violi le segrete motivazioni della creatività; nessuno, perché oltre che a essere stata personalmente sperimentata senza danni da molti, in questo libro sono le opere e non gli scrittori a fornire più o meno corroboranti prove di validità del metodo che indaga “il lato oscuro della mente” (come suona il sottotitolo del lavoro di Di Lieto): metodo che conta più d’un secolo da quando è nato dalle fondanti prospezioni della mente di Freud.
Dall’agile preludio che riepiloga la strumentazione psicoanalitica di riferimento nei suoi cardini motivazionali e teleologici, rivelanti e liberatori, il lettore viene, non senza emozione contenutistica e modale, introdotto al canto V dell’Inferno dantesco (con qualche linea comune al XXVI del Purgatorio), da Di Lieto ritenuto privilegiata sede dell’inconscio del poeta e riparametrata in ottica freudo-junghiana. Da qui una serie di attribuzioni psico-critiche intuite tra vita e scrittura: arte onirico-visionaria tramata di regressioni mnestiche, coazioni a ripetere le sensazioni, i sentimenti e i pensieri, fusioni tra “io” ed “es”, tra eros e thanatos, che segnano una lacerazione dell’essere, non meno che una sua ricomposizione nel medium sublimativo della poesia.
Parimenti soggetto a tormenti psichici tra manifesti e latenti, Petrarca soffre piuttosto di volontà deficitaria, instabile ansia tra miraggi e inganni d’una Laura desiderio e fantasma, magnetico baratro di compiaciuta afflizione: non vera nevrosi ma somma di depressione, indifferenza, tristezza, malinconia, inappagamento, accidia. Un coacer­vo di più tensioni psichiche e di molteplici poli pulsionali tra trascendenti aspirazioni e seduzioni mondane.
Ciò che neanche lontanamente appartiene alla personalità di Machiavelli: nessun sentimento di inadeguatezza o senso di inferiorità, semmai volontà di potenza (Alfred Adler), più che palese dialettica di attacco verso chiunque e, al tempo stesso, di difesa da qualsiasi interna ribellione dell’io. Nelle sue esortazioni al “Principe” (Machiavelli gli detta la drastica scissione della politica dalla morale e ne fa uno schizoide protagonista del potere politico e sociale), gli raccomanda pure crudeltà, tradimento, dissimulazione e frode. Volubile temperamento lui stesso, sospeso tra ambizione e frustrazione, Machiavelli vuole dal sovrano una doppia natura: la ferrea alternanza di manifestazione e maschera, la padronanza di un piano di vita che preveda dissociazione e continuità.
Ma quando nel testo sopraggiungono le pagine dedicate a Casanova, è l’eros che impone le sue leggi tra sessualità e sesso, strutturando un discorso ossessivo tra estroversa vanità e istintivo narcisismo, ipertrofia dell’io da scarso controllo delle passioni e trasgressivo azzardo dell’essere e del fare.
Ma prima di distogliere lo spettroscopio analitico di Di Lieto da questi suoi elettivi giganti della classicità, sia permesso a chi scrive queste pagine d’invito al suo libro di accostare qui, in un estemporaneo anticipo fuori-schema, un altro titano della letteratura e del teatro mondiali, William Shakespeare, inserito in realtà dal Di Lieto in un contesto di moderni e contemporanei. Shakespeare, dunque, e principalmente il suo Amleto visto all’inizio da un Freud che ne certifica le incongruenze, poi da un Jones che lo accomuna a Edipo, poi da un Lacan non antiedipico (cioè dal “desiderio anarchico” secondo il duo Deleuze-Guattari), ma come soggetto di una manque, o vuoto, o inefficienza vitale, causata da quella che oggi si direbbe l’“evaporazione” del padre e, infine, alla luce delle novità di Matte Blanco che scioglie l’enigma Amleto nell’eclettica soluzione delle sue simmetriche dissimmetrie. Tenuto però sempre presente lo Shakespeare che all’“algoritmo” psicoanalitico offre una “combinatoria” mobilità semantico-metaforica, tra figurale in genere e sinestetica in essenza, rimozione e catarsi, logiche della realtà e paralogie dell’arte.
Quando l’imponente saggio di Di Lieto trascorre verso i primi del nostro Novecento, gli si impongono le figure di Papini e D’Annunzio, due intellettuali di poliversa creatività, consapevoli entrambi, benché desolidarizzanti, di psicoanalisi: l’uno, che usa Freud come tessera di un suo ossessivo mosaico di voci, sospeso tra mania di grandezza, tensione idealistica, convulsa e straniante disarmonia concettuale con conclusiva sintesi cristiana, l’altro, posseduto da forte narcisismo, ipersessualità con fissazioni sado-maso e omo-erotiche percorse da vitalismo e tanatofilia, natura di perversa attitudine all’eccezionale, allo straordinario, all’inimitabile: carne fatta verbo di un “vate” lucido nella ricerca del piacere, disordinato nei sensi e nei sentimenti, disabitato da affetti ed emozioni.
D’Annunzio, la morte la corteggiò: a sposarla ci pensò Pavese e per “vizio assurdo” che fosse lui lo praticò. Giunse dissociato al dunque della vita, malato nell’animo oltre che nella psiche, autolesionista che si castigò nell’atto suicida. Seppe molto di Freud, Cesare Pavese, e ancor più di Jung (tenendoli presenti anche quando li riscoprì, da un lato in Lévy-Bruhl, dall’altro in Frazer ed Eliade), stimando dell’uno la scena onirica ospite della recita del desiderio, dell’altro, miti e riti, simboli e segnali, l’inconscio collettivo e quello individuale, considerati sia figure emblematiche di una realtà interiore e segreta, sia un legame fantastico tra il soggetto e il mondo. Assai denso, il capitolo pavesiano conduce il lettore lungo una nevrosi che, indotta da una percezione di abbandono, senso di scon­for­to e frustrazione (non sarà solo il tabù della donna inap­pagata come lacerante archetipo di sesso negato, ma tut­to un complesso di inettitudini a suggerirgli la fine), divenne psicosi e preludio a una morte annunciata da sempre, ribadita via via e programmata, portata a termine infine quasi gesto di lucido autismo.
È un unicum la messa in scena a due di Carmelo Samonà nei suoi libri, sempre in forse tra ambivalenze simbiotiche e interrelazioni proiettive: stato maniacale di entrambi i personaggi sempre sull’orlo di una dissoluzione patologica dell’uno dentro l’altro (secondo le dialettiche lezioni di W. Reich, P. Ricoeur e E. Lévinas). Animando dall’inizio alla fine il delirante binomio, tra autistico e schizomorfo, delle figure in gioco, muovendoli nella rete di una realtà conflittuale, ora domestica ora carceraria, Samonà rende nei fatti i concetti di io e di alter ego, di unicità e di doppio, di soggettività e di estraniazione, ben sapendo i suoi debiti tra il Freud del “perturbante” e lo Jung del­l’“ombra”, nonché i più o meno lontani modelli di Plauto (I menaechmi) e di Stevenson (Jekyll/Hyde). Protagonismo e antagonismo, vittoria e scacco, dominazione e dipendenza, autonomia e tirannia: ecco i quadri di un’originale e reciproca incorporazione psichica che cancella l’io dell’altro, diventando altro dall’io.
Da quando, nei primi studi su Montale, mancavano precise informazioni circa l’importanza della “scienza” di Freud nella sua formazione culturale (e ci si accontentava della sua marginale affermazione di “infarinatura”) ne è passata, come si dice, di acqua sotto i ponti, da essere addirittura dimostrata una sua incredibile prescienza psicoanalitica. Interpretarne le sovradeterminazioni simboliche, però, non è mai stato semplice, tant’è che ricondurre, ad esempio, la presenza del mare nella sua opera alle psico-raffigurazioni del padre o della madre è una chiave critica ancora in sospeso. Paternità del mare (e quindi parola della Legge, e quindi irriducibile alterità foriera di una manque à être), o alveo materno rassicurante e protettivo (classico percorso archetipico da e verso l’immagine femminile)? Ma è oltre a questo equoreo dilemma che si coglie la psiche montaliana, la sua vita non vissuta tra disappartenenza, straniamento, eclissi, apatia fino a un delirio d’immobilità e d’assenza. Poesia, dunque, come vita di chi veramente non vive, ma vede un vivo e vivace mondo in frantumi, restando nel rarefatto disincanto di chi sa, ma non si sottomette al reale.
Straniero alla realtà e alla vita, abitante un altrove fantasmatico dove regnano allucinazioni, incubi, assurdità, orrori e perturbamenti, Tommaso Landolfi irride e condivide la psicoanalisi secondo gli imperativi della sua ambiguità, della sua ironia, delle sue inquietanti angosce e manie trasgressive e dissacranti. A categorie freudiane sono le pagine di Di Lieto a ricondurlo, tra schizofasia e smanie terato e tanatologiche, attrazioni zoomorfe o per meglio dire zoopatiche, fissazioni tra loro compensative di gioco e sesso, l’uno ai limiti di una lucida pazzia, l’altro a quelli di un delirio simile all’amplesso.
Rivisitato, dopo precedenti dedizioni monografiche, in un saggio di “teatro-terapia” nel segno dello psichiatra statunitense Jacob L. Moreno (creatore dello psicodramma, della microsociologia e della sociometria), Pirandello – in comune chiamata con Raffaele Viviani – viene qui riletto alla luce di una psicoterapia di gruppo che utilizza questo strumento per la risoluzione di problemi individuali in un contesto corale. Nello spettacolo, infatti, spettatori, attori e registi, sono coinvolti da un autore (che a sua volta è abitato da plurime proiezioni, o prismi molteplici, di “io” e di “altri”), in una multiplanare analisi che sbroglia e aggroviglia conflitti, bisogni, idee ed emozioni trasversali, condivisi o controversi che siano, in una scena a risoluzione catartica.
L’“incursione psicoanalitica” che Di Lieto opera sul Pinocchio di Collodi poggia sul dramma della “non-identità” del burattino vissuta tra la duplice assenza sia del padre (il “mastro” putativo che lo intaglia con cui sarà ostile e aggressivo) che della madre (radice primigenia dell’io e della sua archetipa costruzione), supplita dalla Fata, con la quale pure non mancheranno momenti d’incomprensione. Per cui il pezzo di legno che tornisce tra le mani sarà per Geppetto stesso un oggetto transizionale (e ricordiamo qui Donald W. Winnicott), vale a dire l’area di illusione che congiunge madre e bambino. Da pupazzo a persona, con trapassi zoomorfi (cane e asino), Pinocchio vive tra falso io e vero io, attraversando l’altro da sé, il doppio, il perturbante, la rimozione, l’elaborazione e infine l’umana emancipazione, offrendoci un travaglio, magari inatteso, ma ben più che sufficiente per un’“incursione psicoanalitica”.
Chi dichiara anche più del vero riguardo alla conoscenza della psicoanalisi è Pasolini, che afferma di aver praticato tutto Freud come “atto fondamentale della mia cultura e della mia vita”. Ma ciò che Pasolini chiede alla psicoanalisi, che l’abbia più o meno approfondita, è l’ineluttabilità del proprio dèmone, l’irredenzione della propria diversità. Non soffre per la qualifica di “gusto morboso, sporco, abbietto, scomposto, torbido”, appioppati ai suoi Ragazzi di vita, ma piuttosto per quel che sa del senso di colpa che gli viene dal devastante complesso di Edipo di cui è vittima, il totale amore alla madre (“è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia”): una schiavitù da cui deriva ogni altro complesso sessuale, per la qual cosa nutrirà costantemente una smania di autodistruzione e un’ansia di morte come espiazione, liberazione, martirio (“Io divoro la mia vita con appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò lo ignoro”).
Entrambi sfornati da quella fabbrica di geni che fu l’Olivetti di Ivrea, e al tempo stesso eredi letterari della Coscienza di Svevo, Volponi e Ottieri appaiono qui come gli alfieri di quella “letteratura industriale” che attorno agli Anni Sessanta non poté esimersi dal narrare le nevrosi dell’alienazione neocapitalista: l’uno, intertestuale debitore dei Casi clinici freudiani, l’altro, lui stesso soggetto bipolare ossessivo-compulsivo e informale psico-patologico.
Titolare di una narrativa che sostiene l’ambiente naturale radicalmente incompatibile con la tecnica produttivista, Volponi testimonia come l’agente umano si adatti a fatica con la moderna idea del fare, pena il degrado nevrotico della personalità, orfana di scopi, di idee, di equilibri, e il rifugio magari inconscio nella follia come unica contestazione al mondo e ai modi della fabbrica.
A sua volta Ottieri sottolinea tutto ciò in un similare binomio di dissenso: “materiale” lavorativo contro azienda col risultato di un nevrotico uomo-macchina. Ma ciò che preme interpretare di Ottieri è la sua personale malattia, i suoi nevrotici inferi, la sua privata patologia, il suo mentale epicentro tellurico, il cui doloroso éndon Di Lieto coglie nella mania depressiva e autodistruttiva, percezioni di irrealtà e fantasie persecutorie.
Totalmente dentro la psicoanalisi (anche se pessimo paziente) come stimolo e terapia, illuminazione e cura, rimedio e protezione, è Sandro Penna, il cui dato omosessuale si è sempre offerto come primario elemento di approccio critico per i molteplici rimandi che ha avuto al suo universo poetico, autonomo destino creativo di un essere ossessionato da un’efebica erotomania (che non sta però per pedofilia). Quindi elenchiamo pure le sindromi fenomenologiche della diversità sabiana, sulla scorta del Charles Mauron delle “metafore” e del “mito” (narcisismo – se non misticismo narcisistico –, depressione, onnipotenza del desiderio, angoscia, “morte nella vita”, maternità assente, eretismo, deiezione compulsiva, disappartenenza, ecc.), ma rimane inalterato il suo valore di uno dei massimi poeti del nostro Novecento.
Cesare Viviani, l’unico vivente dei personaggi del libro, la psicoanalisi la esercita di mestiere, oltre che evocarla come poeta, saggista, narratore. Pochi altri come lui sono al tempo stesso creativi e critici, invincibilmente affascinati dall’inspiegabile, splendidamente travolti dall’altrove. Come la mente del paziente, testimonia Viviani, sfugge più che può all’intento interpretativo dell’analista, così l’operazione del poeta resiste alla razionalizzazione di chi la accosta, comune lettore che sia o esperto studioso, opponendovi quella sua insita irriducibilità, la sua nuda ma infinita polisemia.
La poesia è al di là del limite, veicolo all’invisibile, luce, verità, assoluto: così pure la pratica dell’analisi è avvicinamento alla soglia dell’inconoscibile, all’inconscio nella sua intraducibilità.

Claudio Toscani

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