Nota d’Autore

Cheek, sorta di convitato di pietra di questo romanzo, coprotagonista misterioso, era il mio Maestro: personaggio inquietante, affascinante, ombroso. L’ho frequentato per tre anni e l’ho rivisto dopo ventitré. Era ormai vecchio. Lo incontrai in un negozio di pianoforti, con il suo bastone, il volto assorto. Aspettava quieto che qualcuno lo invitasse al piano superiore per la cena. Il nostro secondo tempo di quell’ultima straziante frequentazione è durato cinque anni.
Diceva che lo chiamavano Cheek e ammiccava con lo sguardo malizioso, diceva che credeva in un presente infinito, diceva che non amava i ricordi, che la musica sarebbe finita, tempo cinque anni… All’epoca non avevo capito che il suo cinismo era una richiesta di aiuto.
Quando ho scritto questo romanzo non l’ho inteso come un’autobiografia, né ho voluto che il mio Cheek fosse identificabile. Sicché nessuno dei personaggi è un musicista: il protagonista, Bunny Reiner è un pittore; quanto a Cheek, ha un nome e un cognome che vagamente rievocano la sua reale identità, ma non è un pianista: fa lo scrittore. Di fatto non c’è bisogno di parlare di sé per esprimere se stessi. Anzi: la scrittura ci permette di conoscerci e di farci conoscere senza divismi e protagonismi di maniera; credo che siano altre le urgenze che ci assillano e ci spingono a creare un intreccio da ambientare in un’anonima città come tante, per poi vederlo dipanarsi davanti ai nostri occhi, dando voce a presenze che si confessano e acquistano una propria vita: la solitudine, i dubbi, l’amarezza e al contempo la voglia di risalire la china, con un qualche convincimento in più che ci accompagni in questo viaggio alla ricerca di noi stessi.
Ma, allora, come mai questi riferimenti al Maestro? Perché, anche se sotto mentite spoglie e solo nell’incipit, l’intento di dargli vita, collocandolo in uno dei soliti salotti-bene, tra i tanti convitati ossequiosi, pettegoli, finanche con il cicisbeo di turno? Cos’è che lega Bunny Reiner a Cheek? Il sogno, anzi, i sogni della ragione. Un libro in bianco con un consenso prodromo: questo è il lascito di Cheek e questa è la sfida che attende Bunny.
Il sonno della ragione genera mostri, recita l’epigrafe scelta da Goya per rappresentare l’oscurantismo e per celebrare il lume della ragione. Ma siamo sicuri che sia così? Sì, perché a volte non tanto il sonno, quanto il sogno, accarezzato dalla ragione portata alle estreme conseguenze, può generare mostri anche più micidiali e perversi. Magari anche mostri di bravura, ma lontani dalle ragioni dell’anima e in definitiva dell’uomo. Così Bunny comincia la sua inchiesta rimettendo in discussione tutta la sua vita, come se per uscire dal suo grigiore debba sognare di essere altro da sé. Ma alla fine del suo viaggio saranno altri gli approdi.
Il cerchio si chiude anche per me: il Maestro è una presenza forte e spesso ingombrante, con la quale vivi intensamente anche quando non lo frequenti più, anche quando non vive più. È vivo per te e diventa incessantemente motivo di confronto e scontro. Quando riesci a percepire il significato della pietas, quando la tua esistenza non è più una corsa ad ostacoli, ma un’occasione irripetibile da vivere in prima persona, allora i tuoi ideali non sono più sfide, i tuoi sogni non generano mostri e tu con cura li coltivi perché, finalmente, ti appartieni.

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