Prefazione

Alpinista e scalatore, Accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna, Pierantonio Milone si porta da sempre nella mente e nel cuore l’amore senza riserve per la natura, gli alberi, i fiori, le marine, le scogliere, i litorali lacustri, le brughiere, i boschi e le tante creature che abitano tali luoghi o che volano per i cieli sovrastanti. Il suo amore per la natura è da intendersi come una declinazione articolata delle forme della bellezza. Forse, si tratta di una serie di icone ovvero di me­tafore: le nuvole, i refoli, i riverberi, i petali, i tronchi, le acque sorgive, le foglie marcite e un ulteriore e indefinito elenco di altre occasioni di ricchezza naturale al­tro non sono che presagi di situazioni, sentimenti, emozioni, accadimenti. Sono autentici simboli di vita e, quindi, anche di morte, poiché quest’ultima è da considerare la parte perfettiva che conclude il viaggio. Un viaggio che si esplica in un continuo atteggiarsi di mo­dificazioni vuoi armoniose vuoi dirompenti, in qualche modo sempre ripetitive eppure mai uguali l’una all’altra. Sono le stagioni. L’etimologia è chiara: da statio, stationis, cioè la fermata, il momento della sosta, la me­ditazione, l’atto memoriale che si accompagna e si unisce all’attesa del futuro che ci aspetta. Ancora una volta è il gusto della vita, che viene ruminato con cal­ma, digerito con assennatezza, anche con la resa al vo­lere degli eventi. È, dunque, questa la pazienza dei for­ti: la concessione della pausa. Il prendere fiato nel cor­so del cammino. Si fa stationem: si dà un senso alle co­se che sono avvenute e che già danno avvisaglia di quel­le che avverranno nel prossimo futuro.
Pierantonio Milone è un lettore forte. Difficile stabilire se egli abbia conosciuto più uomini in qualità di suoi pazienti amati, curati e guariti oppure più di scrittori, letti, meditati e digeriti. Nel rammemorare le vicende della vita, Milone non può escludere dalla men­te l’infinita pleiade di autori che hanno illuminato la sua conoscenza della scena del mondo come un cielo tempestato di parole lucenti, motti, aforismi, citazioni: punti di orientamento affettivo per le letture e spunti magistrali per l’invenzione, l’indicazione, il ritmo della scrittura. Ne derivano gli eserghi, le postille a piè di pagina, le dediche e gli omaggi, che non sono ostentazioni di pedanteria citazionale, ma al contrario sono parti integranti del pensiero di Milone, autentiche in­cor­porazioni, come l’insetto catturato nella goccia d’am­bra, per cui non si può avere l’una senza esporre anche l’altro che ci sta dentro. Non sempre la citazione è esplicita. Talvolta non viene evidenziato in modo palmare ovvero sembra che sia addirittura mimetizzato il riferimento affettivo a un autore molto amato, al punto che, anche se è bene visibile, ci vuole un occhio esercitato per riconoscerlo. Il caso più evidente è quello dello scrittore Mario Rigoni Stern, amatissimo da Milone non fosse altro perché massimo testimone della montagna e delle vette innevate. È dedicato allo scrittore di Asiago il titolo del libro che riprende la mirabile autobiografia del romanziere, Stagioni, in cui si ripercorrono a volo e senza seguire una precisa cronistoria alcuni momenti emotivi di particolare significato, rivissuti nell’età più matura, in una serena dimensione di recupero e di affezione.
Il libro si compone di quattro sezioni: La gioia del verde, I colori del vento e del mare, Brezze d’autunno e Musiche dal silenzio. Va da sé che la composizione tetraedrica delle facce del libro non è casuale, perché allude, sia pure in modo non insistito, alle stagioni meteorologiche che caratterizzano l’orbita di rotazione terrestre intorno al Sole, ma demanda anche all’adolescenza, giovinezza, maturità e vecchiaia che caratterizzano il periplo di una vita onorata dal dono della completezza. Non vi è una scansione brusca, ma piuttosto un armonico procedere di sfumature e gradazioni nel passaggio delle sezioni o se preferiamo dire delle stagioni. L’intonazione del canto ricrea un’atmosfera di melanconia, che non deve essere confusa con la tristezza, con cui non ha nulla a che fare, ma piuttosto è una riflessione accorata su eventi ed emozioni che abitano l’animo del Poeta, nonché riconoscimento e celebrazione dell’amore, in quanto suprema manifestazione di dono e di gioia. Non sorprende che l’esergo della sezione La gioia del verde riporti una frase del poeta bengalese Tagore, premio Nobel per la letteratura nel 1913, il più noto poeta indiano dell’amore, anche apprezzato da Einstein. All’interno della sezione, mirabile appare l’in­cipit tratto da un verso di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, di Cesare Pavese, langarolo di Santo Stefano Belbo, e quindi un conterraneo piemontese di Milone, quest’ultimo essendo nato a Moretta in provincia di Cuneo. La poesia merita di essere citata per intero: “An­che tu sei collina, / terra feconda / che diventa vigna. // Amorosa mi guardi / e sorridendo taci. // Come grappolo maturo / conservi gli umori della terra, // i sapori del­l’amore”.
La seconda sezione, I colori del vento e del mare, porta in esergo una citazione di Fernando Pessoa, che è tra gli autori più profondamente amati da Milone, sicuramente tra i maggiori poeti occidentali del ventesimo secolo, cantore e creatore indefesso della vastità e di­ver­sità della vita, pirandellianamente sospeso o meglio diffuso in una pluralità di eteronimi, con un ortonimo riepilogativo che è anch’esso un ulteriore mosaico di eteronomie. Così la vita assume l’intricato significato di un enigma irrisolvibile, in quanto foriera di un nu­mero indefinito di interpretazioni, soluzioni, proposte, pose, ma anche sviamenti, contraddizioni e alternative. La vastità e la mutevolezza del mare divengono simbolo inintelligibile della complessità del mondo reale, co­me leggiamo negli splendidi versi di apertura della se­zione: “Mi sgomenta questo mare immenso / che soffre e fa soffrire, / questo mare eterno / che piange monotono la sera / o nasconde la sua voce tra le schiume”. In questa sezione trionfano le visioni marine. La poesia si rende spettacolo visivo e rappresentazione figurativa. Va detto, al riguardo, che Pierantonio Milone è anche un valente pittore paesaggista e che proprio le marine, sovente battute dal vento, sono una costante della sua pittura come è documentato nel libro di versi e di quadri, intitolato Come in uno specchio, con ripresa del ti­tolo del noto film di Ingmar Bergman. La sezione si conclude con un omaggio a Edmond Jabès, poeta e critico, nato all’inizio dello scorso secolo e morto alla fi­ne, di intonazione più nichilista che surrealista, vicino a Jean-Paul Sartre e Albert Camus; di lui viene riportato l’esergo “Il niente è il luogo eterno del nostro esilio: l’esilio dal Luogo”, ma la poesia che Milone gli dedica apre uno spiraglio di speranza, in un raggio d’amore proiettato sull’Altrove: “Fuggiti i gabbiani / il tuo sguar­­do vaga lontano / scrutando il silenzio // nella segreta spe­ranza / di un Altrove, / di infiniti spazi di là dal mare”.
La terza sezione si chiama Brezze d’autunno e reca come sottotitolo Gli agguati della malinconia, che abbiamo già visto essere ben altra cosa dalla tristezza. Infatti, la sezione è introdotta dalla citazione tratta da Faust, Atto I, di Fernando Pessoa, “A me basta a que­st’ora la melodia che culla. Che importa se, lusingando, le forze dell’anima spegne?”. Poco dopo leggiamo i bellissimi versi della poesia La malìa della sera, “Una luce radente / fa lunghe le ombre dei pioppi. / Il fiume s’acqueta. / Soltanto un sussurro / è nell’acqua che s’ingorga / là dove affonda / un tronco inaridito”. In epigrafe alla poesia leggiamo un verso di Gustav Mahler, tratto da Il canto della terra, “Silenzioso il mio cuore an­sio­samente aspetta la sua ora”. Fanno capolino dei se­gnali di obnubilamento della ragione e di ottundimento della volontà e dell’azione, come si legge nella poesia, il cui titolo è dedicato a Movimento e immobilità di Douve, capolavoro di Yves Bonnefoy sul tema della mor­te e della riencarnazione, si leggono i versi “Fuggono gli alberi / nella nebbia che infittisce / e m’assale la pena / dei colori scomparsi”.
Nell’ultima sezione, Musiche dal silenzio, si ap­palesa una sensazione di traguardo atteso o meglio una tensione di esplorazione che traguarda la meta di arrivo, e che accenna a un fine ultimo. Forse, solo le parole del Poeta possono alludere a un approdo in un velo inestricabile di significati nei quali la ragione si perde. Ed ecco allora una citazione tratta da Il tutto, il nulla, di Yves Bonnefoy, che recita “Siano per te quei rami che scintillano la parola, / che devi ascoltare ma senza capire, / il senso del loro stagliarsi contro il cielo”. Gli fan­no eco i versi di Pierantonio Milone, “Tra velari di nebbia / stenta a sorgere il sole. // Scarne ramure / graffiano un cielo incolore. // Cifre del silenzio / sulla tela dell’anima. // Mute preghiere / d’una terra che muore”. Quasi a contrasto in questa ultima sezione conclusiva mirabilmente risuonano come un ruscello che sgorga immagini vitali, con l’intenzione smagata del Poeta di fare in­tendere che l’inizio è la fine e la fine è l’inizio, con fantasmi che tornano d’amore e recano la dolce ala di ricordi, “Fammi un dipinto – ti chiedo – del sole. / Parlami ancora / della carezza sensuale del vento / che, fresco di fiori, / in giorni lontani / soffiava dal mare”. In questa atmosfera quasi di ritrovata alacrità quotidiana, la voce amica chiamata a testimoniare è quella di Wisława Szymborska, “Bisogna credere all’amore felice. / Con tale fede / sarà più lieve vivere e morire” e all’insegna di un simile motto poetico risuonano nuovamente delicate, intense, dolcissime note d’amore, “Ri­cordi il nostro giardino, / un profumo di terra / tra siepi di lavanda / e nugoli di rose? / Ricordi gli scoppi di risa / dei melograni? Le attese e i colori / sempre di­versi dell’amore?”. Si mescolano a tali versi luminosi di vita altri versi dedicati alla morte, e che solo apparentemente sono una contraddizione, quando in realtà ne sono la prosecuzione naturale: “Sapendo di morire, / scruti sgomento la notte / per strapparne i segreti”, co­me se il Poeta potesse avventurare lo sguardo nell’Altrove imperscrutabile, che pure è riflesso ed è presente nelle immagini di vita appena citate. La poesia del congedo è ispirata dal poeta colombiano Álvaro Mutis, autore tra l’altro del fortunatissimo libro di Poesia Summa di Maqroll il Gabbiere, in cui delinea il concetto della “disperanza”, sentimento di lucida accettazione della morte, come finale conclusivo, ma non per questo marchiato da nichilismo, rassegnazione e sconsolato ateismo. Scrive con sapienza conclusiva Pierantonio Milone: “Partisti sereno: / fu un viaggio dell’anima, / i passi ben presto / cancellati dal vento”.

Sandro Gros-Pietro

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