Prefazione

La poesia di Piero Costa sviluppa una ricchezza ampiamente diversificata di soluzioni formali e di tematiche. Tuttavia, nel grande rigoglio di modi e di argomentazioni che da sempre costituiscono la complessa poetica dell’Autore, resta fissa e costante la fedeltà alle forme chiuse, al compiacimento elettivo per un linguaggio artefatto e impervio, che si discosti quanto più mai possibile dalla scontata ovvietà del parlare comune e della comunicazione quotidiana. Piero Costa ama codificare l’espressione con formule stilisticamente molto personalizzate, ma nel contempo sempre orientate alla tradizione letteraria italiana di antica data, a partire dal sonetto per arrivare alla sestina, alla ballata, con scrupoloso rispetto della metrica e delle rime, ma anche nell’accoglimento di forme stilistiche totalmente estranee alla nostra tradizione, come l’haiku e altri modelli di poesia orientale. Il lessico adoperato, invece, è di straordinaria attualità, come sono decisamente attinenti alla modernità gli argomenti da lui svolti, nei quali spesso e volentieri si trova un riferimento alla cronaca dei più recenti anni, quando non addirittura a fatti, vicende e di­spute dell’ultima ora. Ne deriva che la caratteristica più appariscente del suo mondo poetico è la nozione dilatata ed estesa del tempo, che si presenta come storia infinita dell’umanità, a iniziare dai primordi dell’antichità per giungere fino agli avvenimenti dei nostri giorni, il tutto amalgamato in unico intreccio di interessi e di riflessioni, come se l’Autore volesse sottolineare che il discorso della Poesia non solo non usa la lingua comune del parlare corrente, ma neppure è arginabile all’interno di una vasca temporale bene definita, essendo al contrario un flusso inarrestabile e continuo, una creazione pe­renne che continuamente si rinnova, in forme sempre simili a sé stessa eppure altrettanto nuove e recenti.
I ricorrenti episodi della poesia di Costa sono dati dalla contemplazione della natura e in particolare dal dialogo dionisiaco con la Luna; dagli avvistamenti del divinum e dalle traiettorie evanescenti nella grande ne­bulosa del metafisico; dagli incantamenti rivolti alla donna, con atteggiamenti estetici, erotici, elegiaci, ma anche graffianti e satirici, a cui fanno da contrasto le devozioni rese alla Madonna come divinità femminile, di dolcezza e di amore, dalla quale è stata generata l’intera umanità; dal ricco albo delle ricordanze adolescenziali e familiari, rivolte ai luoghi della fanciullezza, alle figure genitoriali, al genius loci degli anni verdi, in quel di None, con l’orizzonte puntato sulla collina di Superga e l’affinità familiare collocata sulle sponde e sul greto del torrente Chisola; dalla polemica vuoi irridente vuoi aspra con i poeti appiattiti nella rappresentazione di una viscerale realtà quotidiana, come Charles Bukowski e altri celebrati scrittori del nostro tempo; dal reingaggio dell’antichità, con la riproposta di storie mitologiche, di gesta di condottieri, di imprese celebrate da imperatori, grandi figure del passato occidentale, ma anche con la testimonianza della più recente storia dei nativi d’America, in particolare degli Aztechi, vittime del colonialismo fraudolento europeo; dall’impegno iterativo e costante rivolto a un orizzonte di libertà e di ricerca se non di una verità conclusiva, che appare irraggiungibile agli occhi del Poeta, per lo meno diffondere la confidenza con un sereno ragionamento sull’epistemologia degli errori compiuti, degli inganni architettati, delle devianze subite o indotte con astuzia da chi specula sui poveri di spirito e sui più deboli; dall’afflizione melanconica della stagione autunnale della vita, la terza età, che si presenta più come una vicenda depressiva di magagne della salute che non come una grazia riflessiva di saggezza della mente e dello spirito. La grande cornice in cui questo vasto e profondo dialogo di poesia si inserisce è quella del Qohelet biblico, una sorta di dolce naufragare leopardiano, in cui tutto affonda nelle sabbie mobili della nullità, tutto appare vanesio e inconcludente e la vita umana sembra un felice inganno estemporaneo e caduco, da consumarsi, come si legge nell’Ecclesiaste, nel piacere di mangiare e bere in compagnia della propria donna, godersi i frutti del proprio lavoro, finché la vita si volatilizza nel nulla da cui proviene, e bene lo si legge in Come in un torso di cavolo: “In questa vita storpia che Bella / – gravida di secche foglie e vermigli / papaveri e cani dai torvi cigli – / guardo ’sta razza d’uom che s’accoltella // per carpir a ’sta smorfiosa, / che, pur aspra di cuor, La chiami gioia, / un filo sol di chioma sua setosa / che, un po’, t’allegra e, molto, poi t’annoia”.
Un discorso del tutto particolare va fatto sull’omaggio reso da Piero Costa alla poesia trobadorica e in particolare alla figura, sospesa tra il mito e la storia, di Jaufré Rudel, principe di Blaya, che per tutta la vita cantò il suo amore puro, disinteressato, platonico per Melisenda, la principessa di Tripoli, senza neppure averla mai conosciuta, ma rimanendo a lei fedele, nello spirito e nella carne, e disdegnando ogni altro possibile amore terreno. Per Melisenda, Jaufré Rudel partì crociato, si ammalò gravemente durante il viaggio in nave, arrivò a Tripoli ormai morente. La bella Melisenda ac­corse a onorare il suo principesco cavaliere, che a lei aveva dedicato la vita intera nel virtuoso impegno di intonare un canto poetico disinteressato e limpido. La leggenda vuole che Jaufré spirò l’ultimo respiro tra le braccia di Melisenda e, quest’ultima, benché giovane e bellissima, si ritirò in un convento a pregare. Va detto che Piero Costa non solo dedica a questo poeta del XII secolo l’omaggio della poesia Ultimo canto di Rudèls di Blàya, ma più in generale egli ha dedicato alla poesia trobadorica e in particolare alla figura della poetessa trobaritz Azalaïs de Porcairagues un libro intero di Poesia, che si chiama Ave a chi morituro m’è compagno, testo complessivamente di rara bellezza e di ammaliante originalità. L’attenzione per la poesia trobadorica da parte di Piero Costa non nasce dal caso né da un ghiribizzo di ricercatezza formale. Certamente, all’origine può esservi quel gusto di devozione ammirativa che alcuni poeti, colti e di alto stile, hanno rivolto al culto delle origini della nostra letteratura nazionale, che già fece inchinare Dante nell’ossequio rivolto ai trovatori. Penso, in più, a poeti della modernità contemporanea come Roberto Rossi Precerutti, che è stato uno studioso attento della poesia del XII secolo e che ha saputo riviverla in nuove forme della modernità, esattamente come ha fatto Piero Costa. Inoltre, per il nostro Autore, va detto che la poesia trobadorica rappresenta due grandi campi di condivisione e di orientamento letterario: in­nanzi tutto la capacità di innovare le forme della poesia, andando totalmente contro alla ripetizione balbuziente e maccheronica dei poeti latineggianti del tempo, come Piero Costa va totalmente contro al rimestio nella cenere della tradizione montaliana, quasimodiana e ungarettiana dei poeti contemporanei. Il secondo motivo, bene più vasto e profondo, è la visione poetica di un mondo umano che, senza necessariamente essere sotteso all’aspirazione del metafisico, tuttavia vada bene al di là degli angusti limiti della realtà quotidiana e che, di conseguenza sia libero arbitrio della fantasia, dell’invenzione, della idealità dei modi e delle forme di vivere e di raccontare e di trasmettere le proprie esperienze al prossimo.
C’è, nella poesia di Piero Costa, una ricchezza feconda di valori di umanità e di pensiero, tali da non limitarsi alla contemplazione del mondo reale, ma anche a dare piena rappresentazione dei sogni dell’arte e della fantasia dei nobili spiriti, orientati alla progettazione e all’attesa di un mondo migliore.

Sandro Gros-Pietro

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