Presentazione

Non è facile trovare pensieri e parole adeguati alla presentazione della cinquantina di poesie di una copiosa produzione, che ci offre Mario Dino, quanto meno perché i versi coprono l’intero arco di vita di un uomo, composti in quasi cinquant’anni con una puntualità che non si può non segnalare. Come e dove trovare pensieri e parole per lasciarsi suggestionare da un così lungo percorso? La difficoltà cresce quando del poeta, prima che la dimensione artistica, non si può fare a meno di cogliere la dimensione umana segnata da una storia di vita che solo chi l’ha vissuta può comprendere sino in fondo.
Ma c’è un’ulteriore difficoltà a scrivere queste note. Sono stato compagno di scuola di Mario, dagli anni di scuola media a quelli della scuola superiore, trascorsi nel glorioso istituto magistrale Pietro Domina di Petralia Sottana, prima di trascorrerne altri quattro nell’allora facoltà di Magistero di Palermo. Solo che le sue esperienze di vita sono state ben diverse da quelle vissute da altri compagni di scuola, diverse da quelle che di solito vivono gli studenti. Me ne ha sempre parlato come di un fatto scontato.
Le estati dei primi anni Sessanta, finite le lezioni dell’anno scolastico, Mario non le passava a godersi le vacanze, ma andava a lavorare da manovale. E anche a diploma conseguito, nei quattro mesi invernali, ha continuato l’esperienza di manovale, stavolta non più a Petralia ma a Gela. L’esperienza gelese gli ha fatto “sciogliere le ali al vento” e nei mesi della tarda primavera si è ritrovato a vendere libri porta a porta nella città che qualche anno dopo sarebbe stata tutta la sua vita: Torino.
Ma non gli è venuto meno il piacere e, credo, il bisogno interiore di continuare a studiare e a ottobre ’68 è tornato a Palermo per studiare pedagogia e didattica alla facoltà di Magistero. Il bisogno di lavorare per mantenersi agli studi non era venuto meno e a Palermo alternava gli studi con l’attività di Istitutore, fino a quando, vincitore di concorso magistrale, si trasferisce definitivamente a Torino nel dicembre ’71. E qui è rimasto a prestare la sua opera educativa, otto anni nel ruolo di maestro elementare e poi in quello di direttore didattico, con un’interruzione nel ’74 a Scillato per poter offrire all’Isola del mito gli stessi modelli di esperienza educativa e sociale elaborati e applicati in scuole così lontane. Ma è stata solo un’illusione, com’è proprio dell’emigrato che non riesce a star bene altrove ma non sta più bene neanche nella terra d’origine.
Mario è il migrante, quasi certamente anche del­la sua anima, e si è ritrovato a vivere la stessa esperienza di coloro che lasciano la propria terra senza mai convincersene fino in fondo. L’inquietudine dell’uomo, del maestro e direttore non si è però attenuata; le esperienze del passato hanno continuato a urgere nella mente e nel cuore, e chissà quante vol­te ne ha parlato con insegnanti del Sud, riandando a un passato ormai impossibile da rivivere. A Torino Mario è rimasto a operare, ormai da direttore, inserito in una dimensione di vita attiva e partecipe: promuove infatti un “Concorso nazionale di poesie e filastrocche” riservato a ragazzi delle scuole dell’obbligo e delle superiori, cura ricerche, organizza convegni e porta avanti progetti d’intervento sulla prevenzione del disagio giovanile.

Nel tracciare le linee di una storia di vita qual è quella di Mario Dino vien da pensare a come oggi si fa tutto un gran parlare di “fuga dei cervelli”, ma si trascura il fatto che prima di ogni esperienza migratoria c’è una storia, e quel passato non può essere ignorato o trattato con sufficienza; c’è una sorta di preistoria che non si può trascurare se si vuol comprendere la figura dell’uomo. Nel nostro caso, dunque, dietro il poeta c’è l’uomo, e prima ancora c’è stato il ragazzo irrequieto ma determinato a non pesare.
Le poesie della raccolta che qui presentiamo sembrano punteggiare i diversi momenti di una vita, e Mario ha saputo fare tutto questo non solo scrivendo versi ma ricreando ogni volta e memorizzando il contesto in cui ogni poesia è nata e di cui non può non farsi espressione. Ce ne ha fatto omaggio di condivisione e di questo gli siamo grati. Ecco allora che i versi de La cosa, risalenti a un periodo compreso fra il ’66 e il ’68, possono costituire l’esito di un “sommovimento dell’animo prodotto dallo sconquasso e dall’abbandono ai primi amori”, al di là del dubbio, onestamente espresso dallo stesso autore, che siano poesie nel senso pieno della parola. Egli le considera in ogni caso “strappi e lacerazioni dell’animo, urla nel deserto del vivere una gioventù irrequieta”. La cosa, appunto, può ancora esprimere “la confusione del malessere di vivere e dello sconquasso degli ardori giovanili”, ma La stanza è del ’68, quando Mario è già a Torino a vendere libri, anche se la poesia viene “rivisitata” nel ‘75 alla nascita della prima figlia. Un contesto diffuso, il primo, a fronte di un contesto rivisitato, il secondo: l’uno non può esser trattato allo stesso modo dell’altro e di ognuno non si può non cogliere la dimensione umana, oltre che l’esito artistico.
Le poesie degli anni Settanta, almeno quelle contenute nella raccolta, sono tutte un richiamo al paese, come se la vita del migrante si fosse in qualche modo stabilizzata e dal nuovo mondo fosse possibile rivedere a distanza e reinterpretare il mondo perduto. È il caso di Fragilità ma anche del primo trittico (Il Salso, La giuncaia, La pineta) e del secondo (La pietra, Luglio, Il castagneto). Quadretti petraliesi è il titolo che identifica quest’ultimo e non è difficile avvertirvi il richiamo alla memoria di luoghi e paesaggi remoti che rimangono pur tuttavia ben presenti al poeta. I due trittici si collocano a loro volta nel vario configurarsi di un quadro poetico generale in cui opera la radice etimologica di Petralia (“petrae lilium”, volgarizzamento dell’originario Lilium petrae presente in Cicerone).
Scorre ancora il tempo ma Mario non dimentica la sua terra dove ritorna con costanza, sia nella verità delle vacanze che nella veridicità della poesia. Passano gli anni e nei versi è un continuo ampliarsi degli orizzonti di riferimento: da uomo attivo operante nel sociale della vita scolastica, trova motivi di ispirazione e di riflessione nel veloce succedersi de­gli eventi e nel lento mutare dei “tempi lunghi”. Va così dai versi dedicati a “un vu’ cumprà, povero marocchino malato di cuore” ai fatti di Rosarno del 2010, dalle guerre in Jugoslavia e dal terremoto in Irpinia ai frequenti licenziamenti di lavoratori “dal lavoro e dalla famiglia”. Torna più volte l’esigenza di immergersi nei ricordi e nelle speranze, ma è frequente che la tenerezza dei ricordi si coniughi con l’amarezza degli eventi, com’è nei versi dedicati al “figlio di un mio amico, morto giovanissimo all’improvviso”. Non mancano infine i riferimenti “alla triste politica e al politichese” o alla “mala giustizia”, ma è intorno alla terra che lo ha amabilmente adottato che si incentrano i pensieri del migrante, con Torino immerso in “un pieno ricordo” e il poeta “seduto in macchina a guardare un tramonto”.
Che dire in conclusione? Siamo riusciti a offrire l’immagine di un poeta che altri hanno avuto modo di conoscere e apprezzare nel ruolo di docente e di direttore e che chi scrive ha conosciuto e apprezzato come compagno di scuola? Sarà il lettore a giudicare l’uno e l’altro, nella speranza che, in un’amabile disposizione, ritrovi nei versi riflessioni, sentimenti e stati d’animo che ne hanno segnato la vita.

Mario M. Giacomarra
Professore di Sociologia della Comunicazione
Scuola delle scienze umane e del patrimonio culturale
Università degli Studi di Palermo

Introduzione

Ma lei chi è?” (1)
La raccolta di Mario Dino non si può definire una biografia in versi e tuttavia, come sovente accade per la poesia, è in qualche modo specchio della sua vita.
È impossibile, per chi ha avuto la ventura di incontrarlo e di condividere con lui qualche “pezzo di strada”, disgiungere le considerazioni sulle sue composizioni dalla conoscenza e dalla compartecipazione a qualcuna delle imprese che hanno caratterizzato la sua eclettica e variegata personalità: scrivere poesie, leggere e discutere libri di filosofia, dipingere, scolpire il legno, cimentarsi con la fotografia, promuovere la poesia presso le giovani generazioni come riscatto da una letargia devastante.
D’altra parte lui stesso, nel percorso poetico proposto, lascia indizi, tracce, “fossili guida” che consentono al lettore attento e consapevole di attingere agli strati primigeni dei giacimenti e di ritrovare i fili aggrovigliati (gomitoli …) da dipanare.
Ci sono i suoi poli geografici, le montagne del sud e la città del nord, l’irrequietezza giovanile mai sopita, la passione morale e civile e le definizioni di sé che lo riassumono: da un lato girovago, zingaro, vagabondo, migrante dell’anima, dall’altra Don Chisciotte, Sisifo danzante, netturbino dei pensieri, indomito questurino dei ricordi, e, in cima a tutte, bambino con la barba canuta.
Dualità sintetizzata nel binomio Dino/Deunos, tra il suo fare poesia e il suo impegno per la poesia “bambina”, la scoperta di un “fanciullino”, in sé e negli altri, che non ha niente della svenevolezza decadente, ma tutto dell’intelligenza e della volitiva spregiudicatezza del bambino, libero e creativo.
Poesia come “terapia d’urto” contro l’indifferenza e il qualunquismo, analoga a quella da lui utilizzata per affrontare, tra timidezza e aggressività, nelle sue prime esperienze di giovane insegnante siciliano appena trapiantato in Piemonte, una classe impossibile di alunni controdipendenti, assuefatti a una routine fatta di convenienze e false convenzioni.
Così come il costante riferimento all’impegno sociale, che risuona con accenti diversi, ma sempre appassionati, nei suoi versi, trova eco nelle sue esperienze di direttore didattico, in cui non perde occasione per battersi a favore degli allievi svantaggiati socialmente o culturalmente, per promuovere il tempo pieno, per sostenere la creazione di un tavolo istituzionale sullo svantaggio socio-culturale, per mettere in discussione il ruolo dell’insegnante nel rapporto docente/discente, mettendosi sempre dalla parte dei bambini.
E qui si affaccia la sua straordinaria capacità di coinvolgimento che si è manifestata al massimo grado col Concorso Nazionale di Poesia, prima nato, per così dire, in casa, nei confini della sua amata scuola Toscanini, poi, con “irresistibile ascesa”, approdato a ben altri lidi, dai quattro (lontani) poli dell’Italia, estendendosi via via dalla scuola elementare, alla scuola media e, nelle ultime edizioni, alle scuole superiori.
Dalla sua officina di scrittore nascono anche molti dei temi che lui propone come suggestione ai giovani che partecipano al concorso, punti fermi, valori di riferimento del suo essere uomo e poeta: le rivendicazioni a far valere i propri diritti di sognare e di fantasticare (Non rubateci la luna), la difesa dei valori di fratellanza e di dialogo (Ponti), la dolcezza dei sentimenti e il calore del contatto fisico (Carezze al risveglio), la consapevolezza, tra gioco e precarietà, dell’essere in bilico, continuamente instabili (L’altalena) e forse, negli ultimi anni, anche l’esigenza del riposo e della meditazione (La panchina), simbolo della ricerca di un “punto di osservazione” privilegiato, appartato dal flusso un po’ caotico della vita, in grado di aiutarci a comprendere la realtà nelle sue molteplici valenze esistenziali ed estetiche. (2)

Pompeo Vagliani
Direttore Fondazione Tancredi di Barolo

Museo della Scuola e del Libro per l’Infanzia-Torino

(1) Titolo della narrazione del suo primo giorno di scuola nel volume Il primo giorno di scuola, Ediz. SEI, 2010
(2) Michael Jacob, La panchina. Percorsi dello sguardo nei giardini e nell’arte (Torino, Einaudi, 2014).
Anno Edizione

Autore

Collana

7 recensioni per Acrobata

  1. Alessandra Mellace

    “Acrobata” è una raccolta di una cinquantina di poesie scritte da Mario Dino durante l’intero arco della sua vita. La dimensione artistica riflette quella esistenziale: le poesie raccontano la storia biografica di Mario, dalla sua gioventù irrequieta all’uomo adulto di oggi, ma anche il suo percorso di crescita interiore, le lacerazioni e gli squarci di un’anima che ha attraversato momenti travagliati e bui, ma anche densi di tenerezza, speranza e ricordi. È l’anima di un acrobata e, come egli stesso si definisce, di un girovago, di uno zingaro, di un ambulante del sogno. L’epigrafe di Christoph Baker, che introduce la raccolta, suggerisce il significato di «libertà»: Mario è innanzitutto un uomo libero, non solo per il suo aspetto che ricorda il filosofo Socrate, o per il suo essere così sarcasticamente anticonformista e fuori dagli schemi, lontano dalle convenzioni, per il suo non essere politicamente corretto ma neanche politicamente… scorretto alla maniera chic di oggi! Mario è un uomo libero nel senso più profondo e filosofico del termine, di quella libertà che incute anche un po’ di timore. Mario non è rassicurante, non ha certezze da vendere, è fragile, indifeso, ma è anche puro, pulito, coraggioso. È un uomo dicotomico e complesso (e questo aspetto spiega il binomio Dino/Deunos, suo alter ego) che si muove appunto come un acrobata, sospeso su una fune, saldo, ma sempre a rischio di caduta, che oscilla come su un’altalena mai ferma, che danza nel vespro: il suo è sì un danzare del libero abbandono, ma anche un pattinare su strade senza argini. E ciò in un continuo oscillare tra alfa e omega, tra inizio e fine, tra il ristoro del ricordo e l’umano cicalio, tra un ultimo sospiro di vita e la misera sorte umana della vacuità delle parole. “La stanza”, il secondo componimento della raccolta, è un luogo chiuso, provvisorio, una nicchia di vagabondo, ma anche uno spazio di conforto e di meditazione, del pensiero e della memoria. È proprio quando arriva il momento caro, nel ricordo o nel presente, che il poeta si rialza dopo essersi arenato, ma con il cuore lacerato e un nodo in gola. La stanza diventa quindi una stazione che ospita Mario, ormai un girovago, un’anima planetaria, un uomo che si muove irrequieto immerso nel passato, partecipe del presente, proiettato nel futuro. Tutto questo si vive solamente con la “Compagna solitudine”, titolo della poesia successiva, che sta fedelmente accanto al poeta e con cui condivide il bisogno di protezione e di fuga dai vuoti consuntivi, ma anche il senso di fragilità, che è sì fragilità dell’esistenza, ma soprattutto fragilità dell’uomo senso, di colui che vive senza intelletto solo di e con i sensi, di colui che ha bisogno di essere un altro e sceglie i balocchi che non può avere. La dimensione esistenziale autentica, in cui il poeta può nuovamente dire oso ridere al ritrovato silenzio, si rinviene, anche se solo in frammenti di sogno / frammenti di vita / solo frammenti, “sulla strada della luna” dove ognuno padroneggia se stesso come può / dove ognuno ama l’altro come può / dove ognuno è folle come può e dove nessuno / può essere deludente col proprio vicino (da “Incontri”). Mario è un funambolo che cerca di stare in equilibrio nel bosco cittadino, brulicante di una fluttuante folla di sconosciuti. Ci chiediamo allora: ci sono spazi per l’amore? Ci sono ancora aneliti di vita che riescono a rompere la pietra? Sono momenti di autentica verità o sono solo capricci dell’essere uomo? Sono molti gli aspetti della vita che Mario ama e che lo aiutano a rimanere stabile nonostante il continuo saltellare, come si evince in “Acrobata”. Ed è per questo che nei suoi versi vediamo comunque più luce che buio: è evidente il tentativo imperterrito di resistere e di non arrendersi al futuro negato. Mario osa ancora rubare la luna. L’ultimo libro di poesie del concorso per le scuole da lui promosso si intitola proprio “Non rubateci la luna”: questa è la sua speranza, incoraggiamento, richiesta per i giovani, che ci sia ancora posto per la fantasia nonostante un mondo che sradica e fa arenare (si veda a tal proposito “Profughi”, componimento della Classe I A della S.M.S. “Antonio Pertile” di Agordo – BL, Premio speciale Medaglia del Presidente della Repubblica). Innanzitutto frammenti di vita fuoriescono dalla natura, in particolare quella legata alla sua terra natia, con quei profumi e colori che nei momenti più disparati della vita quotidiana cittadina riemergono con forza nei pensieri, nel naso e negli occhi anche se lontani nel tempo e nello spazio, come si vede da “Istantanee madonite” e “Quadretti petraliesi”. Si scorgono poi momenti di vita autentica nell’umanità ultima, in quella a cui è destinata la migliore poesia mai scritta, quando la poesia è intesa, come nel caso di Mario, come rottura dell’indifferenza, impegno sociale e offerta di dialogo (e anche qui si veda il suo impegno per i ragazzi con il concorso). Umanità come “Abba’s” che ha solo un giaciglio di pietre e ci parla del suo smarrimento, ma che continua indomito e rincuorato a intravedere un sogno (anche se poi lo può raccontare solo alle mute stelle); o come “Il clochard”, prigioniero di sogni evaporati ma in cui ancora si culla; o come in “Oso ancora”, scritta in occasione del convegno nazionale dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e la famiglia del 2004, in cui il poeta ritrova il senso della fratellanza in chi soffre per la mancanza di ascolto nonostante le domande urlate e per il continuo vagabondare tra scivolose tentazioni. C’è inoltre la memoria: eterno migrante, unione di due luoghi, due culture, due modi di pensare, ma alla fine realmente estraneo a entrambi. I ricordi della Sicilia, come in “Lilium petrae”, sono momenti di vita reale tra passeggiate, incontri, bevute, discussioni, nella sacralità della monotonia paesana. E chi, come il poeta, è un nostalgico figlio di ventura che vive il proprio luogo di origine come eremo estivo, finisce col sentirsi netturbino del pensiero / e indomito questurino dei ricordi / testimone silenzioso di nomi e fatti / scolpiti sulle corde del tempo […] Eppure ritorno ogni anno / per l’acqua di fonte e per l’aria dei monti / per gli amici lontani ma presenti / chissà… (da “Lilium petrae”). I ricordi della propria terra aiutano comunque a restare vivi, regalano luce nella tenerezza della nostalgia. Infine fotogrammi di vita si ritrovano nel significato più profondo e vero dell’amare, come in “Profumi”. E oggi Mario, ormai cresciuto nonostante in fondo si senta ancora un bambino con la barba canuta, è ancora un Don Chisciotte che danza indomito per difendere i nostri sogni, come si descrive nei suoi scritti? La risposta è in “Sgrano i giorni”, probabilmente la summa della sua poetica e il suo sguardo rivolto al domani.

  2. Fiorella Ceccato

    Verso metà Maggio 2014 ho avuto l’onore di leggere in pubblico alcune poesie di Mario Dino. Le Associazioni La grande Rondine e Treccarichi avevano organizzato a Collegno un momento culturale per la presentazione del suo libro “Acrobata”. Amo la poesia, grazie ad una professoressa delle medie, la signora Lidia Bertolazzi – Scuola Media Don Minzoni di Collegno – Era la fine degli anni ‘60. Amo la poesia, anche se non amo impararle a memoria; ma mi piace raccontare ciò che mi trasmettono; mi piace sentirne dispiegare la prosa, il senso di ciò che ha inteso comunicare il poeta, che a volte, è diverso da ciò che lascia in me. Leggere Mario Dino è stata una scoperta, un incontro con un mondo che non conoscevo poi così bene. Migrante, un’immagine da sempre per me legata alla nostalgia, storie di vita, di speranza, di sogni. Io che piangevo per aver cambiato casa. Con tutta la famiglia, dalla piazza del Villaggio Leumann, mi ero trasferita due traverse più in la. Ho un ricordo così pulito della nostalgia che provavo ogni sera nel ritirarmi in una nuova casa che non sentivo mia, che non riesco a immaginare cosa ci si senta nel cuore ad allontanarsi dalla propria terra. Leggendo le poesie di Mario ho sentito la sua grande nostalgia, ma ho capito, forse perché più matura, che “…. la casa e il tuo mondo sono dentro di te ovunque tu sia”. Lontano dalla sua isola Mario ha ri-fatto il nido, qui in un nord gelido che gli riporta “ …. il profumo pungente di antichi desideri nell’afa di luglio” (La giuncaia.) Gustare il sapore di ciò che leggi, sentire i profumi, sentire lo scirocco che ti scompiglia i capelli, il calore della pietra quando ci appoggi la schiena per riposare. Stacchi gli occhi dal libro di Mario, un attimo, ti guardi intorno, sei nel tuo mondo che per un lungo momento si è confuso e intriso di un altro mondo che non conoscevi e che ora è anche tuo. Solo per questo, grazie! E poi l’incontro con gli altri, lo sguardo verso “l’altro”, sentire le pene e l’amore per gli altri e negli altri. Anche per questo, grazie!

  3. Silvia Ricci

    Al Salone Internazionale del Libro di Torino di questo anno, camminando distrattamente tra gli stand dei vari editori, mi soffermo allo stand C45 pad. 1 casa editrice Genesi. Non so perché ma indugio, guardo i libri ed uno in particolare attrae la mia attenzione. Non ha una copertina vistosa, i colori sono blu e azzurro, ma è particolare, raffigura un funambolo e il titolo è “Acrobata”! Autore … Mario Dino. Sono sempre più curiosa. Comincio a sfogliare le prime pagine. Vedo un titolo “La cosa”, comincio a leggere……… tumulti dell’anima, confusioni giovanili, disordine dell’affacciarsi alla vita di adulto che comunque ti “penetra nelle vene” e …. anche se non vorresti …. “Non posso permettere che la sua lingua di fuoco carezzi la mia pelle che penetri il mio essere lo spezzetti e lo risani”….. sei già nella vita. Ho deciso, devo leggerlo tutto, acquisto, pago afferro il “mio libro” che accarezzo come una cosa preziosa perché già so che sarà uno dei miei libri amici. Nei giorni che seguono continuo a leggere le poesie di questo autore a me sconosciuto, ma che attraverso i versi comincio a conoscere. Percepisco il suo amore per la vita e nello stesso tempo la sua “rivalità” con la stessa vita che dà e toglie… “Perché ogni volo si schianta contro l’albero della vita?”, ma che l’autore sfida giorno per giorno fino ad arrivare all’incredibile….. “Oso rubare la luna” E’ una luna amica quella dell’autore Dino. la ritroviamo nel “Clochard” …… ”Hai visto la luna stanotte? Cullava il clochard di Porta Pila nell’abbandono ai suoi ricordi” Gli struggenti e accorati richiami alle sue origini, alla sua terra, ai suoi monti, alla sua acqua….. alla sua aria nei “Quadretti petralesi”…… mi colpisce molto Luglio, pochi versi, ma si sente il profumo e il respiro di questa terra antica che sono anche il profumo e il respiro dell’autore ……”Dormire sulle stoppie di luglio cullati dal respiro della terra”…. Il legame con la sua terra mi sembra sia la linfa vitale, l’ origine della poesia di questo sensibilissimo autore. La sua poesia è narrata con una passione lucida, con istinto razionale, con trasgressiva compostezza, con la nitida semplicità di chi riesce a filtrare le emozioni, farle passare dal cuore alla testa e viceversa. Tutto appare vissuto attraverso il corpo …… “mi ubriaco di leggiadre pennellate di rugiada appena sospesa” per poi passare al cuore….. “attesa di una voce fresca di bucato di un sospiro di ciclamino sparso dal vento dell’aurora” e infine all’anima dell’autore ….. “Respiro a pelle la sfuggente aria / e guardo oltre la vacuità delle parole/ mi accovaccio sulla miseria umana / fermo ad ascoltare il respiro delle stelle…… Con altrettanta passione è narrato anche l’impegno civile dell’autore che inseguendo la giustizia perfetta….. “E mentre si insegue la giustizia perfetta / il reato sfuma / si sfuoca / svanisce nella dimenticanza / e il popolo diventa unico colpevole” ……. lascia trasparire lo sgomento dell’anima che resta ….. col groppo alla gola l’occhio svagato e smarrito/ le orecchie ormai assordate . / Nessuno sente le urla che salgono….. I suoi versi urlano al mondo il ripudio verso la guerra, verso qualsiasi guerra …. “Perché ancora deliri evitabili?….. i futili motivi che il più delle volte inducono alla guerra …… “Onnipotenza degli uni sugli altri?” ……. l’autore chiede a gran voce….. “Perché i guardiani della pace / distolgono distratti sguardi / alle girandole impazzite / di pervasive economie globali”….. L’autore non vuole accettare i massacri di innocenti che ogni guerra si trascina dietro….. “Sempre e ovunque prima ora poi morti ammazzati indifesi mal difesi”…. e crede ancora, vuole credere ancora in una giustizia che solo l’uomo può conquistare, l’uomo di domani in cui il nostro autore ripone tanta fiducia e che quasi esorta con questi versi …… “Aspetto angeli di giustizia / e cuori urlanti dall’oblio / Aspetto amanti baciati dalla luna / e bimbi non sbranati dalla vigliaccheria / Aspetto rigogliose foreste di vita”…. Quasi un inno alla speranza, all’amore, alla gioia…..alla bellezza che deve vivere in ognuno di noi. Questo libro è sul mio comodino. Ogni sera, anche se ormai l’ho letto e riletto, apro a caso una pagina e leggo qualche verso che mi dà speranza “Continueranno a cantare / ed io assieme a loro / al giorno che muore/ al giorno che tornerà / al prossimo sole / al prossimo azzurro.- E’ diventato un amico, come dice l’autore….. “Don Chisciotte amico sincero dell’aria e del vento”.

  4. Agnese

    Quanto di seguito trascritto è la semplice traduzione del prodotto emozionale che la lettura del libro di poesie “Acrobata” di Mario Dino ha provocato in me, una lettrice qualunque. Mi piace iniziare con due parole sulla dedica ai figli: “con tremore paterno”; la scelta del sostantivo tremore, così difficile da recuperare dentro di sé, da vivere, da esternare, da dire, da scrivere …. : dal significato assoluto, totale; poi, “paterno “: un aggettivo intenso; esso qualifica, non si pone come soggetto identitario astratto, bensì come espressione di un sentire vitale, di un ruolo che è un tutt’uno con il proprio modo di essere, di vivere, di sentire …. Quasi come corollario, ma anch’esso denso di significati, ci viene incontro Rufus, senza schemi … così semplice nella sua presentazione, corrispondente proprio all’abbecedario dell’affettività più naturale e reale possibile che ogni essere vivente pone in essere nell’interazione di chi lo corrisponde. Consideriamo, ora, il titolo. Il sostantivo acrobata è carico di simbologia; rimanda alla condizione precaria dell’uomo che “cammina attraverso l’esistenza, sospeso tra due punti, la nascita e la morte, munito o no di sistemi di sicurezza, secondo un piano incomprensibile ed ineludibile che nessuno può cambiare; e ancora, il disegno di copertina dello stesso autore, non illustra, ma traduce in immagine il titolo dell’opera che, a sua volta, ne risulta il tema conduttore; un acrobata che cammina su un cavo: schematico e stilizzato, raffigurato nella sua semplicità, ma anche fortemente impresso; il tratto grafico che delinea la fune su cui procede è più leggero, a volte si interrompe e poi continua in lontananza … : come sfondo l’azzurro. L’Autore non me ne voglia se la chiave di lettura della “sua” opera differisce in parte o in toto dal suo pensiero; un autore comunica il proprio sentire creando immagini, suoni e suggestioni che, poi, il lettore filtra con il proprio vissuto e la propria sensibilità e …. allora … quel sentire dell’autore può anche diventare altro …. Comunque, se quelle immagini, quei suoni, quelle suggestioni producono emozioni, allora certamente raggiungono l’obiettivo principe del testo poetico. Mario Dino ci accompagna nella lettura delle sue poesie, restituendoci: visioni, suoni, echi, significati sopiti o forse mai affiorati in noi; ciascuna poesia non può essere svelata da considerazioni unicamente ragionate; essa nasce dall’animo dell’Autore, è il suo sentire che ci comunica col suo proprio e singolare linguaggio: id est; ad essa si deve rispetto perché sottende la fiducia dell’Autore ad essere compreso; è per questo che egli si rivela a noi senza diaframma di protezione ed è per questo che la poesia si sottrae a “ qualsiasi tipo di giudizio ragionevole, lineare, positivo o negativo che sia”. Il colore è l’elemento principe che connota ogni testo poetico divenendo pregnante sfondo, definito, forte, deciso; l ’azzurro ne è il prevalente, in quanto più ricorrente, non disgiunto dal vermiglio e dal rossastro, per chiudere infine con i continui richiami all’arcobaleno: nunzio di una speranza, di un ritorno sempre e comunque all’illusione di poter comprendere in qualche modo, anche se non fino in fondo, il mistero del mondo, l’uomo e le sue contraddizioni. L’Autore, con le sue pennellate di colore – così le definisce in “Aria immobile”, p. 53 testo – veicola le proprie suggestioni emotive ed estetiche, le addolcisce, fino a stemperarle del tutto; sono pennellate che permettono all’A. di virare dall’angoscia in cui il lettore potrebbe sentirsi immerso, evitano il pessimismo e ridonano aspettativa e vitalità; egli non mescola i colori, appiattendoli in sfumature, no, il colore resta sempre unico, completo e chiaro nella sua unicità. Dopo una sofferta, ma appena accennata ‘lacerazione interiore’, dove peraltro non ci fa entrare, dopo aver con lievità espresso una propria inquietudine esistenziale, ecco sopraggiungere il colore: sempre vivo, unico, efficace all’espressività del testo poetico, delicato, direi vibrante in ogni declinazione poetica “e libera vola sulla fantasia degli azzurri” – Libera fantasia, p. 47 ibidem. Lo stile poetico di Mario Dino, per le sue specifiche connotazioni evocative, si colloca e si configura, dal mio punto di vista, nel filone della poesia impressionista, se esiste un tal genere letterario, quasi un pittore della parola. Nei suoi testi poetici, ci porge quadri e vissuti filtrati dal suo sguardo inquieto e sensibile; ci annuncia, ci dipinge, ce ne fa sentire gli echi, ma non ci accompagna fino ad una compiuta introiezione delle cose della vita che il mondo gli offre. Ecco perché si serve del colore! Il colore che veicola l’emozione, l’addolcisce e la connota fortemente; esso è affiancato dall’utilizzo di una lessicalità ineffabile che genera indescrivibili suggestioni visive e acustiche, attraverso le quali anche … i fruscii vengono percepiti e, allora, anche la ricezione poetica della sua comunicazione diventa immediata, spontanea, pur nella complessità del messaggio. Egli, non ci descrive “quadretti” intesi come foto ricordo, no, le scene vivono e sono in movimento perché ci vengono rappresentate attraverso il suo sguardo teso a comprendere e a cogliere ogni minimo particolare; particolari che quasi sempre risultano posti in primo piano; per la maggior parte sono naturalistici e, all’apparenza quasi oggettivi ed estranei, ma risultano sempre posti in primo piano, perché, nei fatti, tratteggiano impressioni; le cose che “racconta” hanno una vita propria, “non sono come sono, ma sono come le sente”. L’Autore stesso ci aiuta nella possibile correttezza di questa interpretazione quando ci porge i testi nelle loro suggestioni emotive, ma anche acustiche e visive, tramite una lessicalità direi quasi sonora, dove il suono verbale si identifica con il significato stesso che l’Autore ci vuole comunicare -cfr. M’asdruvig’hiu .. pag 83 ., scegliendo una terminologia “sui generis”, ricca di risonanze, di echi, e ancora di colori. Penso di poter affermare che il tutto si stigmatizza in suggestione verbale, dove il sonoro della verbalizzazione si identifica col suo significato e, quest’ultimo, col sentire del Poeta; è qui che si realizza la comunicazione tra l’Autore e il suo lettore ed è questo il tratto più significativo della poetica di Mario Dino: poesie molto toccanti, quasi stordenti. Al lettore consiglio di procedere a piccole dosi distanziate …. ma, se anche in questo modo non riuscirà ad arrivare fino in fondo, sappia che, già da ora, avrà la mia comprensione.

  5. Giusi Lambarelli

    “Non so se le mie sono poesie, ma certamente sono strappi e lacerazioni dell’animo – urla nel deserto di vivere una gioventù inquieta…” così dice dei suoi scritti il poeta Mario Dino, pedagogo di professione e, in questo caso, anche di se stesso “bambino dalla barba canuta”. In questa precisazione mi sono ritrovata a condividere molto del suo meditare: il senso della solitudine, compagna del viaggio che è la nostra vita, le attese, che ci consumano in costanti fantasie e nella richiesta di risposte a domande urgenti, la consapevolezza del nostro essere fragile, le speranze, unguento per le nostre ferite. Siamo tutti acrobati: camminiamo su corda tesa fra i due noti estremi, uno alle spalle, l’altro di fronte a noi, invisibile al nostro sguardo teso a concentrarsi sui passi misurati per non rischiare rovinose cadute. Siamo tutti acrobati in bilico fra il mondo delle idee e il mondo delle cose sensibili, noi, persone, inesperti demiurghi di noi stessi. Forse il pensare e lo scrivere fornisce un orientamento ed una consolazione alla nostra dimensione umana.

  6. Claudio Ozella

    Mario Dino: un acrobata in equilibrio tra nostalgia e realtà. Mario Dino (si firma Deunos) è nato a Petralia Sottana (PA). Appena diplomato si reca a Torino in cerca di lavoro. Dal 1971, e per otto anni, maestro. Dal 1979 al 2009 Direttore Didattico, dal 2000 Dirigente Scolastico. Sin da giovane, come cura per la sua ammessa irrequietezza esistenziale, legge saggi di filosofia e di letteratura italiana e straniera, anche quella fantascientifica, e si diletta a scrivere poesie. Ha promosso e curato un Concorso, giunto alla XV Edizione, di poesie rivolto agli alunni di tutte le scuole d’Italia, pubblicando con il Capitello la raccolta delle poesie annualmente scelte dalla Giuria. Sempre con il Capitello ha pubblicato alcuni Report sulle iniziative di prevenzione sullo svantaggio socio-culturale dei giovani, tra i quali: nel 2002 “Diamo una mano a Pollicino”, nel 2003 “Conoscere per prevenire” e nel 2008 “Costruiamo ponti”. “Acrobata” (€uro 10,00 p. 86) pubblicato da Genesi Editore, che comprende cinquantadue poesie composte nell’arco di quasi cinquant’anni (1966-2014), è stato scritto da Mario Dino come un acrobata in equilibrio tra nostalgia e futuro. Nostalgia, non nostalgismo retorico e sterile ma ritrovamento di sentimenti, emozioni, profumi, suoni, valori, radici, che si proiettano nel futuro, per costruirlo e migliorarlo. “Rufus”, per esempio, ritrae l’armonia perfetta tra amore paterno e amore filiale, Eden tenero e struggente, presto perduto e sempre rimpianto. “La stanza” rievoca inquietudini e tormenti giovanili, non un girotondo sterile e tormentato su se stesso, ma un aprirsi al mondo e all’universo che le voci di boschi e montagne, il richiamo forte e malinconico di un vecchio lupo, non riescono più a placare, e la stanza diventa stazione di partenza verso un futuro da abbracciare. “La linea” descrive la vita nel suo divenire primigenio, universo di armonie intrecciate, in cui cielo e terra, natura e umanità, si compenetrano di un amore tenero e struggente. “Abba’s” ritrae il nuovo migrante fuggito dall’inferno in terra, che pur tra difficoltà e ristrettezze, conserva la speranza del sogno, che illumina le sue giornate, riscalda le sue notti, dialogando con le stelle e il tempo. “Anelito di vita” è un inno alla speranza che, come un giglio tenace rompe la pietra dell’incomunicabilità umana, spazzando con il vento della sua luce la foschia esistenziale che soffoca la città, salvandola dal collasso fisico e spirituale. “E sono qui (e sono lì) ” mostra come la ricerca di pace e gioia interiore parta dal cuore e in esso trovi il suo nido colmo di amore e serenità, senza cadere nella trappola di paradisi artificiali e artificiosi. “Sgrano i giorni” è un omaggio e un grido d’indignazione: omaggio alla generosità e al coraggio disinteressato dei mille che fecero l’Italia, indignazione verso chi distrugge e corrompe quel dono grande e prezioso, e verso le ingiustizie che flagellano italiani e stranieri, liquame spirituale, lavato via dall’amore profondo, dono intrecciato di maternità e amicizia. Mario Dino è riuscito a fondere in un intreccio stilistico avvincente e struggente la maieutica di Socrate, lo spirito dionisiaco di Nietzsche, la solidarietà e l’apertura verso l’altro da sé dei vangeli. L’autore non è caduto nella trappola della melassa buonista a buon mercato: i suoi versi, invece, penetrano nella mente e nel cuore dei lettori con la dolce fermezza della pioggia primaverile, svelando la realtà individuale e comunitaria in tutti i suoi elementi di terra e cielo, di luce e ombra, sconfiggendo il nichilismo disperato, distruttivo, con una solidarietà viva, forte, che prolunga radici antiche verso terre nuove, abbracciando anime migranti, per costruire insieme un futuro forse non perfetto, di sicuro perfettibile.

  7. Alessandra Mazzoni

    Non ho ancora avuto il piacere di leggere le poesie del mio caro maestro Mario Dino, ma colmerò presto questa mia mancanza, ho appena appreso della loro esistenza. In ogni caso volevo dire, che ho avuto l’onore di avere Mario Dino come maestro e posso affermare, che è stato un maestro unico e indimenticabile. Caro maestro mi farebbe molto piacere avere tue notizie, se ti fa piacere puoi contattarmi alla email allegata al messaggio. Con affetto la tua alunna

Aggiungi una recensione

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati