Prefazione

La ragione ci fa distinguere ciò che è alla portata da ciò che si colloca oltre il confine del nostro territorio di appartenenza. Ci appartengono tutte le cose, gli animali o le persone a cui noi pensiamo con continuità, indipendentemente dal fatto che esse siano reali o immaginarie, raggiungibili o inavvicinabili. Anzi, succede un fatto illogico e quasi perverso: ciò che è più lontano o che appare come irreale, purché sia covato con fissazione, appare più indispensabile di ciò che è facilmente disponibile. In conclusione, finisce per appartenerci di più, fa parte di noi più di ogni altra cosa, anche se non è per nulla disponibile. Il concetto è tutt’altro che astruso o intellettualistico. Anche la gente comune sa che normalmente ognuno desidera di più ciò che di meno può avere. Si tratta di una compulsione tanto illogica quanto comunemente diffusa nella mente di tutti. Il noto chansonnier francese Jacques Brel dedicò a questo concetto la famosa canzone La quête, il cui succo è che ognuno di noi ricerca la inaccesible étoile. Nella speranza che sia accettata per buona la traduzione elaborata da chi scrive, un poco liberamente e rabberciata pressappoco a memoria, il notissimo cantante, divenuto celebre per la canzone d’amore tormentone intitolata Ne me quitte pas, grosso modo esprimeva questo bellissimo concetto, arrotando nel microfono parole poetiche di confessione e di abbandono, Sognare un sogno impossibile, / portarsi dietro il dolore delle partenze, / bruciare di una febbre virtuale, / partire verso un dove che non esiste, / amare fino a lacerarsi, / amare troppo con cattiveria, / tentare arrendevolmente e senza difese / di raggiungere l’inaccessibile stella.
Con buona pace del defunto ma sempre vivo Jacques Brel, Natino Lucente ama parlarci delle sue Affabili stelle, che sono proprio lì, a un di presso da lui, raggiungibili nel salotto di casa, sulla via principale del paese o per le strade di Roma, e provocatoriamente il poeta ce la canta, rivolgendo a tutti noi il corale invito “Lasciamo alle canzoni / i nessi logici dei testi / la musica del verso, la misura”. E più oltre osserva che “Da tempo i poeti contemporanei / l’un l’altro traendo mutua fama / hanno cavalcato audaci / i cavalli di frisia / di una pregnante incomprensione / con versi scritti quasi per nessuno / sfiorando verità nascoste / fra la sciatta realtà del quotidiano / ed evocando acuta / la disperante nostalgia di un senso”. Nella poesia Abitatori – si noti la condizione faccendiera dell’abitatore da contrapporre a quella gentilizia dell’abitante – Natino Lucente arriva a fare il conto della nostra inconsistente vanità e nullità, “E noi sbiaditi vocianti / abitammo questo mondo / geoide ruotante palestra di affanni / dove alternativi sole e luna / ci danno parvenza ingannevole / di cangianti colori a ogni cosa / per poi scomparire dicendo / che un altro giorno è passato”. Gli fa da eco in Senza rete la disarmante conclusione, “Acuta la richiesta, nel ritmo convulso / di un canto melodico / o anche di un suono stridente / a pietosi distoglierci / dal nostro essere nulla”.
Le affabili stelle sono dunque le innumerevoli pagine di poesie, scritte nella temperie dei secoli della civiltà occidentale – e non solo di quella – come nei fervidi anni di alacre attività scrittoria del Poeta – si noti che lo Scrittore ha già dato alle stampe dieci libri di poesie, in aggiunta a un epistolario in prosa. Queste vaghe stelle leopardiane, un tempo patria dell’estasi e del sogno, in altre epoche rimirate sopra il giardino di casa come fossero luci enigmatiche, in­comprensibili, eternamente simili a sé stesse, sono fragorosamente crollate nella realtà quotidiana contemporanea, sprofondate nell’ordinarietà, nell’ovvio, nell’apodittico, ma hanno pur sempre mantenuto fede al loro carattere di assoluta inanità e inutilità. Ora che il sogno, l’invenzione, il gioco, l’ozio, la favola bella o brutta che sia, più infinita della tela di Penelope, come è la fiction inesauribile di Beautiful, è divenuta un inciampo della modernità, sempre disponibile su Sky, alla pay tv, su streaming; e ora che il gioco più azzardoso – con spruzzi di sangue e mostri chimerici – è smanettabile con quattro soldi sulla playstation; ora che la realtà è pregna di sogni virtuali, compiuti ad occhi aperti e tirando meno delle quattro paghe per il lesso di carducciana eco, l’inaccessibile stella dello Chansonnier è divenuta una pleiade di affabili stelle del Poeta. Anche la poesia ora si smanetta, pagina su pagina, libro su libro, come fogli divelti, dispersi, anonimi, che attestano e che disperdono ricordi e attese, amori e disamori, incanti e discanti: un’elencazione di fragranti anticaglie odorose di stantio, una collezione vintage, in cui Natino Lucente si tuffa con l’eleganza argentea del delfino, nel grande mare di casa sua, che sono gli ultimi due secoli della poesia italiana, nonché tutta la poesia contemporanea moderna. Si notino i perfetti endecasillabi, la vocazione al racconto svolto in prosa poetica, al convivio del massimo poeta apparso sulla Terra, Figlio dell’Uomo e figlio di Dio, in una storia infinita che sempre si rinnova in Banchetto, “Resti lontano ogni bacio dai pallidi ulivi / ma resti appeso / ai rami sterili di un fico / dove allignerà per sempre / un’algida maledizione”.
Natino Lucente dimostra di essere poeta del suo tempo, bene radicato nell’attualità materiale e terragna dei giorni nostri – così violenti e così irresponsabilmente svagati – ma contemporaneamente dimostra anche di svuotare gli archivi della memoria recente degli ultimi due secoli di letteratura, e di sapere e di volere mescolare insieme le carte di ieri e di oggi, il sacro con il profano, il capriccio con la concretezza, il dolore con la luce, l’attesa del futuro con la nostalgia del passato, e agisce in modo tale da ricomporre almeno il simulacro dell’alta poesia che ci ha preceduto e la parvenza illusoria di quella sensazione di magica fuga dalla realtà che la poesia solitamente suscita nel lettore.

Sandro Gros-Pietro

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