PREFAZIONE

A Edith Dzieduszycka
risalita dalle care o più aspre ombre
alla linfa fervida di Luce

L’incipit è cautamente ironico, ma insieme acceso da una fortissima volizione conoscitiva. Tempo, spazio… qui per fortuna saltano, ruotano, sfumano o si sbriciolano, così come tutte le altre risapute, ma in poesia sterili categorie: tutte tranne le direttive, i punti cardinali irrinunciabili della mente e del cuore, della fede che si fa pensiero…

          Minuti
          cinque
          mi do cinque minuti
          minute briciole rubate alla ragione
          per estrarre
          furtiva
          …

Curioso annotarlo, ma qui Edith Dzieduszycka pare animata, suffragata da una di quella istintive, connaturate illuminazioni care a Leonardo, che fra pensiero e ragione, corpo e anima, non pone giustamente confini, ostici e dottrinali, ma riconduce semmai il tutto al flusso sacro e concreto degli eventi umani, d’ogni destino armonioso perché umanato: “Il corpo nostro è sottoposto al cielo e lo cielo è sottoposto allo spirito.”…
Forse davvero, ciò che lei ha scritto, o ancora sta scrivendo, distillerà ispirata a oltranza – così come io davvero l’ammiro, la sento vivere – sarà una continua e ben lieta sorpresa, anche per tanti critici ormai stanchi o delusi, purtroppo adusi alla mediocre, troppo spesso affettata o recitata produzione corrente…
Elevare invece a sistema, immaginativo e sensoriale, emotivo ma per ciò stesso etico – ecco il gesto, il metodo, il rischio finalmente salvifico! – poche minute briciole rubate alla ragione; ma più ancora (sembra una finissima movenza, adorabilmente femminile, da quadro di interno), estrarre / furtiva / dalla mia cesta / un frutto / un fiore // perché no un pensiero // con cui giocare / inventare una storia / risvegliare i tizzoni
E non è finito: né l’arduo, avvolgente proposito di decifrare il visibile, il vissuto, il percepibile; né il gioco serissimo, insieme reale e sognante – dunque vissuto quasi due volte:

          e se non ci riesco
          spengere la candela
          per nel sogno afferrare
          l’invisibile filo
          che mi ci porta.

Aleggia Shakespeare, il che non guasta (“Spengiti, spengiti, breve candela”… Macbeth; “siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”… La tempesta): ma quell’imperativo dolce e suadente – nel sogno afferrare – e per giunta l’invisibile filo / che mi ci porta – ma soprattutto la clausola finale (… e se non ci riesco / spengere la candela…), ci conduce lieti, e nuovamente, a una delle più lampeggianti profezie, favola versificata dell’universale genio di Vinci:

          Il lume è foco ingordo sopra la candela.
          
Quella consumando sé consuma.

Anche la Vita Nuova, il primo testo di Dante, breve e magistrale (ininterrotta dedica alla sua Beatrice, o Bice, Portinari), comincia con un sogno. Denso, forte, nitido ma irrelato: “Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa”…
Nel sogno afferrare… La poesia, insomma, come un irrinunciabile, ma anche impalpabile sogno della Ragione?…

          dondola
          cieca e muta e vuota
          la mia barca
          sulle acque fangose del travaglio lunare

Questo nuovo libro di Edith Dzieduszycka, fumigante tra sogno e realtà, nel poetare e afferrare di continuo l’invisibile filo che ci trascina, ma almeno non ci fa smarrire, è testo raro, diamante d’eccezione: è il suo sogno coniugale, trasposto e interminato di Michele (forse perfino vicendevole – quello che Lui potrebbe riflettere e divinare arcano di Lei: sogno scambiato, diciamo pure, dal cuore all’iperuranio…).
Di libri, Edith ne ha scritti tanti, sempre buoni, “abili”… Ma Alghe e fanghiglia rivela, e possiede davvero, qualcosa di più: qui le parole, lo ripetiamo, sono sogni, fanghiglia onirica e detriti d’archetipi, figurazioni, tessuti di pelle, derma sacro dell’anima… I sogni del giorno ripensati, raddoppiati, filtrati e risognati la notte… “quei sogni del giorno che vorrei cancellare”… Effusi eppure concreti, materializzati per un traslato invece di pura essenza…

          ma nel buio rimangono
          ostinate presenze dall’andare felpato…

Non poco commosso e costantemente emozionato, prima di scrivere di quest’ultimo suo poetare, ho riletto tutti (o quasi) i suoi libri, quelli struggenti e rivelatori, gnomici e drammatici, decisivi come un documento, una pubblica e privata tappa esistenziale (Diario di un addio, L’oltre andare, Nella notte un treno, Cellule, Trivella…); ma anche gli altri, invece talvolta manierati, cesellati in gioia ed estro dello stile, languidamente cadenzati a divertissement
Mi sono anche immerso nelle sue mirabili foto d’arte; riconsiderando una produzione espressiva sempre elegante e necessaria, necessitata appunto dall’estro, dal richiamo ispirativo, e da una sorvegliata, certo, ma fervorosa e magnanima educazione emotiva, dedizione al Bello: Histoires d’eau, Couleur du temps, Feuillages, sino agli Strati astratti

Ho memoria di cose impercettibili
cose che di noi
solo noi sapevamo
cose di tutti i giorni
scevre di lassitudine
cresciute insieme a noi
rosario d’abitudini
segreti dell’amore
e della tenerezza
gesti riti sapori
sepolti insieme a te.

***

Edith scrive sempre, in fondo, preghiere laiche. Con la bellezza di una fede vera nella vita, che l’ha fatta bella. E l’ha resa, diciamolo, vedova ma eterna cantatrice di Bellezza – un soprano dispiegato o sottaciuto, sussurrante, dell’Essere; ma che, per farlo bene, cantarsi in ogni nota della vasta, irripetibile partitura che ci è concessa, deve attraversare, esplorare e varcare fino alla Luce tutta una nuova Genesi, una caverna inselvata di Dolore.

          Barriera o capolinea
          il fermo credere di avere raggiunto
          dell’abisso
          il fondo
          Certezza all’incontrario
          diversa fede
          di altra convinzione il rovescio?

È sempre un viaggio dantesco, il nostro. Ma – ecco la novità – qui dobbiamo arrischiare, osare (e in fondo anche giocare, nel senso bello, libero e fluido del termine) una intuizione critica oltranzista e osé, squisitamente sub specie feminina.
Un viaggio, nuovamente itinerarium mentis ad Deum, epperò in vicenda e corpo di donna, moglie, madre, cittadina del mondo: a sua volta Lei stessa figlia, nipote, discendente di figure amorose, e piccole-grandi ma sempre preziosissime vicende storiche, a partire dall’Alsazia-Lorena avita, che ha amato e sofferto – una delle regioni più contese e combattute d’Europa – come simbolo delle radici stesse del nostro continente, radici saldissime ma nutrite da ansie erratiche, prove durissime, e finalmente l’ininterrotta Recherche di un dolcissimo, esemplare, ora, Tempo Ritrovato…

          Avventurarsi al buio a piedi nudi
          su terra sconosciuta
          Non ho io certezza
          né quella né il suo contrario
          Mi meraviglia il solo vivere.

Leggere, risalire, liberarsi da queste Alghe e da questa fanghiglia: ma come se si potesse, si riuscisse realmente a immaginare una discesa di Beatrice nell’inferno del mondo… Mai in fondo era stata scritta, forse nemmeno immaginata… per la Creatura che discesa a miracol mostrare, additava e aiutava solo e sempre a salire, ascendere, elevarsi al Bene (molto al di là delle eterne, fin troppo illustri biografie poetiche, gli sliricati romanzi esistenziali delle grandi poetesse del ’900, per cui la vita è stata inferno, talvolta purgatorio, quasi mai paradiso di luce: dalla Achmatova alla Cvetaeva, da Amelia Rosselli a Sylvia Plath, dalla Bachmann alla stessa Alda Merini)…

          Dentro sé stesso
          scendere sul fondo irraggiungibile
          e nel mentre raspare
          incrostazioni
          ruggine
          asperità e nodi
          frugare ogni livello
          senza tregua forare
          fintanto si riesca
          a strappare alla melma
          filamenti
          scintille
          de sé l’essenza ancora ignota

Scendere invece in semplicità – umiltà sofferente e all’unisono, al contempo perfecta letitia, forse francescana o quasi d’inconscio –: ecco il nuovo umile ma destinato miracolo, fino alla sorgente angusta, petrosa della Luce (come una vena prodigiosa d’acqua, prima incredula, errabonda di malessere, peregrinante attraverso e dentro decenni che sono stati, ma non sono più): e da lì, proprio e solo da lì, ripartire, alfabetizzare il cuore, le movenze o mancanze dell’anima; per meritare, investigare questa volta un Linguaggio, finanche poetico, che non sia mai più semplice, statica eredità acquisita, preziosità ricevuta: ma un qualcosa di nudo e cruciale da ritrovare, recuperare e meritare proprio grazie e lungo il percorso.

          Da siffatti detriti
          scandagliati con cura
          speri di ricavare facendone tesoro
          evanescenti tracce
          indizi insoliti
          fanghiglia fatiscente
          movenze subdole del tuo fermentare.

In soli sette versi, Edith lievita, ci conduce dai detriti (ma scandagliati, periziati, fatti tesoro) al fermentare (passando per gli indizi, le tracce, la fanghiglia in metafora del vivere)… E “fermentare” è verbo di ben nobile auspicio: fermenta il mosto per darci il vino, fermentano (migliorano) le idee… anche le ribellioni, le ansie (“l’anima fermentava di paure” è una nobile analogia di Stuparich)…
Edith s’incammina e sogna – o forse è proprio il sogno il suo cammino: di notte o giorno, ancor più ad occhi aperti.
Un suo (ed anche nostro) nuovo, paziente e talvolta inquieto, ma caparbio e benevolo Cammino di Santiago, l’idea che la fede – laica, s’intende, ma la fede non vuole, non sopporta aggettivi – la fede ci salva, la tua fede ti ha salvato… La fede che è sempre umile figlia dell’Altissimo:

          La chiave di quel racconto
          la teneva mia madre
          nella tasca profonda del suo vestito
          oramai troppo grande.

          Ogni tanto la sera
          vicino a lei esausta
          noi cinque donne – io la più piccina –
          presente e bruciante l’assenza di mio padre
          sentivamo incredule la storia tragica
          dei quattro mesi d’incubo
          nel luogo da lei chiamato
          Casa delle sofferenze.
          ……………

Splendida, la figura insieme struggente e indelebile, esemplare e mitica della madre, Geneviève de Hody (di cui ha curato e tradotto La maison des souffrances, diario dell’esperienza nella prigione militare tedesca di Clermont-Ferrand). E belle davvero tutte, le liriche di Edith legate all’infanzia: ai suoi anni verdi ma duri, allibiti di smarrimento e insieme di silenziosa, acerrima cognizione del dolore – familiare e storico, intimissimo e insieme epocale.
Una poesia radicata e sempre in gemma, come una vicenda, delle immagini ferme per sempre nella camera oscura che poi conduce alla retina radiosa, all’uscita poetica, fulcro, atrio, endocardio del suo (e forse anche nostro) cuore, vestibolo d’ombra e confine di luce.

          Per i miei cinque anni
          regalata mi fu una colomba bianca
          bestiolina gentile che nominai Justine.
          Aperta la sua gabbia svolazzava felice
          andando a posarsi sulla spalla o la testa
          di chi la invitava.

***

Edith ha sempre fatto questo, con le sue poesie: ha ordito, costruito, inanellato un percorso che ora, finalmente, riusciamo in toto a riaggregare in progetto, a svelare vastissimo e minuziosamente rimettere a posto, orchestrare insieme… Come fosse l’architettura, il meritato miraggio d’un Golfo Mistico, e non più l’orrido o incubo inesorabile, i baratri intermittenti e romanzeschi della Vita, la pena insieme di Essere e Tempo, e insomma il novecentesco, fastidiosamente assuefatto ormai, ma in ogni caso dissonante, malinconico, male di vivere… E nostro (in)civile teatro dell’Assurdo…

          Stanze della mia anima
          innumerevoli
          sparpagliate smaniose
          intorno al nocciolo
          riluttanti alcune
          si chiudono a riccio
          e si ritraggono
          ferite per il graffio di un respiro

Ma glissiamo sulle strategie o disquisizioni letterarie – che certo non sono sue, ma semmai debolezza, ahinoi, consuetudine e habitus mentale dei critici, le etichette che tanto amiamo attaccare – e torniamo alla pura, fresca sorgente, fons Bandusia del suo linguaggio, e all’interminabile viottolo di luce che anche Lei ha condotto dalla Selva oscura a una divina foresta che ha guadato, oltrepassato la Storia fino alla fertile plaga e contrada dell’Amore…
La poesia, ecco, sono tutte le Alghe e la fanghiglia che Edith ha varcato e superato, ma insieme le sono rimaste addosso, infibrate in un corpo fisico perché poetico che come per miracolo ha lenito, suturato le sue stesse ferite di percorso – i detriti morali e mentali – le tante spine incarnate, incistate nella pena educata, a tratti lieve, di una docile, quotidiana, rasserenante, perfino, via Crucis.

          percepire il ronzio che lancinante
          sale dall’oscuro cespuglio del nostro sottobosco
          attenti coricarsi
          contro il corpo assente
          di semi gravido della nostra anima
          cullarli
          farli crescere o sradicarli
          creature selvatiche.

Continua il ribaltamento: se qui, più che altrove, Edith ha presentito e sofferto davvero come una drammatica, inopinata Comoedìa anche di Beatrice, discesa agli inferi e poi risalita dalle care o più aspre ombre alla linfa Luce, in un purgatorio di saggezza e verso un paradiso che non ha altri confini e braccia a noi protese che il vero Amore, il coniugio mai terminato se adempiuto, miracolato promessa dopo promessa; e la promessa, come Anima o Poesia sancita, ci incorona, qui la fa umile Regina, piccola sovrana del Bene, ecce ancilla Boni

          …

          cambiando l’emisperio, si dilibra,
          tanto, col vólto di riso dipinto,
          si tacque Beatrice riguardando
          fiso nel punto che m’aveva vinto.
          Poi cominciò: “Io dico, e non dimando,
          quel che tu vuoli udir, perch’io l’ho visto
          là ’ve s’appunta ogni ubi e ogni quando.

                              (Paradiso, XXIX, 7-12)

Qui, più che altrove, ogni poesia è un fazzoletto con cui Edith/Veronica ha nettato, asciugato non le lacrime e il sudore sanguinolente del Cristo che è in ogni povero cristo, uomo che soffre (il compianto Michele) – ma sopra il suo stesso, caro e docile viso angustiato nel breve ma pungente Calvario quotidiano che troppe volte ci risucchia, ci lambisce, ci reclama a conoscerlo, il Dolore: e come Dio, non nominarlo mai invano…

          Si pesa la sofferenza
          si misura il dolore
          Per fare statistiche
          si calcola con cura
          la conta dei dispersi
          E del sangue che gronda
          come formula vuole
          del sangue che si fa?

***

Nominalismo per nominalismo – e tornando al titolo, Alghe e fanghiglia, qui le alghe (ben al di là della loro sempre maggiore importanza dietologica e nutritiva: quasi una scommessa per il futuro) richiamano e rimandano alla pura e acquatile essenza del sogno, alle ombre cupe o verdeggianti, rischiarate nella notte blu d’ogni sana, sacrosanta deriva onirica…

          Per il piacere insano di rimestare
          ho grattato il fondo della mia memoria
          e raschiato la crosta alle sue pareti
          concrezioni grigiastre incistate al punto
          di diventare pietra
          ne ho estratto i sogni rimasti lì sepolti
          lividi bozzoli sonnolenti nel buio
          ……………….

Mentre la fanghiglia rimanderebbe semmai, comunemente, al significato di un semplice strato di melma fangosa… Ma nell’accezione geologica della geografia fisica (ad esempio, la “fanghiglia glaciale”), diventa molto di più, in un fascinoso, inopinato ondeggiare tra dimensione fisica e metafisica: è infatti il deposito di particelle finissime che si forma in seguito all’abrasione delle rocce, operata dai ghiacciai…
Ricordo un passaggio molto bello di Valerio Magrelli, una prosa lirica dagli Esercizi di tiptologia (1992), “L’anti-Mazur”, in cui il nostro (in una deriva o rarefazione psicologica davvero post-kafkiana), si sente “talpa” e scava, scava “sotto la coscienza”:
“(Letto su un’inserzione pubblicitaria, del folle ingegnere russo intento a penetrare sotto terra, il più sotto possibile, trivella e gorgo, gurgite e revertigine, scienziato della notte e della nera terra. Pozzo di Kola, a settentrione del circolo polare: per ventimila metri, nelle viscere cristalline della Grande Carcassa Catastale, Vladimir Borísovich Mazur sfoglia la crosta del pianeta e scende. Scende, mentre io sto salendo dal fondo del mio buio).”
“Ah, che voglia di scrivere,” – ammette e confessa Valerio – “che voglia di zappettare ancora in quella fanghiglia, in quella famiglia di fango, a mia volta, di intingere la mia lunga penna d’oca nella lingua dell’idolo spiantato, sbucato, cresciuto, nel seminato di questo tavolo operatorio.”…
Edith raccoglie, quasi colleziona alghe, e zappetta, scava, rimuove fanghiglia. Fanghiglia e detriti, scarti del vivere e del pianeta. Può tutto questo condurci, quasi arare, sarchiare e riseminare poesia? Eccome…

          Nell’alba appena schiusa seminava il grano
          sul fazzoletto angusto del loro campo
          ove con millenaria e sagace perizia
          alla terra matrigna cercava di carpire
          il cibo necessario alla loro sussistenza.
          Caro lo pagava con una schiena curva
          la camicia sudata e le mani callose
          ma con la mente libera.

E i detriti spesso nominati, perfino invocati, nella fitta trama del libro, rimandano forse ai fascinosi e inquieti metodi artistici, espressivi, di chi col materiale, solo col materiale di recupero, ha avuto voglia di continuare a intavolare, osare un onesto e nudo discorso espressivo. Pensiamo, tanto per dire, a Jean Dubuffet… insomma a tutta una certa art brut che in nome della spontaneità del bambino, del semplice, perfino della pazzia, e contro l’imperio intellettualistico dell’astratto, la moda dell’informale… raccoglie scaglie e scorie e le reinventa, le rinnova a graffito, un po’ come in fondo facciamo con le parole dei nostri stanchi e frustri alfabeti, specie poetici…

          è sparita anche quella
          risucchiata nel gorgo in cui spariscono
          d’una memoria labile i ritrosi detriti.

Lo capì del resto Eugenio Montale già all’inizio del secolo scorso (Ossi di seppia, 1925),quando l’Europa, in piena, tronfia e contagiosa retorica fascista, invece di darsi pace dopo la Grande Guerra, preparava accuratamente, proditoriamente, un altro Conflitto Mondiale, assai peggiore del precedente:

          Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
          l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
          lo dichiari e risplenda come un croco
          perduto in mezzo a un polveroso prato……

***

Qui Edith Dzieduszycka è soverchiata, annichilita e angustiata dalle parole; esse l’assediano da ogni dove (come fin troppo spesso nei suoi libri: che giocano e s’addestrano quasi sempre a imbrigliarle, domarle – queste effuse ma coraggiose parole – tra fantasia e destino esistenziale)…
E invece la sua arte, o fede e preghiera, torna alla giusta voglia di sceglierle, rinnegarle perfino, testarsele nuovamente tutte, degne o indegne d’anima, care e soffuse al suo corpo, come carezze giuste e condivise, sguardi riflessi, amorosi solo se congiunti a specchio:

          Potessimo estrarre
          dalle parole dette
          lette o sentite
          un materiale denso
          corposo nutriente?
          Sarebbe forse miele
          brodo
          carne al sangue
          pietanza urticante che brucia
          e consuma
          Invece è solo aria
          che si perde nel vento.

Allora, se la parola – le parole – non giungono più ad aprirci il mondo, tutti i migliori mondi possibili, valgano, restino almeno a redimerci il male e i travagli, ad aprirci e riaprirci il cuore… Il cuore risanato:

          Tranquilla va lasciata la crosta d’una ferita.
          Non va sollecitata
          sollevata
          strappata
          facendo sanguinare nuovamente la piaga.

Le alghe e la fanghiglia di Edith sono gli stessi, sempiterni, scarti o detriti del mondo – dunque anche gli stessi, i medesimi nostri, ansie o gemme schiantate, virgulti feriti eppure anche e ancora fiori da far fiorire, e soprattutto capire, carpire dentro.

          Quante storie galleggiano
          in fondo a precipizi
          storie da raccontare
          se ne rimane vivo
          il ricordo
          la sera
          in cerchio rannicchiati
          davanti al camino

Capirli voci e volti, parole cui rispondere, con cui dialogare anche in silenzio, o nell’essenza di un Paradiso – cantava Sandro Penna – “altissimo e confuso”… Questo l’insegnamento più bello del libro di Edith, che è anch’essa umile allieva della Vita arcinota, e ancella dell’Ignoto:

          Non è presuntuoso
          parlare e scrivere di quello che non c’è
          discorrere d’ignoto
          che tale e quale sempre
          – lo si sa – rimarrà?

Alghe e fanghiglia della Storia, di ogni storia piccola o grande che ci chieda di non essere pavidi mai più, o peggio indifferenti agli oltraggi all’Uomo, al Bene…

– Che notizie mi date dal fronte degli eventi?

Ci chieda, esiga piccoli e buoni e sani eroismi quotidiani, anche quello di raccattar parole, raccoglierle, carpirle (e prima sceglierle, onorarle, staccarle, strapparle via da l’orlo bavoso e muto della memoria) come i fiori di campo che si portavano poi a casa, o si donavano in convegno campestre o cittadino agli amori semplici e assoluti, fidanzati al Tempo che non delude, se sconfina sempre e solo nella Luce.

Ali sul mio collo
ricordo le tue mani.

Poi confluisce, d’acqua dolce, nell’immenso oceano: salato dell’Ignoto.

(agosto/settembre 2019)

Plinio Perilli

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