PREFAZIONE

Nella poesia di Elena Arena Lancia si atteggia a sempre nuove figurazioni la composizione di un’orchestra di monadi poetiche, così come avviene nel visore del caleidoscopio, che imprime nei nostri occhi sempre differenti combinazioni degli stessi elementi contenuti nell’apparecchio. È certamente una metafora forzata paragonare la poetica della brava scrittrice a un caleidoscopio, perché nessuno marchingegno, per raffinato e complesso che sia, può rivaleggiare con l’indefinita capacità di modificazione, revisione, improvvisazione, accoppiamento e costruzione delle immagini che sa operare la mente della poetessa. Ma la metafora – se si accetta in partenza che è un poco scombiccherata – trova la sua validità nell’identico processo attraverso cui si costruisce la poesia di Elena Arena Lancia ovvero si programmano le immagini del caleidoscopio. Il primo segreto per ottenere tale risultato è selezionare i cristalli colorati da mettere nel visore. Fuori di metafora, ciò significa costruire il linguaggio della poesia, cioè selezionare con puntigliosa acribia i modi, le forme, i contenuti di tutto ciò che è dicibile in versi, escludendo dal tubo magico delle belle visioni il resto della realtà. Si ottiene, allora, una visione e una descrizione altamente selezionata e polarizzata del mondo reale. Il lettore che legge questo libro di poesia – congegnato secondo il criterio rigoroso e stabilito di una poetica bene identificata – non si documenta sulla realtà del mondo, ma si lascia affascinare dalla artistica “deformazione poetica” del reale che la poetessa ha ideato. Tutto ciò vale, ovviamente, per gli scrittori che si rifanno alla splendente tradizione letteraria del “fare poesia”, che richiede, per l’appunto, la teoria del linguaggio della poesia, altresì detta poetica. Sono questi gli scrittori della “erbosa riva”. Referenza della poesia, quelli cioè che seguono la sponda del fiume innovativo della tradizione, ma mai dimentico del passato, e rimontando il quale, anzi, si potrebbe risalire fino alla fonte originaria della nostra civiltà letteraria, che come bene si sa trae le mosse dalla mitologia pagana della Grecia classica e dalla tradizione religiosa sia della Bibbia sia delle letterature religiose delle antiche civiltà orientali dell’Asia Minore. Questa breve, e forse un poco pedante premessa, era necessaria per arrivare a dire, con pienezza di significazioni possibili, che Elena Arena Lancia appartiene al novero egregio dei poeti che si preoccupano di stabilire il linguaggio della poesia e che, quindi, non concepiscono il riempimento casuale e azzardato del foglio scandito in versi sulla base dell’impulso occasionale del quotidiano, ma che, al contrario, volta a volta “traducono” ovvero “deformano” l’occasione proveniente dal mondo del quotidiano in “materiale poetico”, cioè in espressione selezionata della “lingua della poesia”. I modi, le forme, i contenuti: sono queste le tre colonne del linguaggio poetico. Il modo di Elena Arena Lancia con cui la poesia si palesa è sempre quello di una antica ferita che improvvisamente duole. E il dolore ungarettiano si manifesta presso la poetessa siciliana in un concento di stupore nostalgico e di accorato compianto, e si colora sia di evocazione ravvivante di ciò che fu il passato sia di mesta afflizione per lo scialo delle occasioni perdute: “Risento il suono dell’organo / e il pianto di una bambina disperata / che si concedeva la disubbidienza / perché tanto sarebbe morta da lì a poco / ed allora rimpianta e perdonata”. L’antica ferita è la finestra aperta sui volti delle persone care, sugli affetti perduti, sulle emozioni forti della vita, il fantasticare delle attese e il tramonto delle illusioni. Ma l’antica ferita è anche il ponte razionale dei collegamenti logici e degli scatti di difesa, meditati e sofferti, cui l’esistenza conduce: “Non ho varcato quella soglia / ho preferito il dolore alle sue spire; / ignorando la spina dei ricordi / con sconcertante naturalezza / ho infranto schemi e prassi consuete / tentando una salvezza / di pïetas, fuggevoli istanti / e incauti barlumi di speranza”. Le forme attraverso cui si manifesta la poesia di Elena Arena Lancia consistono nell’adozione di versi liberi, essenziali e scarni, come fossero iscrizioni lapidarie, ma nitidi e perfetti, concatenati insieme per connessioni sovente analogiche più che per nessi logici, con salti del discorso, traguardi improvvisi, aperture e sospensioni: “Una striscia luminosa sfreccia nell’oscurità / non dormono sul treno che corre. // Spazio accanto a me / e libri sparsi in libertà / come i sogni, le chimere e il fuoco / io come il fuoco / “nessuno lo imprigiona” dice la notte / e parla solo a me / ma ho tanto freddo ora / finita è l’estate / ed anche il fuoco muore”. Altre volte, la forma assume l’andamento piano e sussurrato della testo confessionale, poesia del dialogo interiore redatto in forma di ricapitolazione conclusiva dei percorsi di vita e del cuore, rivisitati da un’analisi a posteriori: “Basta… ho finito / sempre in attesa del definitivo / ti lascio alla saldezza dei tuoi giorni / chiari, puliti e “certi” oltre ogni dire / niente più disordine e incertezza / non più paura dell’attimo irruente / che irrompe con asprezza / altrove sarà la mia tempesta / e alla mia festa sia presente un mimo / non più parole ormai, né mie né tue”. I contenuti sono ispirati a un’idea astratta di concentrazione della varietà del mondo e delle occasioni della vita, come se fosse compito preciso del poeta distillare dalla massa ribollente del mosto quel nettare conclusivo che sempre ritorna come succo essenziale dell’esperienza umana: la riflessione sulla morte, l’ansia di ricerca del vero, il dialogo con la profondità del proprio io, l’impegno civile verso i deboli e le vittime del tempo e dei violenti, la catena degli affetti familiari e il conforto dell’amicizia, l’amore. Un curioso contenuto, che ricorre senza tuttavia mai rappresentare un’ansia e che piuttosto esprime l’esigenza “professionale” di correttezza verso la scrittura, è la misura rigorosa del dire poetico e dell’uso delle parole come esercizio abituale e quotidiano di tastiera: “Ho una tristezza fonda e sconfinata / più di sempre – semmai ebbero un senso – / le parole vacue, nebulose, sfuggenti / che già tradiscono, senza colpo ferire, / gli accadimenti del nostro quotidiano / hanno in pugno la sorte degli eventi. // Protagoniste e serve al tempo stesso / nei forbiti convegni vengono usate al meglio”. Altrove leggiamo, nella compostezza di una lieve ironia recriminatoria: “Dice il mentore / dal dire saggio e dalla mente pura / “la forma” curi “la forma” / ma oscuro è il mio retaggio / è erto il muro del silenzio eterno / su ciò che ha stretto / l’anima ed i sensi / di chi ha perduto anche il proprio inferno”.
Nella decorosa, ma mai assillante, attenzione al modo, alla forma e al contenuto si sviluppa la poesia di Elena Arena Lancia come dialogo che emerge dalle profondità dell’animo del poeta e dal recupero del tempo passato e che si organizza sul testo nella libertà di un verso tanto essenziale quanto chiaro e schietto. La parola è sempre aderente a una purezza di significato e a una congruenza di allusioni pertinenti all’avventura della vita, in un’eco di memoria letteraria che si colloca intorno all’ambiente del secondo ermetismo fiorentino di Mario Luzi, con una particolare sensibilità per il binomio dicotomico dell’essere e del divenire e per la pena affaticante di affrontare le insensatezze della vita e le sue contraddizioni, finché si compone la luce superiore di una pïetas amorevole, rivolta all’intera umanità.

Sandro Gros-Pietro

Anno Edizione

Autore

Collana

Recensioni

Non ci sono ancora recensioni.

Scrivi per primo la recensione per “Alibi”

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati