Prefazione

Arcobaleno / in cui l’arca ormeggia / dei sogni

Sono i versi con i quali si apre quest’ultima silloge di Armando Santinato. Solo tre versi, sette parole a costituire un’intera poesia, la prima della raccolta; il suo titolo Tu. Il nostro poeta ci aveva già abituato, nelle sue precedenti opere, alla concisione drastica dello stile, alla essenzialità dei contenuti, a quello che definirei il lampo lirico. Sono tanti i modi e le tecniche per fare poesia e questo ne è il punto di forza, che la rende assolutamente irripetibile come irripetibile è ogni persona, pur nella sterminata molteplicità degli individui. Chi ha avuto la buona ventura di leggere anche uno solo dei libri di Santinato, quando dovesse trovarsi a leggere, senza saperne l’autore, una sua poesia, ne individuerebbe immediatamente la paternità. Il suo verso è il suo biglietto da visita, esibendo il quale, si rimane invitati al convivio da lui imbandito per nutrirsi e gustare in modo raffinato il dono della poesia.
Scrive il critico Elio Monterisi, nella presentazione del libro Tentazioni simboliche: ‘A quando la tetralogia?’, riferendosi alle tre sillogi poetiche di Armando Santinato: Tentazioni liriche, Tentazioni mistiche, Tentazioni simboliche. Senonché il Nostro, prima con Trattato lirico di cocente gelosia del 2010 ed ora con All’ombra dei tuoi occhi, non ha proseguito nelle sue tentazioni, ma si è fatto tentare dall’argomento principe della poesia di ogni tempo, che è l’amore. Le pagine che leggerete tra poco sono essenzialmente un canto all’amore, sviluppato su un pentagramma a sostegno di una composizione sempre nuova, sempre varia di effetti. Così, prendendo una poesia a caso, Rita di Rocca Canavese, e, leggendo il verso “i gesti di una fata fra la gente”, par di sentire la musicalità della famosa romanza di Francesco Paolo Tosti: Malia, quando nei versi di Rocco Pagliara romanticamente dice: “… non ti chiedo se ninfa se fata / se una bionda parvenza eri tu”. E che mai, se non una musica, riecheggia in questi versi: “Arpeggi notturni / di fate morgane sulle creste dell’onda”, nella poesia Scolpita di neve; così come par di sentire il suono dei rintocchi nei versi: “Sul muro / s’è fermato il pendolo del tem­po”, a voler mestamente sottolineare che “Lei / non c’è più”, nella poesia: Non c’è più. Musica ancora ne “Le campane / piangono il giorno / a chi non porta un fiore” (Sulla spiaggia di Pesaro) ed anche laddove il silenzio sembra precluderle la strada, ecco riapparire la musica: “Sotto pagliai di stelle / singhiozza l’arpa / del silenzio” (Il passo dell’ombra).
Come spessissimo capita ai poeti, anche Santinato, nel cantare l’amore, non riesce a sottrarsi a quei sentimenti che finiscono con l’affiancarlo tutte le volte che l’amore si fa rimpianto, tristezza, delusione: sono la no­stalgia, la solitudine, la gelosia. E infatti, nella poesia Nostalgia, si dà una definizione dell’omonimo sentimento: “Nostalgia / che porti voci dolenti / volgi lo stanco percorso del volo / là dove gli occhi si fanno ridenti”.
Il tema della solitudine emerge con chiara evidenza in questa silloge così come era stato nella precedente, Trattato lirico di cocente gelosia. In una mia recensione a quest’ultima, apparsa alle pagg. 246-247 della Rivista “Vernice” Anno XVIII n° 46/47, parlo della solitudine in Santinato come di un vero e proprio Leitmotiv. Nella presente opera, il poeta mette a braccetto malinconia e solitudine, come nelle liriche A te con flebile sussurro: “Dì alla malinconia / di non bruciare le poche foglie / rimaste nel grembo della solitudine” e Amor che nella mente mi ragioni (titolo preso interamente dal verso 112 del II Canto del Purgatorio della Divina Commedia): “Ogni malinconia / respingi fra le cure pungenti / di ma­donna solitudine” e questo suo sentire si fa struggente, quando, in Stella del mattino, apre tre terzine consecutive con la parola solo: “Solo / m’hai lasciato / fra le coltri della notte – Solo / nel fuoco / che non si consuma – Solo / nella fiamma / che il ceppo ricopre d’ogni dolore”, e, tutto questo, perché “Sul petto / non mi resta / che la clessidra vuota del tuo amore”. Vedremo poi, nella li­rica che chiude la raccolta Abba, Pater!, che la solitudine nel nostro poeta non è solo quella amorosa, ma è an­che solitudine sic et simpliciter, quale condizione abituale e intima dell’uomo, inseparabile da ognuno di noi, e qui Santinato si gemella con Montale. Solo che in Montale la solitudine è l’anticamera del pessimismo, mentre in Santinato, che è un fervente credente, anche i sentimenti, che potremmo definire non lieti, si stemperano nella forza consolatrice del divino. E, infatti, la poesia poco prima citata, ha il linguaggio di una confessione e di uno sfogo rivolto a Dio: “oggi / Signore / mi sento so­lo / come un bicchiere vuoto / sulla botte dell’universo”.
Nostalgia e solitudine, ma anche la gelosia si ap­parenta all’amore e, in quest’opera, sono ancora presenti gli echi del Trattato lirico di cocente gelosia: da Non ti credere vincente a Vir fidelis a Occhi di cerbiatta: “Ricordi / le tue lacrime / pungenti di gelosia – Pure / a distanza / ho saputo che hai ritrovato l’amore – Gelosa e caparbia / come una mula che ama il padrone // Gelosa / come una cocherina / che abbaia alla luna”.
In un lavoro, il cui tema dichiarato è l’amore, sa­rebbe riduttivo l’attendersi che All’ombra dei tuoi occhi divampi unicamente il sentimento riservato a una donna. E allora Santinato, che qui si fa quasi sensualmente autobiografico, ci insegna che a meritare il nostro amore possono essere una nostra città di adozione (per lui è stata Torino), celebrata in Elegia Taurinense, della quale egli già in Tentazioni liriche e in Trattato lirico di cocente gelosia aveva scritto Torino tu sei la mia città o una città nella quale abbiamo riposto dei momenti più cari della nostra esistenza (per lui è Pesaro, presente nelle poesie Pesaro e Sulla spiaggia di Pesaro) o luoghi della nostra nascita e infanzia (per lui La mia laguna, poesia qui giustamente ripresa dalle citate Tentazioni liriche e Trattato lirico di cocente gelosia per l’altissimo lirismo che le pervade) o amici che hanno condiviso con noi momenti cruciali della vita (per lui i compagni del Collegio di Mi­rabello e i compagni che nel 1950 migrarono con lui dal Veneto in Piemonte, tutti scrupolosamente citati nelle epigrafi didascaliche che accompagnano Elogio di un noviziato e Monotonia d’un’esperienza) o amici scomparsi (come è per lui il Mon Ami della poesia omonima, un amico non citato per nome, ma certamente assai caro, tanto da fargli confessare che “Sento un pari destino / segnare il passo del corso mio breve … commosso e me­sto ti seguo vicino”, in una visione fatale, ma non disperata della morte). E, nel cantare l’amore, Ar­man­do Santinato non poteva tralasciare il suo amore più fervido, quello per il nostro Signore e per la di Lui madre. Una ricerca spasmodica, ma gaudiosa del divino, sempre presente in tutte le sue opere. Qui, nella poesia Miserere, quella ricerca si fa preghiera, la preghiera del peccatore che si duole dell’ineluttabilità del peccato, ma sa che nel Signore si può trovare misericordia e perdono: “Signore / mi copre la coltre / del mio peccato / eppure / ti cerco pur nel peccato / Signore”. Poi quello per la Santa Vergine, che è un amore che si veste di tenero, come quello che si deve a una madre, tanto che il nostro poeta, per cantarlo nel modo più degno, nella lirica Madre del mio Signore, temendo i suoi versi inadeguati, inserisce tra essi quelli danteschi del XXXIII Canto del Paradiso dal­la “Divina Commedia”: “… fi­glia del tuo figlio / Umile ed alta più che creatura / termine fisso d’eterno consiglio” e, quando i versi tornano ad essere i suoi, “per te / luce da luce / piove dal monte”, riportano, nella musicalità e nel contenuto, quelle di un altro grandissimo, il Pe­trarca, che, nelle Rime sparse, chiama la Madonna “Vergine bella, che di sol vestita, / coronata di stelle, al som­mo Sole”.
Non è facile fare una prefazione per un libro come questo, tali e tante sono le figurazioni, le metafore, le al­legorie, le trovate espressive in esso contenute, in un cromatismo opportunamente distribuito. Pur salvando il filo tematico di ogni composizione, la poesia di Santinato non è un ragionamento o una descrizione compiuta, sibbene una serie di sensazioni, di impressioni, di emozioni, lanciate lì in modo allusivo e sfumato, quasi a in­vitare il lettore a comporne il puzzle per ricavarne la compiutezza e la certezza del concetto. È per questo che definirei lo stile del Santinato impressionismo musicale. Non so se e quanto potrà riuscirgli gradito questo accostamento al grande movimento pittorico, antesignano del­l’arte contemporanea. Spero che l’effetto non sia lo stesso che ebbe analogo accostamento su Debussy, che rifiutò sempre con decisione l’etichetta posta alla musica come ‘impressionismo musicale’. In caso contrario, gliene chiedo venia sin d’ora.

Aldo Sisto

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