PREFAZIONE

Il filosofo Gaston Bachelard, ne La poètique de la rêverie sostiene che “Esistono ancora anime per le quali l’amore è il contatto di due poesie, la fusione di due rêveries. Per dire un amore bisogna scriverlo”. Lo scrittore Giuseppe Conte nella prefazione alla raccolta poetica Stanze della mia sposa (Hellas, Firenze, 1987) del compianto Roberto Rossi Testa asserisce che “nel mondo contemporaneo le nostre esperienze quotidiane si svolgono sotto una cappa ineludibile di buio e di squallore” e che, mentre la moltitudine trova nell’Impero del Buio la sua condizione normale di vita, “Altri, pochi,… senza rinnegare la propria sofferenza, la propria maledizione, la propria sterilità, cercano ancora di restituirsi quel mondo della visione dove Bellezza e Luce conservano le loro forme e i loro raggi”. Che rapporto esiste tra le due considerazioni sopramenzionate e la raccolta di liriche dall’impegnativo titolo Amorosa Dea del Maestro Bruno Bosio, alla sua prima pubblicazione in ambito poetico? Gli è che l’Autore si muove sull’arroventato crinale della necessità, da un lato, di dare forma scritta e compiuta al miracolo quasi onirico dell’incontro di due anime che si invera anche nel rapporto carnale, nella conoscenza biblica del rapporto amoroso, e, dall’altro lato, di esprimere l’urgenza sempre più impellente di fare uscire l’uomo dalla landa desolata di eliotiana memoria, dove l’anima si è essiccata e si è lacerato il rapporto con il mondo del simbolo, del mito, del sogno fondante e con la scala dei valori assoluti, i cui gradini sono stati dissestati, frantumati. La poesia di Bruno Bosio anela ai piani alti dell’esistenza, a superare il dasein, il puro esserci qui ed ora, per attingere ad una visione più alta dell’esistere dell’Uomo.
“La bellezza salverà il mondo”, enunciata dal principe Myškin ne L’idiota di Dostoevskij, una sorta di manifesto per un mondo a venire; in altro modo declinata dal già citato Roberto Rossi Testa “Non scacci la Bellezza chi conosce / solo buio e squallore”: queste sono le coordinate lungo le quali si snoda il discorso amoroso dell’Autore, e lo dobbiamo tenere ben presente se vogliamo penetrare nel suo universo poetico. Nel mondo attuale vi è una grande diffidenza nei confronti della poesia d’amore, sia per una reale mancanza di interesse, sia perché vi è la convinzione, radicata e più che legittima, che tutto già sia stato detto, esplicitato, raccontato nei millenni, sia perché troppi sono i “poeti della domenica”, i poeti occasionali che nulla hanno da esprimere, sia per imperizia di scrittura sia per la totale mancanza di un orizzonte poetologico.
Non è, ovviamente, il caso del Nostro, sia per la nobiltà del dettato, sia per l’impianto filosofico lungo il quale si muove. E ne è riprova il recente Sette brevi racconti di confine (Edizioni Capitum, Torino, 2020). In Amorosa Dea, Bruno Bosio, sollecitato forse dall’urgenza del dire, del comunicare, dell’edificare un instrumentum valoriale, sceglie una versificazione classica, lontana da un vacuo sperimentalismo o da discutibili suggestioni dionisiache. Il suo è un vero e proprio itinerarium amoris et cordis che si dipana seguendo le varie fasi dell’innamoramento, seguendo una sorta di curva gaussiana della fenomenologia del vissuto amoroso, dall’estasi iniziale che caratterizza l’incontro con l’altra/o all’invocazione figurata delle morte. Un anonimo francese sostiene che L’amour c’est la mort, facendo chiaro riferimento al desiderio che raggiunge l’acme per poi inevitabilmente spezzarsi, all’atto d’amore che si sublima nell’orgasmo per poi cadere nell’incoscienza ed indifferenza dell’io.
Sosteneva il filosofo elvetico Henri-Frédéric Amiel (1821-1861) nei suoi diari che “L’amore è la morte dell’ego per la nascita del noi”, ma fino a che punto ci si può sottrarre dalle cupe nebbie di Thanatos? Eros e Thanatos, un movimento esistenziale uroborico in cui l’uno divora l’altro vicendevolmente, segnato da una eterna rinascita che esita in una opposta e inevitabile distruzione.
Bruno Bosio ben descrive le varie fasi del processo amoroso, e poco importa che l’attore di questa passione (è significativo che il termine passione derivi dal latino passio, che presuppone un vissuto di sofferenza, di patimento, di dolore: ma non rientriamo forse nella dinamica circolare di Eros e Thanatos?) sia l’Autore stesso o qualcuno di noialtri, tanto il vissuto è talmente universale che nessuno può mantenerne le distanze.
Tutto inizia con l’e-stasi amorosa che, come suggerisce il termine, rappresenta una condizione di Ék-stasis, che equivale ad uno “star fuori di sé”, uno stato di esaltazione dello spirito che, in questo caso, si affisa in una persona – uomo o donna non fa differenza – in una sorta di inazione dei sensi: la classica folie d’amour ben esplicitata dall’Autore in 7.: “e mi perdo nell’estasi / nutrendomi di te”; e in 8. “E che ciò / non abbia fine, / ancor oltre la morte!”, laddove è facile sentire l’eco di Homage to Sextus Propertius di E. Pound. E in contemporanea, quasi in capovolgimen­to ossimorico, l’amante si in-abissa nell’oggetto d’amo­re (11. “Dentro di te / mi perdo / … come ingerito dal tuo ventre, / sprofondo, / in abissi sconfinati”). Ma abisso è pur senza il greco Abyssos, che richiama un precipitare senza fine, un essere sprofondati in una voragine oscura e sfinente.
Inevitabilmente, in questa condizione esistenziale nella quale il soggetto d’amore ha perso il proprio baricentro sentimentale (15. “Mentre uno stato alterato / di coscienza / … / mi avvolge”) l’oggetto amato si connota in modo ambivalente: creatura angelica o demone, senza via di mezzo. Nello stato confusionale della escalation del processo amoroso si perviene all’ulteriore grado della divinizzazione (16. “e mi appari ora / come divinità / d’un tempo remoto”) che non può che rimandare, come in una religione pagana, all’aspetto “misterioso” dell’amore (21. “È un mistero antico / il tuo, / e tale rimarrà, / per sempre”).
Ma quanto può durare un simile stato di spaesamento, di invasamento, di perdita del sé nell’altro, questo annichilimento esistenziale in una dualità che si fa sospetta? E allora subentra il timore della fine, che non è solo lo scioglimento di un rapporto a due ma è anche la paura della perdita di un ancoramento ad una realtà altra, che si percepisce come cedevole, caduca, quasi eterea (23. “Temo la fine / del sentiero, / di questo procedere / insieme e vicini /… / E il mio vegliare / non trova pace”).
Siamo ora nella fase discendente della curva gaussiana dell’innamoramento: l’horror vacui e il cupio dissolvi (24. “Voglio andarmene / … / spegnermi / al culmine della mia luce!”; oppure, 26. “Dicono / … / che mi sto annichilendo / … / Dicano pure… / non voglio guarire”), che si coniuga con una sorta di wertherismo, nel quale si fanno rivivere in modo ossessivo, compulsivo e masochisticamente annientante i momenti culminanti del rapporto amoroso, nel convincimento che solo esso inverasse la realtà, che desse un nome al mondo oggettuale (32. “Conta bensì / il vivere nella memoria / di chi ha reso / quella stessa realtà vibrante / e degna di essere vissuta”).
E poi inevitabilmente subentrano il silenzio, una sorta di stupore catatonico (38. “Sono i giorni del silenzio. /… / Non mi rimane che di te / il ricordo”) cui si cerca rimedio ritornando nel luogo “dove tutto ebbe inizio”, come l’omicida ritorna sul luogo del delitto, quasi per assaporare la solitudine dopo la pienezza. E poi l’orrore di se stessi (43. “orrida la mia Anima / orfana di te”; e 47. “Devo andare / il mio tempo / è scaduto / il mio spazio / finito”). Per pervenire all’invocazione, di stampo foscoliano, alla morte figurata per pervenire al distacco finale (58. “Vieni finalmente, / amata Signora! / Oscura la luna, / ché, tra le tue braccia, / possa al fine / addormentarmi”) e all’addio liberatorio (59. Dunque, / ti dirò addio / … / Devo farlo, / per sopravvivere / a me stesso”).
Della sezione intitolata Notturni, vorrei solo citare la V (Inferi), nella quale ancora una volta si fa riferimen­to al vissuto dell’Abisso (“Incubi gravanti / su un’a­ni­ma inquieta, / di mostri ricolmi / destatisi dal profondo / sommerso / … / d’un Inferno urlante, / divoratrici di nude anime / affogate nel buio denso / di un dolore assoluto”). Come non rifarsi all’aforisma di Nietzsche che recita: “Quando guardi a lungo nell’abisso, l’abisso ti guarda dentro”? Senza scomodare Heidegger o Michelstaedter, nel caso del Nostro mi pare ci sia un riferimento all’uomo solitario – forse proprio per questa sua solitudine ancora detentore di capacità critica ed analitica – che scava inquieto e angosciato nelle oscure viscere dell’animo umano e da queste a sua volta viene rimirato, in uno scambio funestamente conoscitivo.
Dell’ultima sezione dal titolo Confessioni vorrei citare, più che una lirica in particolare, l’inciso a piè di pagina, nel quale l’Autore fa riferimento all’“Andante con moto” del Concerto per Pianoforte e Orchestra di F. Poulenc, quasi a suggerirlo a mo’ di accompagnamento musicale della raccolta. Non dimentichiamoci del fatto che Bruno Bosio è un valente e noto pianista, dotato di una tecnica particolarmente raffinata che si coniuga con una grande espressività stilistica. Una cifra stilistica che si riscontra anche nelle composizioni poetiche che, pur non avvalendosi di una particolare impostazione metrica, si contraddistinguono per una loro autonoma, innata musicalità. Concluderei con una considerazione dello scrittore D.H. Lawrence che, nel libro Fantasia dell’inconscio, sostiene che l’amore è un viaggio, un incontro, un’avventura che parla il linguaggio del mito e della poesia e che, quindi, assume pieno significato tramite la conoscenza , il linguaggio e la virtù magica della parola.

Eraldo Garello

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