PRESENTAZIONE

La perizia narrativa di Luigi Massa risuona come una sinfonia d’ouverture già nella prima pagina che descrive la processione dei cristezanti, i quali si baloccano il ponderoso Crocifisso ligneo del Redentore, ai limiti del drammatico sfascio, nel giorno della festa paesana. Si tratta di una riuscita metafora della precarietà storica della Chiesa, espressa in questi tempi di fede sghemba e arrischiata, sovente sorretta da improvvisati e quasi clauneschi custodi del sacro. In contrasto alla sconfortante apparenza di instabilità, il Crocifisso resta indenne a perpetuare la fede rigenerante e vincente nella vita eterna, mentre Don Gaudenzio Bozzola, il parroco in angoscia per le sorti del venerato simbolo, verrà ritrovato stecchito da una buona dose di coniina, in canonica, ancora aggrappato alla tavola, dispensiera di tanti piaceri enogastronomici coltivati con voluttà in vita.
Il romanzo Anche il buon Dio ama l’Albarossa è una commedia tragicomica di continuo nascondimento della verità. È sempre falso ciò che sembra vero, perché è sempre taciuto ciò che andrebbe detto, in modo che continuamente si faccia ciò che andrebbe evitato. In questo paranormale elogio della follia che domina la società umana – omaggio a Erasmo da Rotterdam – l’unica luce che risplende e rifiorisce pura come giglio dal letame è l’amore. Ma questo è già stato scritto prima: omnia vincit amor, Virgilio.
Siamo in un paese piemontese di qualche centinaio di anime, non bene individuato nella ricchissima rete di campanili e torri dell’Alto Monferrato Aleramico, ove la credenza religiosa è un’abitudine rituale come la vendemmia dell’uva e la mietitura del grano: lì c’è il lavoro e c’è la festa; la fatica e il piacere; la spesa e l’arricchimento. Tutto ruota intorno al campanile e alla torre: intorno ai simboli della vita eterna e della vertigine dell’attimo fuggente. Si descrive un arcobaleno che unisce gli estremi del paesaggio dell’anima con gli agi del potere; la frugalità degli umili con la smodatezza degli speculatori. La morte improvvisa del parroco lascia tutti stupefatti, ma suscita affanno nei palazzi del Vaticano, motivo per cui le alte sfere di Oltre Tevere decidono di muovere sulla scacchiera un sagace ed esperto alfiere, efficace difensore e soldato astuto, impegnato a difesa degli interessi terreni della Chiesa: si tratta del commissario prefettizio Giuseppe Antonio Romano Vurzburgher, umile servo di Dio, ma elegante uomo di mondo. Si apre una galleria di personaggi, talvolta semplici macchiette, come Bianchina o il Censin, ma più sovente si tratta di coprotagonisti dotati di spessore narrativo, come il sindaco Ferrari o la vecchia e brutta perpetua Iole. Risplende di una luce particolare, sospesa tra il mistero insondabile del fascino femminile e la perizia ammirevole della sagacia professionale, la bella professoressa Giovanna Lanino. Vurzuburgher si trasferisce a vivere nella canonica di Don Gaudenzio, dove suscita la diffidenza della Perpetua, gelosa del culto commemorativo del suo parroco. La canonica, poco per volta, si rivela come centro di vasti interessi mondani, quasi tutti border line rispetto alla legge e talvolta apertamente illeciti. La parrocchia detiene un beneficio ecclesiastico per la produzione del raro e apprezzatissimo vino Albarossa, il cui vitigno deriva da un incrocio tra gli aromi e gli spiriti del Chatus anche detto Nebbiolo di Dronero e la Barbera. Alla perspicacia indagatrice dell’inviato del Vaticano appare subito chiaro che il parroco è stato avvelenato ed è poi spirato di morte lenta, come Socrate dopo il veleno. Emergono diverse ipotesi di movente, che l’investigatore puntualmente seguirà. La vicenda si risolverà con un magistrale colpo di scena e sorprenderà il lettore per il nitore drammatico con cui viene esposta. Il libro viaggia sul binario del giallo-rosa, perché contiene una parte essenziale e luminosa del racconto, che è rappresentata dalla concezione dell’amore che nutre nell’animo il prefetto vaticano. Costui nella vita è stato una sorta di emulo del poeta provenzale Jaufré Rudel, e ha coltivato in animo un impossibile amor de lohn come simbolo di amore cortese vagheggiato in gioventù e mai più scordato. La bella Melisenda di Giuseppe Antonio Romano Vurzburgher potrà, infine, assumere le fattezze uma­ne della professoressa Giovanna Lanino? Ma su questo esito l’Autore, come sua abitudine, ci lascia infine un po’ sospesi.
Il romanzo rappresenta un’immersione totale sia nella realtà sociale, politica, provinciale e nazionale italiana sia anche nella tradizione dell’alta e della bassa cultura del nostro Paese, perché continuamente affiorano delle citazioni esplicite – ma anche nascoste – tratte da opere di narrativa, teatro, lirica e poesia italiane, congiuntamente a riferimenti di quadri, artisti, concerti, canzoni popolari e altro. È dunque un viaggio a specchio tra il mondo reale della vita e il mondo virtuale dell’arte, il quale ultimo è altra cosa dal primo, anche se ne assume i riverberi e ne elabora i contenuti. Proprio in questa ambivalenza di espressioni documentative si realizza la capacità espressiva di Luigi Massa che arriva a fare dei due mondi un’unica inscindibile endiadi.

Sandro Gros-Pietro

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