PREFAZIONE

È un merito particolare della Giuria dei Murazzi di Torino avere segnalato la produzione poetica di Diego Mantelli, proprio in quanto espressione di una voce che si colloca fuori dal coro ed è di eccezionale valore. Lo scrittore è cuneese, affezionato visceralmente alla sua città al punto di averle dedicato una raccolta di poesie, La mia Cuneo. Ma la sua opera ha orizzonti tutt’altro che stracittadini. Al centro della poetica di Diego Mantelli è collocato l’uomo moderno, anzi una particolare figura della società: l’intellettuale. Votato a un’intellettualità priva di scopi umanitari ovvero di sbocchi sul mercato, l’intellettuale mantelliano si presenta come un sottoprodotto tecnicamente inevitabile ma inutile messo in circolazione dalla macchina mondiale della civiltà postindustriale moderna. Egli è uno scarto inquinante, come fossero i cascami della produzione del petrolio, anzi peggio: le scorie radioattive, che sono assai pericolose. È corroso dalla crisi dei valori culturali, morali e religiosi; è mosso cinicamente dal disperato bisogno di sopravvivere alla consapevolezza della propria inattitudine alla sopravvivenza. La sua funzione di intellettuale, anzi l’intera sua esistenza, si presenta come azzardo improbabile. L’impostazione paradossale del personaggio rende subito manifesto il tenore del di­scorso mantelliano, che è quello della satira civile, sociale, politica, in una parola culturale. La critica mantelliana agli intellettuali trova anche espressione in una maschera, appositamente studiata dallo scrittore per conferire spessore e identità al protagonista incarnato in ciò che può apparire il simbolo vivente della diabolica inettitudine. Non a caso si tratta di un poeta, per l’esattezza di Taddeo Tobia Tarrasco, che nasce negli ultimi anni Ottanta e che vede la luce nella prima stesura della Antologia di Taddeo Tobia Tarrasco, pubblicata in Torino nel 1990. Ciò che si chiede a ogni poeta – Byron insegna – è la gioia della ricerca e della scoperta, ciò che in metafora si rappresenta con l’avventura di compiere un viaggio. Ed ecco che il nostro T.T.T. viene materialmente e miserevolmente coinvolto in una sequela di ordinarie storie di ferrovia, su vagoni affollati da un’umanità composita e cinerea ove nell’indifferenza generale avvengono stupri furti omicidi, esattamente come si passa nelle pagine di qualsiasi quotidiano, ma con in più la luce di un esemplare cinismo filosofico che avrebbe fatto invidia a Diogene. Come si potrà vedere in questa attuale seconda edizione dell’Antologia, la maschera di Mantelli avrà vita breve, perché alla fine del 1994 Taddeo Tobia Tarrasco depone la penna (fine): consegue la perfezione, che – come ogni scrittore bene sa – coincide con la fine del personaggio, non ci sarà più nulla da dire al riguardo. Ma l’evanescenza opalescente in cui il poeta dispare, suscita un lucore di stelline e di fatine ironiche e satiriche che si proietta in una tangente indefinita oltre la vita perfetta ed inutile di T.T.T. Vi sono, infatti, raccolti nelle pagine che seguono dell’Antologia, gli epigoni, eredi e po­steri, che paiono come scritti postumi non autenticati dal magnifico T.T.T. il quale ha deposto la penna, ma il cui spirito sopravvive esalato nell’essenzialità aforistica e lapidaria dei percorsi di parole che intonano l’evocazione di riguardo a tanto vate. C’è così una ulteriore ricca messe di sentenze, battute, nonsensi che contribuiscono a scarnificare ancora meglio la nostra immagine di uomini moderni del Novecento – nel frattempo divenuto Duemila – stravolti e rapiti fino all’ossessione dal culto della nostra indefinibile individualità, in un bagnomaria di egoismi e solipsismi onanistici: una corona di disturbi mentali, collezionata con enfasi dagli psicologi a ciò prezzolati.
Forse, occorrono solo due parole per accennare anche alla collocazione letteraria. Diego Mantelli è noto per essere un letterato sopraffino, laureatosi alla scuola di Giorgio Bárberi Squarotti con una tesi su Italo Calvino, successivamente pubblicata. Non sorprende che un autore letterariamente preparato fino al punto di apparire sofisticato, abbia scelto come collocazione poetica una terra di confine assai poco frequentata nella nostra tradizione, cioè lo stile basso della satira e dell’ironia, che ha pochi ma grandissimi cultori. Cito solo il più grande di tutti, che è ovviamente Giacomo con le sueOperette morali, le quali non a caso sono il libro meno noto e meno commentato del Recanatese. Come per Leopardi, l’esempio stilistico seguito è antichissimo, risale alle satire di Menippo e ha i suoi cultori in Luciano, Varrone, Seneca. Senza farla tanto lunga, Mantelli ha scelto di consegnare Taddeo Tobia Tarrasco a degli esperti viaggiatori.

Sandro Gros-Pietro

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