Si sviluppa lungo una direttrice ormai divenuta cara a Eugenio Felicori il lungo racconto Appennino Rosso: è una fusione tra la fantasia creativa e la realtà storica dei fatti, per illustrare il più importante valore che la civiltà umana abbia elaborato nei secoli, cioè il pensiero libero. La libertà di valutare il senso delle cose che avvengono e che costituiscono la storia del­l’umanità, man­tenendo una traccia logica collocata al di fuori dei ca­techismi dettati dalle ideologie politiche o dalle con­vinzioni religiose: è sicuramente questo l’obbiettivo dello Scrittore. L’Appenino rosso è un’invocazione rivolta al principio della realtà; un’esortazione a chiedersi il perché delle cose, come fa il protagonista Marco al cospetto dell’assassino di suo zio, nell’acme del dramma, quando ripete più volte la stessa domanda: “Perché lo hai ucciso?” E ottiene per tutta risposta un’elencazione di gabbie mentali, di trappole del comporta­men­to umano, di uccellature ideologiche. L’as­sassino non rie­sce a cavare il ragno dal buco, ma perpetua lo scriteriato at­teg­giamento dell’interpretazione ideologica della realtà del mon­do, che non ha nulla a che vedere con il principio della realtà, cioè con la ragione delle cose, con la forza dei fatti. È una terribile tragedia greca: si uccide per fatalità gratuita, non già per il ghiribizzo degli Dèi che si prendono gioco degli umani, come è descritto nel­l’antichità classica, ma per la cecità faziosa degli umani che oscu­rano la luce del pensiero libero, in quanto accecati dall’ideologia.
L’azione si svolge nel 1975, negli anni di piombo della realtà italiana, in cui imperversano le Brigate Rosse. La parola d’ordine, illustrata dal cattivo maestro Mario Moretti – uno dei tanti sciagurati mostri della cultura progressista – consiste nel­l’affermare “Cari compagni, la nostra possibilità di va­lu­tazione è esaurita e irripetibile” e di vantarsi di avere realizzato l’annichilimento del libero pensiero umano. Il protagonista Marco, attraverso il sogno e le facoltà paranormali di una medium, giunge a rivivere, proprio in quegli anni di tenebra e di orrore nazionale, l’assassinio atroce dello zio, trent’anni pri­ma caduto vittima delle atrocità partigiane nel 1945, a li­berazione già avvenuta, nel paese di Gaggio Montano, sul­l’Appenino, vicino a Bologna. Ciò che Marco ha vissuto in so­gno si confonde con ciò che verificherà nella realtà, come succede a Sigismondo, in Se la vita è sogno di Calderón de la Barca. Scoprirà il vaso di Pandora delle efferatezze compiute da alcuni partigiani, per perpetuare la loro utopia del Sol dell’avvenire. I fatti sono realmente accaduti, ma i nomi dei responsabili nella vicenda sono mascherati. Ovviamente il racconto è contaminato dall’obbligo civile di rendere servizio alla verità e dall’opportunismo politico di camuffarla, come avveniva in quegli anni di piombo. Non vale la pena di citare le opere simili intorno a questo tema, come Compagno mitra di Gianfranco Stella o Chiedi al torrente o La strage di Oderzo e tante altre, perché l’obbiettivo di Eugenio Felicori non è solo quello di rendersi ancella della Storia e di sma­scherare i colpevoli, ma consiste, come si è detto, nel celebrare la luce chiarificatrice del libero pensiero.

Sandro Gros-Pietro

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