Prefazione

In opera prima, l’autore così giovane e infiammato di stupore per la vita, scalatore di “torri di libri iniziati / mai finiti”, dice che “in questo mondo di immondizia tecnologica / […] il poeta è chi, / guardando l’asfalto, / il marciapiede, / la strada, / vede l’incendio in un mozzicone, / una ballerina in una foglia secca”, e teorizza che “qui è realtà, / creta, / terra, / forza”. L’energia della materia, dunque, fa uscire la parola dall’evanescenza del sogno. Anche la citazione in copertina di un’opera di Edward Hopper, pittore cult per Emanuele Bero, va nella direzione di un incontro ravvicinato con la beat generation e con On the Road, essendo il titolo Asfalto quasi un’ecolalia del romanzo capolavoro di Jack Kerouac del 1951. Ma sessanta anni non passano mai invano. Così Bero ha avuto modo di pensare e di riflettere su ciò che i beats non fecero in tempo a metabolizzare, cioè il post-modernismo e il mitomodernismo, l’eterno ritorno del mito, il racconto, la favola, la correità tra il fatto e l’intenzione, la dispersione psicologica delle orme del reale. Va a finire che la scrittura si complica in un garbuglio di indicazioni contraddette. Ma può anche semplificarsi in un’esalazione di vapori effimeri, sui quali magnificamente trionfa il simbolo niente meno dei canti di Giacomo Leopardi: “Sembra strano, ma è la luna. / Luna-ae, selene, moon. / Faro dell’amore”, co­mun­que la si voglia declinare nelle descrizioni ovvero coniugare nelle azioni, sotto quel simbolo nei secoli s’accoccola “un placido eremita”. Omnia vincit amor et nos cedamus amori, non è certo una banalità virgiliana, ma è l’elemento costituente dell’antropologia poetica, come l’azoto lo è del cosmo – se è concessa questa espressione arzigogolata – che anche Bero rispetta nei suoi teoremi in versi. L’amore e i sospiri alla luna – con il caravanserraglio di metafore che essi ingabbiano – svolgono la funzione di stella polare negli orientamenti dei poeti. Tuttavia, c’è l’inghippo della corrispondenza armoniosa dei sentimenti, motivo per cui si manifesta la perigliosa disgiuntiva: “Ma è l’amore che si inceppa / e non permette una fottuta / contemplazione / per una parte che tentenna insicura”. Né pare possibile arrangiarsi con il mitico self man di narcisistica memoria, giacché ammonisce Bero: “Non guardare nella pozza / il dolce disegno di te. / Le giovani linee distraggono / dalla bellezza dell’altro / e dimagriranno pensandosi. / La ter­ra mangerà le forme di chi autoama, / le agiterà in piroette di sofferenza. / Dai teneri resti di chi si scopre / na­sce­rà un fiore, il più bello”. Insomma, è un’incognita. Anzi, è una ics: “Ics. / Ics come rifiuto, / ics come schifo, / ics come superbia. / Icsicsics. // Ics. / Pochi consensi, / zero amore. / Icsicsics”.
La poesia per Bero non è solo dialogo astronomico sui massimi sistemi, perché in lui è sempre forte il legame materico con l’energia dei fatti che premono nel quotidiano e che allignano nello specifico di un genius loci ben definito, come se sempre egli si recitasse il rosario questa terra è la mia terra di Woody Guthrie, altro superbo angelo ovvero daimon della beat generation. Con l’avvertenza che la terra di Bero è l’amata e odiata Torino, musa assonnata e scontrosa, avvolta in un incubo gozzaniano di belle cose di pessimo gusto, e riverberata tra ricordanze ed omaggi nei versi disincantati di Bero. Il nostro, allora, si diletta anche in divagazioni e dispersioni letterarie, in progetti impressionistici, in soluzioni ermetiche, si intravedono omaggi a Giuseppe Ungaretti.
Il ricco patrimonio di letture, bene organizzate e meditate, contribuisce a fare della poesia di Emanuele Bero un linguaggio poetico che ha già la caratteristica di sicurezza della maturità e della personalità definita d’autore, orientato verso la cifra di frontiera e di congiunzione tra la poesia di descrizione del mondo e la poesia di interpretazione della visione profonda della vita, nella convinzione, su cui l’autore si è formato, che “Sulla pelle / la razionalità non esiste. / Sull’ammasso di celluline rosa / non esiste. / Quando vivi sulla pelle, / ti ustioni. / Sulla pelle / vedi i segni della vita, / a loro volta ammassi di pelle, / cicatrici”.

Sandro Gros-Pietro

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