Prefazione

Adalasia visse nel villaggio di Portiragnes, poco a sud-ovest di Montpellier, negli anni che vanno dal 1140 al 1177. Oggi giorno la località, collocata nella Provenza, nel dipartimento di Hérault, della regione occitana, è una frequentata sede turistica, che si affaccia sul golfo del Leone, amplissima insenatura ricca di storia e di interessi antichi e moderni, incuneata tra la Spagna e il golfo di Genova. Adalasia di Porcaraga, dunque, visse in quelle terre, al tempo poco abitate e poco sane, prede di continue incursioni saracene, la Camargue e dintorni, nel periodo del Basso Medievo, quando era re dei Franchi l’ultimo capetingio, Luigi VII, il Giovane, sposo di Eleonora di Aquitania. Adalasia fu donna bella, colta, di nobile estrazione. Ci troviamo in uno dei più intensi periodi di transizione che segna il passaggio dall’Alto Medievo ancora romanico e poi carolingio al Basso Medievo con il trionfo del feudalesimo, il nascere delle economie curtensi, il sorgere delle nazioni moderne, la fioritura del commercio. Per l’esattezza, ai tempi di Adalasia tutto ciò era ancora di là da venire, perché l’economia languiva, le terre coltivate erano poche, i commerci quasi inesistenti, ma già si assisteva a un’alacre ripresa della spiritualità e della cultura. Tra i fenomeni che caratterizzano culturalmente questa rinascita della cultura e dello spirito in lingua d’oïl e in lingua d’oc c’è sicuramente la poesia trobadorica, che fu un autentico fremito di libertà, di rinnovamento dei costumi, di rovesciamento della lingua, di adozione di nuove regole comportamentali, di collocazione dell’amore cortese come primo obiettivo d’onore dell’uomo d’armi e, più in generale, della nobiltà. L’uomo dal cuore gentile, andava sì in crociata contro il saladino, ma non combatteva né per il Papa né per l’imperatore: combatteva i nemici della cristianità solo per onorare la donna amata e per ottenere di entrare nelle sue grazie. Era un ribaltamento quasi sacrilego dell’ordine medievale dell’autorità, ma fu anche un canto di libertà che si impose con gentilezza, astuzia, molta grazia, molta devozione verso le autorità locali delle grandi Marche di allora, ancora di formazione carolingia, i marchesati, le contee, le baronie e il sistema vassallatico. Il fenomeno della poesia trobadorica fu una fiamma che si innescò in Provenza, ma che ben presto raggiunse l’Italia, si affermò specialmente in Sicilia, ma anche si diffuse in Grecia, in Albania, in Germania. La poesia trobadorica rappresenta uno strappo eccezionale al grigiore austero del Medioevo, in cui trionfavano la figura dell’Imperatore e del Papa, entrambi impaludati e catturati nell’uso ufficiale di una lingua che sempre più appariva morta e lontana dal popolo: un latino maccheronico e pomposo, che il po­polo non capiva e su cui motteggiava ironicamente, alle spalle delle autorità. I poeti occitani per la prima volta abbandonano totalmente la lingua di Virgilio, da mille anni utilizzato da tutti come modello, e usano il dialetto del popolo, l’occitano, distinto in lingua d’oc e lingua d’oïl, in base ai luoghi di appartenenza. Il modello si esporta in altri paesi e ovviamente, promuove una poesia trobadorica in altri dialetti, quelli del posto ove si diffonde. Nasce il germe delle letterature nazionali, che quindi hanno tutte come grande madre la poesia trobadorica. Non è il caso di perdersi sull’etimologia del vocabolo trobador o trovatore, perché non se ne viene a capo: troppe, infatti, sono le ipotesi fornite dai filologi, e tutte con una ragione accettabile di significanza. Ciò che conta mettere in chiaro è la qualità del canto poetico, che, improvvisamente, fa un salto indietro di circa duemila anni, e diviene non più una parola declamata come quella di Virgilio, per un pubblico molto colto, all’interno di una reggia o di ambienti di elevata cultura mecenatesca, ma propone una dizione letteralmente cantata con strumenti a corde e a fiato, sovente anche con l’improvvisazione del menestrello, come se si trattasse dei cantanti rap moderni, ma più preferibilmente sulla base di testi scritti, studiati, limati e riveduti. Questo fatto richiama il modo di cantare i propri versi usato da Omero, che si faceva accompagnare dai musici. La poesia trobadorica di basso contenuto, sovente cantata in buone occasioni nelle piazze e nelle feste, è andata quasi totalmente perduta. Si tratta del trobar leus, o leggero; più raffinato, invece, il trobar rich, ovvero ricco; infine, quasi criptato e incomprensibile, racchiuso per formule di complessa interpretazione, c’è il trobar clus, dicasi chiuso, un’elegia d’amore o d’altro argomento volutamente schermata e quasi impenetrabile, ma dalle mille sfaccettature affascinanti, allusive e sognatrici. Di questi ultimi due generi, trobar rich e trobar clus si ha notizia di circa 2.500 componimenti, dei quali circa trecento sono giunti fino a noi, quanto basta per fornirci un campione rappresentativo del genere letterario. Ora, l’aspetto che qui più preme mettere a fuoco è che per la prima volta, nella storia della civiltà occidentale, la donna, nell’ambito di tale arte, svolge un ruolo non già di comprimaria, ma decisamente di protagonista. Le trobairitz, le donne dedite alla poesia trobadorica, non solo sono di alto lignaggio e numerose, ma liberamente cantano l’amore con accenti di intima dolcezza, sia pure schermati dagli usuali artifici dell’epoca. All’interno della poesia trobadorica, la donna assume un ruolo di assoluta libertà di comportamento e di costume, non soggetta alla volontà prevaricatrice dell’uomo, ma al contrario diviene simbolo superiore di bellezza, di beltà e di virtù. In altre parole, si prepara quel clima di adorazione del femminile che verrà poi celebrato dal dolce stil novo italiano, in cui la donna svolge il ruolo di tramite terreno di elevazione verso Dio. Tuttavia, va sottolineato che nel canto trobadorico, benché esistesse la prova della notte pudica, in cui l’uomo avrebbe dovuto giacere per un’intera notte a fianco della donna senza tentare di congiungersi carnalmente con lei – concubitus sine actus –, lo spirito e la carne sono inscindibilmente uniti in un canto poetico di dolcezza e di elevazione dei sentimenti. Quello trobadorico non è un amore sentimentale come quello romantico, ma è sostanzialmente un amore sensuale, come quello catulliano, che prevede il dono dell’anima e del corpo. Il cavaliere esibisce alla donna amata le sue virtù di coraggio, di onestà, di dedizione e d’amore e la donna premia il suo cavaliere accordandogli l’intimità dei suoi favori, come dispensiera di dolcezza, di bellezza, di arti incantevoli della vita e della natura, di pensieri d’amore e di orientamento dell’animo al culto dell’inesauribile ar­mo­nia dell’universo e, quindi, di Dio. Ovviamente, la poesia trobadorica non è stata solo questo, ma fu anche adulazione della nobilità, serventese politico, satira irriverente, canto gioioso dei menestrelli e anticipazione del ruolo mondano del buffone di corte. Ma resta il fatto che l’espressione più alta e più duratura fu precisamente quella che si è detta.
Tutto ciò debitamente richiamato alla memoria, ci si chiede come mai un poeta così appartato e criptico quale è Piero Costa, così fieramente ancorato ai valori dell’alta cultura ma anche di deciso anacronismo stilistico che caratterizzano l’intera sua fedelissima e organica produzione poetica, splendente come una inaccessibile turris eburnea, abbia dedicato un lavoro così im­pegnativo e approfondito alla vida di Adalasia di Portaraga. A giudizio dello scrivente la risposta è semplice: nella poesia trobadorica c’è un valore per la vita dello spirito coniugata a quella del corpo e rivitalizzata da un sentimento di libero arbitrio, nonché da una celebrazione della dolcezza femminile, tale da affascinare in modo irresistibile la libera mens del Nostro, che ama quasi alla follia le situazioni di scrittura intricata tra l’eros e l’ethos, composte con il ricorso a una metrica complessa, ma anche ripetuta, iterativa, quasi retoricamente confortante nella sua ossessiva precisione di forme, come è la poesia trobadorica. È giustificabile pensare che in primo luogo per Piero Costa abbia scattato una scelta di stile espressivo, ma poi anche subito corroborata da quel sentimento di libero arbitrio che aleggia nei trovatori, nobili animi totalmente superiori agli interessi materiali, cultori della gioia di amare e della generosità di darsi alla persona amata. In questi contenuti, certamente si ritrova l’interezza dell’animo poetico di Piero Costa, grande esaltatore della libertà dello spirito e inflessibile spregiatore delle basse cupidigie umane. Ma certamente c’è di più, giacché in quest’opera c’è non solo il gusto del letterato che ripropone un’operazione di rivalutazione filologica dell’unico testo di Azalais de Porcairagues giunto fino ai giorni nostri, ma ne fa addirittura una sorta di cover, cioè di nuova interpretazione, com’è la chiarezza degli intenti con cui egli rappresenta il giudizio di amore sconveniente per una donna quello concesso a un uomo troppo potente, che ricopra qualcosa più di una condizione di vassallo, sino alla elaborazione di quel definitivo accento, io considero disonorata. In realtà va detto che, con ogni probabilità, la nostra Adalasia formulava dei consigli di ovidiana ars amandi, essendo ben consapevole che le belle damigelle del tem­po non erano libere di sposarsi con chi esse avrebbero desiderato, ma che dovevano rispettare le convenienze dei legami dinastici, se volevano salvare le ricchezze famigliari e, talvolta, anche salvarsi la pelle, per cui era d’uopo sposare il titolare di una marca, un marchese, un conte o almeno un barone. Una volta raggiunto lo scopo di un matrimonio di solida convenienza, magari con un coniuge vecchio e non più in grado di generare la necessaria discendenza, volendo concedere le proprie grazie a un cavaliere, per una dama nobile sarebbe stato bene non sceglierlo mai più potente di un vassallo, perché altrimenti il legittimo sposo si sarebbe sentito minacciato nella proprietà e fino nella vita dal possibile rivale in amore, accolto nell’intimità della moglie. Un vassallo, invece, non avrebbe mai dato fastidio a nessuno, perché la sua nobiltà non era trasmissibile agli eredi, e, quindi, nella mentalità del tempo, era come un fiore di campo, che si consuma in una stagione, a differenza della nobile quercia che invece sopravvive a più generazioni umane. Ma ciò che rende grande merito e suscita ammirativo stupore sta nel fatto che Piero Costa si è spinto ben più in là nella sua cover e ha rifatto totalmente ex-novo la parte mancante della totale vida di Adalasia, ossia del suo diario poetico, contenente le canzoni d’amore che ella probabilmente deve avere indirizzato a Raimbaut d’Aurenga, il quale, a differenza dei consigli propinati dalla trobairitz, era un trovatore di alto lignaggio essendo conte d’Orange, ma è anche vero che costui praticava il trobar clus, cioè scriveva composizioni oscurate da una quantità di schermi simbolici quasi inestricabili. Inoltre, ebbe anche la ventura, non si sa quanto sia stata naturale o provocata, di andare incontro a una morte assai prematura. Anche Adalasia, tuttavia, non sopravvisse molto al suo prediletto trovatore, che si era camuffato dietro il senhal di Linhaure.
Per avere un esempio della verisimiglianza di dolcezza e di sogno con cui Piero Costa ricostruisce la delicata personalità di Adalasia si legga l’incipit del cansho del 4 Novembre: “E pur vorrei e giovinetta e bella, / nel viola blu di cieli senza tempo, / qual Icaro volar da stella a stella / da cui mirar, con ebbro sentimento, / l’infinito sgranarsi firmamento / nel tempo che – dal cuor fattosi stella / tra sciolti ricci celestial di vento – / l’anima leva…ché fu mai più bella! / Laudi a Dio Che, Giuliva Mens, cotanto / stupor plasmò […]”. Si veda il sentimento panico che illumina tutta la poesia, la gioia di appartenenza al creato, “in questo mondan sol ch’ancor m’attira”. Il diario, tuttavia, è segnato dal ricordo nostalgico dell’amore perduto, come leggiamo nel cansho del 10 Novembre: “E furono le viole / insonnolite ancora / – avanti che l’aurora / suoi cigli ridipinga – / che, brividendo l’alba / d’acerba primavera, / con allegrezza vera / l’han visto nel giardino”. Altrove, come in data 12 Novembre, la poesia può assumere la forma perorativa di un’accorata preghiera: “Ave Regina! Mi­se­ricordiosa / Mater (Astro d’Amor e di Pietà) / Che sul Cuor, Bocca d’Umiltà Pietosa, / del Figlio – Cuor di Carità – stai. / Cuor che allieti d’ogni più casta cosa, / in Ciel di Paradiso, Verità: /e Riso sei, con petali di rosa / e gigli pur, nel drappeggiar Tuoi sai. / Pura Concepta e Vergin concependo / (Fior d’ogni Fior che tua fragranza spandi) / di me carezza, di cui tutto sai, / sottil l’angustia che mi va rodendo. / Cela mio cuor, con suoi carnal rimandi, / all’ombra di Celesti Tuoi rosai: // bocciòl che son d’orgoglio a non misura / per cui tuo ciglio non m’adombra, mai”. Il ricordo dell’amore nostalgico e perduto è sempre presente, come si legge nel cansho del 14 Novembre, la cui dolcissima chiusura riprende esattamente l’incipit iniziale, come volesse figurare un’eterna perfezione: “Quando la sera, con cader di fronde / leva, sul palmo, la più clara stella, / mio cuor di bimba torna disgressór”. Uguale carica di bellezza amorosa di compiacimento nostalgico ritroviamo nella bellissima composizione del 16 Novembre, che è scandita in due parti, la prima è una rammemorazione della bellezza e della gagliardia dell’amato cavaliere, che in tutto si fonde con il lucore della natura e la luce dell’universo fino a rendere impossibile darne pieno conto (“a dir del qual non fu! non v’ha misura”). La seconda parte, invece, trascritta in carattere corsivo, come a immaginare un’aggiunta avvenuta dopo l’improvvisa morte del be­ne­amato, è carica nostalgia, di mestizia e di dolce e addolorato ricordo: “Amor di maggio… sol di paradiso! / Sol ch’ogni più bel sol, di te, fecondi: / a che splendesti giù dagli altri mondi, / nel cuor di me, con brìvidi d’aurora? / se, nel venir di mio tramonto l’ora, / begli occhi storni dal mio grinzo viso”. Questo stesso motivo di alternanza contrapposta, in cui si sviluppa il contrasto tra un tempo passato caratterizzato da un’immensa gioia apollinea e solare di vita e un tempo presente marcato dalla penombra cinerea della morte e del perduto amore, viene ripresentato nella composizione del 17 Novembre, che vale la pena di citare nei due movimenti ispirativi, tra loro in dissidio: Ecco, i versi della gioia: “Quando, quel maggio, l’usignol riempiva / d’un canto d’amor arpeggiato e pieno / – per tutto l’ardor languido e sereno / stellato e mesto che suo cuor capiva – / mi pareva, nel pianto che saliva / da recessi del palpitare del seno, / l’aria sentir commosso che stupiva: / non d’altro colma che di quel Selèno. / E gli astri pur, nel ciel tutto di cielo / in cui Diana d’immenso s’accendeva, / sembrava e noi, d’amor, t’inteneriva […]. Seguono dopo i versi di una insuperabile mestizia che già si colora del plumbeo della morte: “Ora che l’aria, presto, si fa bruna, / prima che il sol, con tutte l’ossa, muoia / – qual quelle mie ch’odoran di cipresso – / più non sento, sul cuor, calda la luna: / farsa d’allor di quando fui…fui viva! / Scorza che sono d’un cuor alla deriva.” La composizione datata 20 Novembre merita un’attenzione particolare perché in essa viene rappresentata, con una visione surreale, una compresenza fantasmatica di un vecchio claudicante e sciancato, che a lei si avvicina: “Questo cavaliere ch’or mi sta dappresso / e si prova, non poco faticando / per quell’arto monco, di sedermi presso / non fu da me di­sconosciuto quando, / più d’allor dimesso, l’erta saliva / con rotto passo e pur, talor, sostando. / E quel passato e più che m’assaliva, / nel tempo che diafana mi fa l’ora, / per non oltre gustar di questa riva, / tra gioia e dolor e sconforto ancora / e pena tanta, cuor, mi contrastava / […] / Grigio ’sto uom, tacendo, m’accarezza / grinza la man e, miei capelli, ancora / con dita lievi e cuor di tenerezza. / E pur che capir, con pensiero, tenti / quanti m’avvien… caldo nel cuor m’olezza, / da non so qual recessi risalenti, / con brioso respir, e non d’adesso, / gioia, a pianto, d’andati sentimenti / a cui, con muto lacrimar sommesso / e senza pudor tutto m’abbandono”. Infine, ecco la parte conclusiva e più sconcertante di questo fantasma in sembianze di vecchio, azzoppato come avesse subito una ferita sul campo di battaglia, che svolge una funzione protettiva dall’al di là da dove egli proviene, come il fantasma benevolo del film Ghost: “Anco di lui, che tanto mi sta presso, / sospir ascolto d’accorato tono / mentre ’sto cielo, precipitando nero / con un rimescolarsi senza suono, / pensier m’intenebra: morir davvero?”. La vida di Adalasia, cioè il suo “riscritto” diario di vita e di amore, si conclude con l’invenzione dell’omaggio resole dalla sua fedele domestica Gaia, cui Piero Costa fa confessare: “Io – l’ignota Gaia – sopra mio foglio / mi lambicco, con piuma pe­ritùra, / a dire quel che lei più non può col canto”. E la conclusione è di altissima intensità emotiva: “Anima d’amor fosti e veritiera / di cui tua man, celàndosi, scriveva. / Ora, a quelle cèneri “coblas”, penso, / in cui l’ardor tuo – lievitando spoglio / nel fior di brevi sol – fu d’impostura: / e, vergin cuor, crocifiggesti a pianto.”
Il libro Ave a chi morituro m’è compagno è so­stanzialmente un canzoniere concepito in omaggio dal poeta torinese Piero Costa e dedicato a una delle più dolci ed eteree figure di trobairitz occitane del XII secolo, Adalasia di Portaraga, di cui ci è pervenuta solamente la composizione che apre il libro stesso, rinverdita e attualizzata da Piero Costa con pertinace e attento studio filologico, tale da rendercela completamente comprensibile e godibile oggidì. L’operazione poetica di Costa non consiste nella riesumazione museale di un passato tanto di prestigio, quanto universalmente noto agli addetti ai lavori, ma, invece, si realizza in una interpretazione quasi visionaria e comunque decisamente esaltante della figura di Adalasia, che è nota principalmente per il parlare che di lei fecero gli altri poeti trobadori e le altre poetesse trobairitz. Ne viene fuori una figura di donna coltissima e delicata, antesignana non solo delle grandi donne del Trecento cantate da Dante e Petrarca, come Beatrice e Laura, ma ben di più come un’anima poetica illuminata da un altissimo sentire d’amore, come solo nel rinascimento troveremo nei modelli di Gaspara Stampa e ancora più dell’amica di Michelangelo poeta, cioè Vittoria Colonna. Epicentro di tutta la vicenda diventa il canto d’amore. ma anche di “contrasto” tipico della poesia del XII secolo e del successivo, dedicato da Adalasia a Raimbaut, che è anche un epicedio, canto funebre per celebrare l’amore e suggellarlo eternamente nel co­mune vincolo della morte. Un libro che unisce insieme cultura e fantasia, storia e surrealtà, in una formula che incanta il lettore.

Sandro Gros-Pietro

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