Prefazione

“Come una macchia inutile sul silenzio e sul niente è la parola”

Come scrivere di psicoanalisi oggi? Si può scrivere di psicoanalisi in modo poetico?
Nel tempo in cui la peste introdotta da Freud viene messa sempre più al bando, Céline Menghi fa una scelta coraggiosa, direi eretica. Una scelta mossa dall’etica, una necessità di scrivere, riscrivere, trasmettere ciò che l’esperienza analitica nel suo intreccio con la vita, sua e di altri, le ha insegnato. Una trasmissione che oltrepassa i muri della Scuola di Lacan, le palizzate delle Società psicoanalitiche e si rivolge a un pubblico più ampio ma senza essere divulgativa.
Céline Menghi ci prende per mano e ci porta, passo dopo passo, in una camminata verso l’impossibile a dire. “Passeggiate psicoanalitiche” le sue, dalle tinte poetiche e dove il tempo si gioca tra la diacronia e la sincronia.
L’autrice lavora la lingua come un’artigiana, fa risuonare la materialità della parola. Costruisce e disfa. Impasta. Prepara l’ordito. Tesse. Annoda. Cuce. Ricama. Tra una parola e l’altra risuona il vuoto. La prosa scivola nella poesia, produce effetti di senso e di buco invitandoci a leggere tra le righe. Il libro tocca nell’intimo il lettore e lo lascia solo alle prese con l’Altrove. Un’eco di vuoto bisbiglia.
Blu cobalto, romanzo poetico, si legge tutto d’un fiato, trascina, affascina, muove, trasporta in territori noti e ignoti. Si cammina tra una sponda e l’altra sulle rive di un fiume, sul litorale dell’esistenza. Si attraversano pon­ti, luoghi ameni, tra la natura e le faccende della vita, tra l’amore e la follia. Anche l’esperienza analitica si tesse in una trama colorata e non lascia indifferenti. Il romanzo traccia una istoria singolare fatta di buchi, sì, ma anche di bianchi di memoria. Una storia si riscrive sul divano dell’analista. Memoria cancellata, tracce della lingua che affiorano come un rebus. Tra poesia e ironia, Céline Menghi si addentra, non senza il pudore del ben dire, per dare una testimonianza preziosa della devastazione e dell’abisso che una donna può incontrare quando l’“architrave” della vita vacilla. Blu cobalto si fa lettera indirizzata alle donne e, va ricordato, è dedicato “alle bambine”. Sullo sfondo si intravedono i protagonisti: sguardo, voce, incontro. La contingenza dell’incontro produce sorpresa e lascia un segno. Molti gli incontri nel romanzo, reali, letterari, surreali – Thomas Bernhard, Ottiero Ottieri, Gregory Corso, Felicità, che dorme sotto la statua di Giordano Bruno…
Tra le varie sfumature di colore, dal blu cobalto al gial­lo della ginestra, spicca il verde, colore acerbo, “il ver­de della parola che lascia un buco”. Si transita tra il si­lenzio di piombo, il silenzio che uccide, e il silenzio dell’impossibile a dire. Un silenzio d’oro: ciò che resta alla fine dell’analisi.
Un’immagine si fissa come un punctum. Un istante incancellabile si fa al contempo presente e assente. Un ricordo, forse un falso ricordo… Niente sarà più come prima, tutto si disfa. E inizia una corsa senza fine su binari paralleli che non si incontreranno più.
Una donna alle prese con l’enigma della femminilità, abitata da una faglia, alla ricerca di una risposta. Sin da bambina domanda invano alla madre, la cerca nell’Altra, la ricerca ancora nel Principe, e la cerca ancora. Non la trova. Non c’è, non esiste. Una donna incontra “una pietra d’inciampo”. Si smarrisce. La solitudine strappa e lacera. Malinconia, depressione. L’analista e, tra una seduta e l’altra, il tragitto. La sublime traversata della città, il “ponte fascista”. Si attraversa e ancora si passa da un capo all’altro. Incontri, soste dettagli della città eterna. Nella stanza dell’analisi si depositano tracce, brandelli, pezzi staccati che hanno segnato un destino.
Sguardo agalmatico. Sguardo che pietrifica come in un fermo immagine che dava consistenza all’inconsistenza dell’essere. La grammatica della pulsione scopica, che si scrive nel corpo e segna un modo singolare di vivere, prende corpo: guardare, essere guardati, guardarsi.
Sono gli anni in cui psicoanalisi e femminismo si incontrano, si scontrano e talvolta si contaminano a tal punto che il sapere sull’essere donna arriva a saturare l’enigma della femminilità. Il noi donne oblitera l’una per una del femminile. L’interrogativo di Freud: che cosa vuole una donna? scompare. Il continente nero, il mistero che una donna incarna, cede il passo alla famosa genitalità. Ecco la madre salire sulla scena! Madre e donna coincidono. Ci vorrà Jacques Lacan per risvegliare gli analisti dal torpore, dal sogno, dall’ideale dell’armonia genitale, dall’idea di complemen­tarità tra l’uomo e la donna. Sì, l’eretico Lacan stupirà il suo uditorio: “Non c’è rapporto sessuale!” e ancora: “C’è dell’Uno!”.
Nessuna armonia, solo incontro contingente tra due Uno.
Nessun rapporto tra il blu e il giallo. L’analista, “cifra temperata” e “braccia conserte”, la “Signora in giallo, da un lato, e il blu cobalto, dall’altro, che non sarà mai complementare al giallo”.

L’analista in giallo spinge a ricordare, corregge, inneg­gia alla normalità. Non coglie il buco – trou-trauma – del linguaggio, ma lo satura di senso. E l’analizzante? L’analizzante sogna, l’inconscio interpreta, da solo lavora, ma il suo dire è inghiottito dalla macchina terapeutica del senso. Le occasioni si perdono tra le braccia conserte dell’analista armata di ago e di filo che sutura e satura. L’analista dorme, si ipnotizza, non ne vuo­le sapere niente. Non legge la lettera muta che itera, i buchi nella tessitura. Il silenzio di piombo si fa assordante.
L’analizzante s’incaglia nel mare del senso.
Poi, l’incontro con l’analista umile, l’analista pietra, l’analista del silenzio incarnato che punta al reale. Grugnito, colpo di tosse, “residuo di voce”, rumore risuonano, si fanno presenza. L’analista non dorme, risveglia. L’interpretazione crea, tocca le budella, si fa enigma. Non indietreggia ma accompagna l’analizzante sino alla fine nel territorio dell’incurabile. L’analista umile, scava, sottrae, estrae, per arrivare all’osso. Sì, l’osso di una analisi. Lo sguardo si stacca e appare la voce. Alla fine dell’attraversata del deserto, nessuna risposta… “La donna non esiste”! Occorre un lavoro costante, senza sosta. Non è scritto.
La tessitura non cessa di non tessere. Per dirla con Maria Lai, “l’essere è tessere”.
Céline Menghi non cessa di non scrivere l’impossibile, non solo nello sforzo di ben-dire e non senza pudore, ma, quando il velo si fa ancor più necessario, intrecciando la sua scrittura alle righe della letteratura. Passa e ripassa attraverso la lettera muta – mu, bhu – per approdare infine al resto di niente.
Più fili si snodano e si snodano ancora lasciando il lettore in attesa, sospeso su un bordo.
Alla fine si annodano e si stringono intorno al buco dello sguardo e alla voce afona, che si stacca come “una raschiatura di voce” che si fa traccia singolare, marchio di esistenza.
Non resta che il color di vuoto, di un incavo.

Monica Vacca

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1 recensioni per Blu cobalto

  1. Donatella Barazzetti

    Ho finito di leggere Blu Cobalto questa notte. Ho chiuso il libro e sono rimasta a lungo in silenzio senza formulare nessun pensiero, fissando un punto indefinito dinnanzi a me. Silenzio, forse rispetto per la profondità di quel testo. Attraversata da sensazioni fisiche più che da pensieri, immedesimata in un sentire piuttosto che in un ragionare. Cosi è stato per me leggere il tuo libro. Un lasciarsi andare al suo ritmo, al suo suono, alla matericità dei colori, alle tensioni del dolore; un lasciarsi andare allo scorrere del testo senza sovrapporgli deduzioni, interpretazioni, analisi. Un sentire con tutti i sensi piuttosto che un leggere con lo sguardo della mente. Alla fine la corrente mi ha depositato su un argine familiare e sconosciuto allo stesso tempo, un ritrovarsi e insieme un perdersi che chiedeva il silenzio. Quello del mare aperto o di una vetta alpina, non quello del piombo. Céline, il tuo libro è davvero bello, mi sembra di sminuirne la portata racchiudendolo in pochi brandelli di pensiero. Intanto lo stupore. Lo stupore per come tu sia riuscita a dare forma di racconto all’allusione, a una storia senza narrare fatti. A dare al tuo testo la densità materica di un dipinto, a trasformare le tue pagine nella corposità del cobalto, del giallo, dello zinco, delle rocce e dei minerali, nel peso schiacciante del piombo. A farne un luogo di suoni, uno spartito dove la voce, la parola e la forma stessa del testo compongono armonie e dissonanze, a farne una tessitura a volte nodosa a volte serica, a volte strappata. La forma del testo. Un elemento fondamentale ai miei occhi quella stampa perfetta, i margini finalmente centrati e lo spazio giusto dal bordo della rilegatura e, soprattutto, lo spazio tra i capoversi. Uno spazio che permette di decantare il testo precedente, che offre riparo agli strappi, ai buchi, alla contraddizione, alla ferita. Non sarebbe lo stesso testo senza quegli spazi. E poi l’acutezza di quella insanabile contraddizione tra senso e parola, sempre giocata sull’orlo di una possibile perdita della propria presenza nel mondo. E a quel linguaggio che contenendoci fin nel profondo rivela i suoi tratti di prigione E il dolore. La macchia densa di vita di quei pantaloni blu cobalto che scendono il monte e il loro velarsi, trascolorire nel grigio del piombo. Il silenzio del piombo grigio e l’urlo del bianco abbagliante della neve. E la densità del corpo che riconduce a sé la parola e costruisce il tessuto del tuo scritto fatto di materialità e di carne, un femminile denso dai mille volti dai mille abissi, frastagliato, ferito, tacitato. Bellissimo Aggiungo ancora una considerazione perché è una reazione che ho avuto e mi ha molto sorpreso. Ho letto la postfazione prima del libro e mi è parsa straordinaria. E tale resta, sia chiaro. L’ho, però, riletta per curiosità dopo aver finito il testo. E sorprendentemente ho provato anche un senso di mancanza che prima non avevo percepito In quella tensione a dare conto dei tuoi riferimenti non esplicitati, nel bisogno di testimoniare e sottolineare le similiarità della tua scrittura, mi pare che in fondo si perda lei – per non dire lei, lei o del tutto lei, lei lei. Ma Céline dove è? Dove quello che esorbita dalla trama dei riferimenti, dove quello che è tuo e solo tuo, dove quella voce che rivendica la parola contro la giustapposizione del senso. Dove il dolore, dove la lacerazione? Probabilmente non poteva che essere così. Un a postfazione non può essere la riscrittura di un testo!!! Ma forse è anche un modo (maschile?) di ricomporre il senso (ancora una volta) tacendo della contraddizione? Grazie Céline, il tuo libro è un dono importante

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