PREFAZIONE

Viene alla mente il racconto della Bibbia che narra come dio dopo avere fatto la creazione della terra, delle acque e dell’uomo, creò il giardino dell’eden e vi collocò dentro l’uomo, ma subito pensò che non fosse giusto che Adamo vi stesse da solo e, quindi, pose tutti gli animali della terra, del cielo e delle acque dentro il giardino, e chiamò a sé l’uomo, e gli disse di dare un nome a ciascuno di essi. L’uomo nominò ogni essere vivente, e quale fu il nome dato da Adamo, quello rimase come voluto da dio, in modo che la parola parve venire dall’altrove. Questo racconto, tratto dal libro Genesi diviene la metafora poetica con cui si indica il linguaggio della poesia. In principio, dunque, sta il poeta che nomina le cose contenute nel giardino della poesia. E quale sia il codice linguistico attribuito ad ogni cosa, quello rimane ad identificare ogni roba, cioè la parola elaborata dal poeta diviene l’espressione che viene da lontano.
Non si vuole dire, però, che il poeta sappia creare le cose del mondo. Si dice, invece, che le nomina: attribuisce loro una identità, e quella rimane. Ma sorge subito il grosso problema. La denominazione del poeta sovente è plurale, per cui una cosa può essere sia questo sia quello sia altro ancora. Peggio ancora, può succedere che il nome dato alle cose non sia affatto una definizione in chiaro, ma al contrario sia un concetto enigmatico, cioè una metafora complessa, come ci mostra l’esempio tratto dal Breviario di Pinto: Pioggia = stratagemma della natura. Il linguaggio della poesia, dunque, non è mai apodittico come quello della Bibbia, ma è, invece, anfibologico: rappresenta letteralmente lo spo­stamento continuo del discorso poetico da una parte all’altra. Ne deriva che le operazioni fondamentali del poeta sono: primo, stabilire il linguaggio poetico di denominazione delle robe del mondo; secondo, avviare la ricerca sul tema prescelto; terzo, spostare continuamente il discorso con l’uso plurale del linguaggio concepito.
Nino Pinto non ha chiamato questo suo libro dizionario della poesia ovvero calepino del poeta oppure taccuino dei nomi o rubrica dei significati, come siamo abituati a riscontrare nel lessico questi simili raccoglitori di significati. Lo ha chiamato, invece, breviario. Il termine induce nel lettore un’attesa per un uso sia quotidiano sia liturgico del libro, come di chi se ne serva per svolgere un ufficio o una funzione di alto valore morale e di ricorrente abitudine. Tutto ciò altro non è che un introibo ovvero un avvicinamento alla ricerca e all’esercizio della verità. La verità è l’autentico ufficio del poeta. Allora, possiamo pensare che queste “definizioni” anfibologiche sono studiate per spostare di qua e di là il discorso intorno al bersaglio unico e complessivo del vero, essendo quest’ultimo il solo tema di tutta la ricerca lessicografica.
La verità di Nino Pinto ama giocare a nascondersi / con chi la cerca. Di conseguenza, brilla sul fondo di un pozzo di tenebra e si vergogna della sua nudità. Nel Breviario si contano quindici definizioni concernenti il concetto della “verità”. Ciascuna di esse sposta la messa a fuoco dell’obiettivo un poco più avanti o più indietro ovvero da un lato o dall’altro ovvero più in alto o più in basso. Il discorso poetico tradisce la sua natura di correlativo sovradimensionato rispetto alla realtà, nel senso che la realtà in poesia acquista una quantità indefinita di numerazioni e di dimensioni, di sfaccettature e di angoli, come gli occhi degli insetti producono immagini plurali, così i discorsi dei poeti raffigurano verità sovradimensionate. Ma tutte le immagini convergono sull’identificazione di un solo oggetto, che nel caso specifico è la nozione poetica della verità: bersaglio continuamente in movimento, all’interno di un pensiero poetante codificato come un caleidoscopio.
Le definizioni date appena superano le centotrenta, può sembrare poco rispetto alle oltre 140.000 voci della lingua italiana classificate nello Zingarelli, ma la maggiore parte di quelle voci hanno attinenza tecnico-scientifica e non potrebbero mai entrare in un dizionario poetico. Normalmente, un linguaggio poetico di ampio lessico prevede l’uso di ventimila vocaboli, pari a dieci volte l’estensione usata nella comunicazione del quotidiano, che si ferma a duemila vocaboli. Di quei ventimila vocaboli, la maggioranza sono parole che offrono un solo significato possibile, riferito a oggetti o ad azioni inequivocabili, come acqua, sedia, barca, camminare, leggere, pensare e così via. I vocaboli dal significato univoco sono come i singoli ossi che uniti insieme formano le ossa dello scheletro. Le ossa, collegate fra di loro da giunture mobili, permettono lo spostamento continuo dello scheletro. Dunque, le giunture sono la chiave enigmatica del sistema lessicale e sono rappresentate proprio dalle parole con valenza anfibologica. Come dice l’etimologia del termine, le parole polivalenti spostano il significato del discorso, fanno muovere il testo e il pensiero del lettore, esattamente come si muove un corpo umano, composto da ossi e ossicini. Ovviamente, ogni poeta si progetta lo scheletro del discorso nel modo a lui più congeniale e tale da garantirgli i movimenti dialettici che il poeta predilige.
Il breviario progettato da Nino Pinto – ormai sappiamo che il breviario rappresenta lo scheletro del discorso poetico – è orientato verso un movimento sostanzialmente tragico o drammatico, in cui trionfa una sinfonia di pessimismo all’insegna del patimento, dell’inganno, del dolore, della morte. Ormai conosciamo Nino Pinto come scrittore di ispirazione leopardiana, cioè incline a concepire un pensiero contemporaneamente filosofico e poetico, e sostanzialmente votato al pessimismo, tuttavia illuminato da un’ironia colta e sferzante, anch’essa di fattura tragica, ma anche incalzante e grintosa, come quella che il Recanatese ha svolto nelle Operette morali e che il nostro Autore ha già sviluppato nelle Poesie morali, del 2010.
L’inganno e la disillusione intervengono come limiti cogenti della speranza e spostano le definizioni di amore, natura, poesia, felicità, matrimonio, affetto e molte altre denominazioni, per non dire tutte. Vi è un’unica definizione che appare cristallina e palmare, ed è proprio quella dell’inganno: “Si cela nella sua perfezione”. Il raggiro della verità, dunque, è la trappola perfetta e nascosta che attenta all’ufficio del poeta, quello di recitare quotidianamente il breviario del vero. Lo stile di Nino Pinto è ormai universalmente noto: le definizioni sono tutte congegnate nello splendore della sobrietà verbale, la perfezione nella semplicità.

Sandro Gros-Pietro

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