Prefazione

Mario Rondi è fra i più autorevoli esponenti della letteratura italiana contemporanea espressa in chiave ironica e anche comica. È un versante che fino ad alcuni decenni or sono vantava una prestigiosa presenza di autori capaci di trattare le più elevate tematiche umanitarie, trasformandole mirabilmente in sequenze di ama­ri sorrisi o di gioiose pene. Erano scrittori che accordavano un aspetto preponderante alla sperimentazione e all’innovazione del linguaggio, per cui proprio da loro è nata tanta parte del surrealismo e dell’avanguardia. Si pensi ad Aldo Palazzeschi ed Emilio Gadda, a Cesare Zavattini e a Giovannino Guareschi, a Concetto Marchesi e a Pasquale Festa Campanile. Straordinaria im­portanza, in questo genere di letteratura, ebbe il teatro sia nelle sue espressioni più leggere sia nelle rappresentazioni di maggiore intensità drammaturgica, a partire da Ettore Pratolini ed Eduardo De Filippo per arrivare fino a Dario Fo e Giobbe Covatta. I nomi da fare sarebbero moltissimi, ma conviene chiarire che più ci avviciniamo all’attualità più si assottiglia la pattuglia degli scrittori comico-ironici di alto profilo letterario e più si ingrossa, in controtendenza, la schiera degli attori comici, cabarettisti e caricaturisti che oggi sono divenuti la piaga della televisione e della radio per via dell’infimo livello di banalità e scurrilità con cui si esprimono, bene al di sotto del teatro popolare di tradizione plautesca. Ne è derivato il luogo comune di gran parte della critica letteraria di considerare l’ironia e la comicità come una sorta di sotto-letteratura del disimpegno se non addirittura di idiozia gratuita o di pura sconcezza, con quello stesso atteggiamento di fastidio ovvero di mala sopportazione con cui si considera la pornografia, che è ritenuta espressione artistica deteriore del ben più blasonato eros.
Mario Rondi percorre, con fare nel contempo gentile e grifagno, il suo personalissimo percorso di alto stile letterario, sviluppato quasi esclusivamente in chiave comico-ironica, principalmente in poesia, anche se ha dato importanti contributi nel campo della prosa e specificamente della novellistica. Egli ha mantenuto esercitato l’amore per la sperimentazione linguistica o, più esattamente, per la centralità del linguaggio intesa come discrimine assertivo della buona letteratura. Non è detto che il buon linguaggio sia automaticamente fonte di ottima letteratura, ma ciò che è assolutamente innegabile è che non può esservi buona letteratura in assenza di meditate soluzioni linguistiche. La stessa co­sa vale per il cinema: non c’è buon cinema se non c’è una valida immagine. La cura del linguaggio in Mario Rondi si manifesta non tanto nel fatto esteriore del ricorso alla rima e alla metrica con adozione di forme chiuse ovvero di composizioni poetiche che presentano fra l’altro una misurazione basata su canoni lessicali. Anzi, tale aspetto formale è quasi un tic ironico ovvero una stramberia volutamente coltivata come ghiribizzo e arguzia spontanea. La rima incombe e procombe nei versi di Rondi per automatismi verbali. Il verso sembra nascere risucchiato ab origine in un modello ambrato e perfetto di piccola teca di parole, scatola magica che è caleidoscopio e mulinello di echi e di strilli, di ganci ed appigli, di rimandi e di appoggi selezionati e corrispondenti, come l’acciottolato in ricamo di pietra dei vialetti di un chiostro o il pavé di una strada d’antan. Però, non risiede mai nella natura dei ciottoli l’architettura visionaria del linguaggio poetico. Ma risiede in­vece nel ragionamento, che è sempre imprevedibile, analogico, plurivalente, surrealista, stratificato in un concerto di soluzioni possibilistiche. È dal pensiero poetante, dunque, che nasce la visione inquieta e anfibologica di Mario Rondi, non tanto dalla sua maestria di lessicografo, che è pur sempre un valore importante della sua formazione culturale. È il pensiero del poeta, elaborato al di fuori delle consuete equazioni di causa effetto della ragione, che giunge a rappresentare la mag­giore valenza innovativa e il pregio dell’opera. È un ragionamento d’anguilla, ora immobile e ora saettante, ma sempre imprendibile, e che diviene spettacolo entusiasmante nella mente del lettore, in quanto si dimostra capace di elaborare una dimensione estetica della bellezza della poesia, ed è altresì in grado di su­scitare compiacimento per l’avvenenza visiva del testo, per le forme precise, misurate e contenute delle espressioni.
E in questo superbo e lieve ragionamento poetico di Mario Rondi, è contenuta tutta la disgrazia e tutto l’agio dell’uomo moderno. Vi ritroviamo la sete erotica di dare e di ricevere amore, che viene continuamente elusa e sviata da espedienti di semplice concupiscenza sessuale. È manifestata l’insicurezza dei deboli e la tracotanza dei violenti. Sono illustrate le possibilità di svago, le gioie del tempo libero e l’esistenza affrancata dalla povertà e dal bisogno, come ecolalia delle civiltà moderne del welfare. Ne deriva che vi troviamo anche la vuotaggine, l’insensatezza, la vita al cinque per cento e i disagi tipici dell’uomo moderno. C’è la ricorrente inadeguatezza della divinità dei tempi nostri. Infatti, c’è un Dio – un poco cristiano e un poco pagano – che nella migliore delle ipotesi ci ricorda il maestro Perboni di De Amicis: una figura triste di vecchio bonario, colto ma quasi inutile, incapace di gestire la prorompente vivacità degli alunni a lui assegnati, perché non riesce ad essere altro che il Grande Assente, benché sia sempre presente, alle dinamiche evolutive della scolaresca. Nel Cabaret di Rondi, in verità, non c’è alcuna scolaresca descritta in metafora dell’umanità riunita in patto sociale, bensì al suo posto troviamo un campo/giardino – che è la caricatura minimalistica del mitico Eden – ma zeppo di ortaggi, fiori, erbe, insetti, e piccoli animaletti che dalla tradizione letteraria non ricevono un becco di cittadinanza poetica – vermi, lucertole, lumache, larve e addirittura qualche pidocchio – con la comparsa di pochi nobili animali dal comprovato pedigree letterario, come la cinciallegra, il passero, il fringuello e forse altri. Ma non di soli animali e piante è fatta la metafora dell’umanità proposta da Rondi, perché alcune poesie, pur sempre ambientate nell’hortus conclusus di cui si è detto, riguardano davvero il bipede Adamo e la sua compagna Eva ovvero per meglio dire sono poesie incernierate su protagonisti umani.
In tre sezioni si articola il libro: Tragicommedia, Avanspettacolo e Sarabanda, che insieme formano un centinaio di testi. Vi è organicità e uniformità di stile e di contenuto in tutto il libro, che si presenta con una concezione unitaria, sia pure in forma di mosaico, parcellizzato nelle tessere delle singole composizioni au­tonome, ma riunite nella coralità orchestrata di un’ideazione complessiva e armonica. Si noti che i componimenti della sezione denominata Avanspettacolo sono tutti di undici versi suddivisi in tre terzine e in un distico. Sovente, ma non sempre, le terzine sono composte da due endecasillabi, che racchiudono al loro interno un settenario che fa da cerniera. Altre volte, tutta la poesia è sistemata in endecasillabi. La rima riprende le varie tradizioni del sonetto italiano ed è proposta con ricchezza di accoppiamenti versali. È la sezione più movimentata e briosa, con soluzioni e messaggi spettacolari per eccellenza della dizione e per incisività linguistica.
La prima sezione, Tragicommedia, è composta invece da testi cui manca una terzina e, quindi risultano essere di otto versi anziché degli undici della sezione centrale, ma tali versi sono organizzati in una metrica più coturnata e formale, tutti endecasillabi con rima ABC, ABC, DD.
Le ultime ventiquattro poesie di Sarabanda, infine, riprendono la metrica della prima sezione appena illustrata, ma propongono soluzioni e contenuti più aerei e gioiosi, in uno sfolgorio di musicalità in cui la dizione del poeta ritrova appieno il fascino della sua più alta e inimitabile caratteristica: la leggerezza con cui si manifesta la profondità di una soppesata filosofia di vita.

Sandro Gros-Pietro

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