dalla PREFAZIONE

Il contenuto della poesia di Barricelli attiene alla rappresentazione dell’umanità, ancora una volta raffigurata con profilo ellittico, cioè sotteso a due fuochi, dei quali il primo è dato dalla visione antropologica, e il secondo dalla visione storica. L’indagine rimane così sospesa tra un discorso metastorico da una parte e un’analisi sul contingente dall’altra parte, in modo che i caratteri dell’umanità che vengono descritti nei versi hanno scaturigine volutamente caliginosa che ascende sia al determinismo sia al creativismo. Anche in questo balletto delle origini, Barricelli colloca lo spazio di un gioco ironico – quel tale gioco tra accettazione e sfida, di cui si è detto prima – che rappresenta la pura gioia della mente, di matrice illuminista. Un gustoso esempio di quanto si è appena esposto è fornito dalla splendida poesia Passeggiata a mare, che in appena quindici versi – un verso in più dello spazio deputato del sonetto, però si dica che la forma è aperta, perché in Barricelli non c’è mai costrizione dentro i canoni metrici delle forme chiuse – ci racconta della traversata in traghetto tra Formia e Ponza. Siamo a maggio inoltrato del 1969, al principiare della stagione balneare e nel periodo storico di piena affermazione dei grandi esodi vacanzieri di massa: tutto ciò ci fa pensare ad un’indagine sul contingente, bene delineata e consequenziale. Ma l’illustrazione allude anche a una ricognizione intorno ai caratteri antropologici che demandano a quella tale Nave dei folli disegnata da un giovane Albrecht Dürer alla fine del Quattrocento, e l’effetto complessivo che ne deriva diviene spassosissimo: “Da Formia a Ponza per più di quattro ore / e quattro al ritorno «La Freccia di Roma» / in fuga di lumache. E ululava in coro / la folla di straziati quasi a piatir lutti / e profezie funeste di geni delle spiagge. / Ma il più di noi sul legno s’accosciava / e poi spazzato via, guadagnava inerte / di nuovo la scoscesa. Giulia capeggiava / una piccola ciurma che ad ogni suo strido / d’incendio si spiegava, come dietro a un morto. / Cento fetidi rutti dal mozzo ai passeggeri / sfiatavano sul ponte che l’ondata invano / puliva boccheggiando. Tra un sbuffo e l’altro / saltelloni al buffet e qui serviva il barman / starnutando mare, infusi e beveraggi”. Alla fine il mal di mare della traversata provoca anche inciampi morfologici e ci pare di vedere Barricelli che se la ride sotto i baffi per avere adottato la sgrammaticatura di quel “un sbuffo” in luogo del corretto “uno sbuffo”, che agita l’allusione ecolalica riferita a “il zappatore” leopardiano (ma non è il solo caso di sberleffo grammaticale immesso nel testo dal poeta). Vi è, inoltre, un aspetto di costume molto vivace e interessante del nostro poeta beneventano che consiste nella sapiente ideazione di bozzetti dedicati a una galleria di personaggi diversi, amici artisti, poeti, parenti, intellettuali e altro, che va sotto la dizione diMedaglioni dell’Arco, e che con tale dizione accompagnano un lungo periodo della produzione di Barricelli, li ritroviamo sempre nuovi e sempre ampliati ad altri personaggi nei libri successivi. La dizione di medaglioni dell’Arco è stata adottata dall’autore per ricordare l’associazione culturale omonima, da lui sempre frequentata con impegno e diletto. Attraverso questi medaglioni si ricostruisce la fisionomia di un’umanità variegata e sovente orientata più all’obiettivo di apparaaire che non a quello di essere, ma osservata, come abbiamo già visto, con giocosa indulgenza dal poeta, che se ne sente complice o comunque testimone a favore per un’assoluzione finale che tenga conto della sostanziale inanità delle nostre fatiche di vivere di fronte all’enigma imperscrutabile del cosmo intero. Anche questi medaglioni hanno un’eco ovvero una corrispondenza letteraria, che, forse, non era nelle intenzioni del loro autore, ma che sorge spontanea nelle valutazioni di critica comparata che potrebbe fare il lettore. Si tratta della Spoon River anthology di Edgar Lee Masters, che in Italia apparve per la prima volta in edizione Einaudi, a cura di Cesare Pavese, con traduzione di Fernanda Pivano, nel 1943, e che poi diventa una lettura di culto dopo che Fabrizio De Andrè, nel 1971, pubblica l’album di canzoni Non al denaro, non all’amore né al cielo, tratto da nove poemetti scelti sui diciannove che contiene l’antologia del poeta americano.

Sandro Gros-Pietro

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