I MORMORII DEL SILENZIO

Con questa più recente raccolta, Cielo alla finestra, Gianni Rescigno ci richiama ancora una volta – ma con una densità di scrittura protratta lungo una rara abbondanza testuale – a quello che Giorgio Bárberi Squarotti, dicendo di lui in Gli occhi sul tempo (plaquette a quattro mani con il giovane poeta Menotti Lerro), definiva “un grandioso appagamento”.
È interessante notare l’efficacia di questa sorta di ossimoro. Il poeta è appagato nel rivivere, per altro non con passività bensì con costanza di ricerca, certa eredità lasciataci da una sommessa, pacata visione particolare della poesia italiana del Novecento: ‘oltre’ le avanguardie, o al di fuori, senza per altro trascurarne del tutto l’influenza. Rescigno, per quanto attiene la forma del suo poiéin, osserva con pacificante nobiltà la vicenda ora idilliaca, ora tragica, sempre innamorata del suo intimo tempo. Anche, talvolta, con la leggerezza di una umana giustificata quasi cinica (persino cantabile nella rima) rassegnazione. Si legga, per esempio:

Siamo quelli che vorrebbero amare. / Siamo quelli che non lo sanno fare. / Noi siamo e non siamo…
Come risolve questa sua duplice visione delle cose? La realizza nella verità (l’unica infine) del silenzio.
Guarda appunto il cielo dalla finestra, e il cielo invocato entra dalla sua finestra. Ciò significa che si vuole lasciar fuori l’inganno, la mistificazione del rumore. Il rumore vaniloquente delle nostre stesse amatissime illusioni. L’assalto spesso crudele delle memorie. È propriamente la caratteristica, ‘nobile’ appunto, di molta poesia del secolo scorso (e anche attuale, se quest’ultima non fosse così precaria nella forma…). “Il fiume fermo nella sua pelle luminosa / aggricciata dal controvento, un’ultima / ritrosia del fiume poco prima dei ponti – Chi sa come mi lascia il suo silenzio / all’interno balenio di quel ricordo…”, recita Mario Luzi. E “… l’autunno ti aspettava / senza chiedere niente” dice Luciano Erba (quando l’agitato mondo, comprese talvolta le stagioni incerte, non fa che chiedere rumorosamente e invano). E a proposito d’autunno silente Rescigno presume: … Autunno: i sogni vanno […] / Non si sa in quale terra…
D’altro canto il silenzio è un richiamo esplicito e costante in questa raccolta di Rescigno:

i nostri silenzi / s’incontravano nella sera…; … L’agave del silenzio / che dal cielo scende…, … Il mio passo è pensiero. / Il parlarti silenzio…, … Il mio silenzio quando volo / è più forte di mille voci…; … dove il cuore rovina e nessuno lo sente; … Forse alle orecchie / ci resterà soltanto il vento…, … Tra me e te madre: il silenzio, / il dolore del distacco…, … addestrati a riconoscerci nel buio / senza il fiato di una sola parola… ,… E il vento nel silenzio s’arena…

E così via.
E una poesia s’intitola La tristezza e il silenzio:

Mi chiamavi guerriero pazzo / sei vento di tramontana / che sradica e schiaffeggia // mai immaginavo / d’ammalarmi d’animo / e che mi penetrasse / gli occhi la tristezza // il silenzio che vi scorgi / è la speranza senza parole / l’ultima preghiera della vita / con me seduta a dimenticare / chi ero a pensare chi sarò.

Per taluni aspetti anche un solo testo di questa raccolta può sintetizzare, grazie alla coerenza dei sensi più intimi, l’intera esperienza di un poema, di una vita – potremmo pensare alla ungarettiana Vita di un uomo – dominata da un’aura di sommessi, mai ossessivi, mormorati interrogativi. Senza risposte, ovviamente: ma questa è propriamente la condizione della poesia. La filosofia, le scienze forniscono, o credono di fornire, soluzioni, seppur provvisorie. La poesia, e questa in particolare di Rescigno, accetta la condizione dell’essere con i suoi tormenti e le sue non definibili attese.
Mai immaginavo / d’ammalarmi d’animo dichiara un turbamento che tuttavia subito si affida alla speranza senza parole, che è fatta disilenzi. Mai disperazioni, quindi, mai recriminazioni, nemmeno quando la memoria riporta al, pur anche fortemente amato, vento di tramontana / che sradica e schiaffeggia. Il vento è un altro momento, soffio di vita, che aleggia sul totalizzante coinvolgimento di questa esperienza: ed è lemma, anch’esso, che si presta a immagini di sofferenze accettate, quasi naturali, necessarie in un rapporto d’amore (seduti accanto, per dimenticare, eppure, paradossalmente, riprendere la domanda individuale, ma ontologica). Sequenze di una vicenda scandita ritmicamente dagli enjambements: ogni verso vale uno stato non definibile se non nell’incerta, tuttavia forte, aspirazione del verso successivo. Ed è rivelata una condizione umana, più che umana, in quanto poetica: dimenticare chi ero e pensare chi saròanche nell’ultimo momento, nell’ultima preghiera della vita.
Potremmo dire di una resistenza, che vale quel “grandioso appagamento” di cui parla Bárberi Squarotti. Resistenza che ancora una volta non si afferma in rivoltose passioni, bensì in mormorati e mai stanchi silenzi.
Siamo di fronte a due temi dominanti, o meglio imprescindibili: l’amore, antico e sempre attuale, per la donna e della donna – il colloquio ne dichiara costantemente la presenza. L’incerta, ma costante, ricerca (sovente appagata nella fede) di un Dio che benedica, che conservi, che prometta.
Ma la donna e il Dio forse sono i nomi che, in una apparente follia (in realtà per il poeta l’immancabile follia creativa), segnano propriamente la presenza della poesia:

Non follia / soltanto polvere / fin troppa polvere di cielo / mescolato a mare e terra / la poesia.

Anche la poesia come miraggio, oltre la contingenza, e questa volta nel sonno, nel sogno. È la conclusione dell’intera raccolta:

… Vapori di sudore e vento rosso venuto / da miraggi respirano queste ore addormentate.

Gio Ferri

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