Prefazione

Non so sottrarmi al luogo comune di citare Orazio, ut pictura poësis, riferito al personaggio di Edith Dzieduszycka, donna dotata di ricca creatività artistica che ha sempre coniugato insieme la parola con l’immagine e viceversa, proprio come discettava lo scrittore di Roma antica universalmente amato – secondo un’indagine di Google proprio Orazio è oggi l’autore latino di gran lunga più “cliccato” in tutto il mondo – nella sua Ars poetica ovvero Epistola ai Pisoni che dire si voglia: quell’insistere sull’osservazione da vicino e da lontano della raffigurazione pittorica, che è in tutto simile all’esame d’insieme di un testo poetico ovvero alla puntiglio­sa indagine da vicino di ogni forma espressiva e di ogni elaborazione dei contenuti. Dzieduszycka ha “digerito” la lezione millenaria di Orazio, che tra l’altro risale ad Aristotele, l’ha vissuta nel quotidiano, l’ha messa in pratica nello studio dei contenuti (inventio rerum) e nella elaborazione delle forme (facundia). Potrei porre l’amletica dubitazione: è la Dzieduszycka una pittrice ovvero una poeta? Se sia più giusto prediligere in lei l’orma della bellezza riverberata nelle immagini ovvero quella marcata dalle parole? Se insistessi sul concetto, cadrei nella parodia a Shakespeare e farei un torto a Dzieduszycka, che al contrario merita un inquadramento decisamente attuale, in stretta attinenza a ciò che oggi è divenuta la ricerca poetica, principalmente un discorso della ragione sulle possibilità negate di filosofeggiare intorno alle forme del vero.
Cinque + Cinq è una raccolta in due tempi, Uno e Due, che insieme scandiscono l’intuizione e la deduzione, circa l’inabilità dell’artista moderno di rendersi de­miur­go e/o vate veggente che intravede o lumeggia una realtà altra o comunque avere una visione ad oltranza che si spinga al di là dei circoscritti confini della ragione empirica e del ragionamento scientifico, che come bene si sa è una strada lastricata da superbe visioni e da acerrime delusioni, siccome Leopardi ci insegna. Detto e fat­to: 70 tessere nel primo Uno e altre 53 nel secondo Due per comporre il mosaico del discorso sulla verità negata o più esattamente inintelligibile della nostra esistenza consumata su un Pianeta affascinante di Storia e di Natura, ma totalmente enigmatico nel suo consumo entropico e a disperdere di energia vitale e di prospettive salvifiche, tant’è che la poeta può bene scrivere Se crede di sapere, qualcuno, / dove porta la strada / che sta per prendere, / come chiamarlo / se non presuntuoso? Solo i supponenti, dunque, s’azzardano a dirci quale sia la meta odissiaca del nostro viaggio, ma la poeta sconta appieno l’incapacità degli esistenzialisti, dei pessimisti, dei minimalisti di scorgere l’avvisaglia della “sopra-realtà” come panorama ideale di rappacificazione e di risarcimento degli errori e degli orrori della realtà in cui boccheggiamo naufraghi e profughi dall’Eden. E ce lo dice – con il compiacimento di Orazio – nelle forme faconde di un’espressione semplice e alata, capace di unire insieme levità ed efficacia del discorso: il pentagono! Non mi avventuro neppure per un attimo nel labirinto di perfezioni geometriche e ideali che rappresenta il pentagono euclideo da cui discende il triangolo aureo e quindi la sezione aurea, né vado a richiamare l’idea di fortezza inespugnabile na­poleonica che avevano i fortini ottocenteschi architettati a pentagono, in omaggio ai quali gli americani vollero erigere il più celebrato Pentagono dell’intero Pianeta, ma sta di fatto che il poligono in questione è l’esempio più equilibrato della ragione e dell’equilibrio delle forze, cioè di tutte le forze in campo che spingono o che deflagrano dai e sui lati della struttura: esso è il trionfo della ragione ragionata, ed è anche la misura metrica, forse non totalmente a caso, dell’espressione poetica scelta da Dzieduszycka. Cinque versi sostanzialmente liberi, assai raramente codificati in metrica tradizionale, ma invece scanditi sulle esigenze paratattiche del ragionamento sui contenuti, in evidente privilegio della sostanza argomentativa rispetto alla forma espositiva: cinque versi per aprire e per chiudere il lampo di un discorso, il baleno di una sentenza, l’abisso di un’interrogazione che è sempre un orrido tombale, senza l’eco di alcuna risposta possibile. I cinque assumono il significato di una notizia dal mondo, cioè l’enunciato di una cosa che c’è, come accade nei Tristia di Ovidio, che sono costellati da notizie provenienti da Roma, la Città dove si passa la vita e la civiltà, e sono notizie che raggiungono il poeta, il quale è in esilio a Tomi, a Costanza sul Mar Nero, e riflette sui casi della vi­ta e sul loro significato. Similmente qui abbiamo la poeta che è racchiusa nell’esilio della solitudine come una mo­nade perfetta ed eroica – in ecolalia della tragedia gre­ca! – dopo avere fatto esalare i fatti spiccioli della quotidianità, dopo avere prosciugato il cuore pulsante di affetti familiari, dopo avere sorvolato su tutte le spinte emotive che assediano tentacolari una bella donna quale Edith è stata ed è tuttora, resta la cenere del discorso poetico d’antan, il combusto consumo della civiltà fatta di eros e di passioni, cioè il ragionamento solitario della poeta alla luce del quale la scrittrice rivela che Nulla più della solitudine / per accendere l’attenzione, / attizzare la tensione, verso il piccolo, / l’infimo, l’invisibile, nascosti dalla massa / informe del quotidiano. Omaggio alla tenerezza pascoliana e gozzaniana delle piccole cose che racchiudono la noce del cosmo e delle sue inafferrabili leggi.
Edith Dzieduszycka propone un testo bilingue, ma attenzione, perché non si tratta di una traduzione ovvero di un travaso da una lingua all’altra, bensì di una vista bi-oculare, che fornisce due immagini verbali del tutto simili ma anche totalmente differenziate e approfondenti dello stesso tema affrontato nella poesia, che è una sola, ma sviluppata in due lingue, le quali si integrano vicendevolmente al punto di sfociare in una densità lessicale di grande effetto. Tutto ciò avviene sempre nel precetto fondamentale di Orazio di fare le cose semplici e di non cercare mai parole difficili e inusuali, che sortiscono in uno sfoggio di erudizione, ma sono totalmente prive di efficacia espressiva. Ho presente i cani siberiani di razza husky, i quali sovente hanno due occhi diversi, per lo più uno celeste del colore del cielo e l’altro bru­no scuro, del colore della terra fertile: linguisticamente questo Cinque + Cinq mette insieme due occhi linguistici, l’italiano e il francese, dai colori tutt’affatto diversi, ma la visione in parole che forniscono è una composizione unica e meditata, di esemplare bellezza. Del re­sto, si tratta di due occhi che hanno letto e composto i ma­noscritti di una grande parte della poesia dell’Europa continentale, due occhi – l’italiano e il francese – che sono ben noti ai cultori della poesia d’Occidente. Le tessere poetiche che compongono il mosaico può accadere che siano agganciate fra loro in una ripresa dei simboli come succede con quelle del domino: l’ultima parte del discorso della prima serve a introdurre il discorso della seconda, e ciò contribuisce a marcare l’unicità organica del mosaico poetico nel suo insieme, tutte le tessere sono forze in equilibrio che appartengono al pentagono. E questo pentagono ha una coda poetica conclusiva che finisce come la scia delle comete, in una dizione che sfiora la meraviglia e che riassume lo stupore dubitativo intricato dei grandi dubbi che assalgono la ragione: Im­prudente e curiosa, / chinata sull’orlo di un abisso, / ho in­travisto, / in fondo, / massa brulicante, i pensieri, / a pro­fusione, / dimenticati. / Mi perseguiteranno, / furenti, / lo prevedo, / per passare anche loro / dall’ombra alla luce. Ecco, l’ultimo verso della scia di cometa finale è un programma di attesa e di speranza che riempie il cuore e che varrebbe il titolo dell’intero libro – dall’ombra alla luce – e ci dice di un passaggio che avviene arrendendosi umanamente all’impotenza della massa brulicante dei pensieri, accumulati negli archivi della mente, mandati a memoria ovvero dimenticati a profusione nell’entropia disordinata dell’universo. La lu­ce, dunque, è l’accettazione del dubbio, è la conciliazione con il relativismo delle idee e delle umane possibilità di analisi e di comprensione: quanti punti interrogativi sorreggono le colonne portanti di questo libro! Vie­ne in mente Carlo Michelstaedter nel suo poemetto de­dicato a Senia, quando afferma Senia, il porto è la fu­ria del mare, / è la furia del nembo più forte, / quando libera ride la morte / a chi libero la sfidò, versi che fuori di metafora alludono al fatto che chi cerca la verità – cioè in metafora “chi naviga per mare”, in altre parole l’eterno Ulisse da Omero a Joyce – può trovare la “quiete del porto” – cioè in metafora può raggiungere la sua meta conclusiva – solo continuando ad affrontare la furia del mare, ossia a penare sui dubbi che lo assalgono, fino a tanto che quegli stessi dubbi non diventino il suo luminoso e quieto rifugio.

Sandro Gros-Pietro

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1 recensioni per Cinque + cinq

  1. Eros Pessina

    È delizioso, per chi ama il francese, poter inseguire come in un gioco le due lingue che si alternano fra centinaia di versi che scorrono veloci nel libro. Ora in italiano e subito dopo in francese, seguendo una traduzione che a volta volontariamente cambia un po’ il significato. Le frasi si alternano e si susseguono in modo ingegnoso. Come ne “i colori del buio” di Vecchioni, si alternano in italiano ed in francese la tragedia della vita e la gioia dei nostri cuori: come Rimbaud in ansia nel cercare dal mare le luci di Marsiglia lontana, così il libro ci presenta in ogni pagina nuovi colpi di scena e pensieri sull’esistenza e la gioia di vivere. Molto bello ed originalissimo.

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