Introduzione

La poesia in dialetto piemontese di Piero Costa è apparsa in stampa nell’arco d’anni compreso tra il 1999 e il 2004, suddivisa nelle tre raccolte Arcòrd d’ën tèmp dësblà, del 1999, E, ’n sla fin, soma ’n cros! del 2002, e infine Diari ’d n’arnosa preuva (Stòria che «nen» l’è stòria), tutte pubblicate con Cultura e Società di Torino. Le pubblicazioni sono state commentate da Michela Grosso, Gioanìn Magnani, Daniele Melano, Sergio Notario, Camillo Brero, Piera Alloatti, a dimostrazione del seguito e dell’attenzione che l’Autore ha suscitato intorno a sé fino dall’inizio del suo percorso creativo. In verità, l’inizio delle pubblicazioni dell’opera intellettuale di Piero Costa va fatta risalire a un lustro avanti, quando fece uscire i volumi, sempre per i caratteri di Cultura e società, Ant’Avanguardismo nel 1994, cui seguì Neostilnovismo nel 1995, Autoterapia, nel 1996, e il bellissimo Diario di Azalais nel 1998, il quale poi verrà dall’Autore riproposto nella nuova edizione di Ave a chi morituro m’è compagno, per i caratteri Genesi, del 2017. Ad arrivare ad oggi, si compone un arco temporale di venticinque anni di pubblicazioni con una ventina di titoli globalmente pubblicati, distribuiti nei caratteri dei suoi tre principali editori, cioè Cultura e Società, Helicon e Genesi Editrice, senza contare l’attività epistolare rivolta a esponenti del mondo della cultura e della politica, le collaborazioni a giornali e riviste, fra le quali va ricordato per lo meno l’ampio servizio apparso su Vernice, n.° 55, del 2018, pagg. 103-136.
Piero Costa è, dunque, un autore strutturato letterariamente sulle due sponde della poesia contemporanea italiana, che potremmo definire, forzando un poco i termini della tradizione letteraria, nei due rami “lo stile basso”, che è scritto in dialetto; e lo “stile alto”, che è scritto in lingua italiana. C’è un carattere comune a questi due mondi letterari, di per sé tendenzialmente autonomi l’uno dall’altro. Tutti e due gli stili espressivi di Costa, quello in dialetto e quello in lingua, condividono la polemica con l’improntitudine avanguardista, cui fa da complemento un ritorno e una riproposta alle for­me contenute e metriche del passato. Tuttavia, ciò non autorizza minimamente a considerare Piero Costa un esponente della tradizione e un misoneista avversario delle novità. Al contrario, bisogna riconoscere al Poeta torinese (più precisamente di None, comune ormai inserito nel tessuto metropolitano della Capitale piemontese) una straordinaria e inesauribile vocazione creativa, innovativa e rivoluzionaria, capace di sovvertire le forme tradizionali e comuni del linguaggio poetico con introduzione di neologismi, di distorsioni lessicali, di elaborate costruzioni sintattiche, che rappresentano un’autentica festa di fuochi d’artificio prodotti dalla mente poetica dell’Autore.
Si è sentita l’esigenza di riprendere in mano il “canzoniere dialettale” di Piero Costa edito nel lustro 1999-2004, perché non andassero perduti i testi, divenuti ormai quasi introvabili e custoditi in poche librerie nazionali e comunali. Si è deciso di approntare questa nuova edizione con assoluta fedeltà dei testi originari licenziati dall’Autore a suo tempo. Rispetto alle edizioni originali, sono state, tuttavia, abolite le note a piè pagina, redatte dallo stesso Autore, ma che fornivano unicamente dei lumi sul lessico dialettale, senza nulla aggiungere all’interpretazione dell’atmosfera di poeticità o di scelta del linguaggio. Similmente si è deciso di riprodurre, fra tutti i commenti pubblicati nelle prime edizioni, solo quelli di Camillo Brero e di Gioanìn Magnani, per la straordinaria testimonianza di vicinanza a Piero Costa espressa da questi due eminenti cultori del dialetto piemontese.
I temi portanti del canzoniere dialettale sono quelli della “provvida sventura” di manzoniana memoria, in conseguenza della quale le disgrazie che colpiscono gli uomini recano anche il seme della redenzione e del riscatto. Piero Costa intravede da sempre una sapienza di vita superiore, tale da soprassedere ai destini materiali che toccano a ciascuno di noi. Tale soglia del divinum, tuttavia, non è mai edulcorata con atteggiamenti di fiduciosa speranza in un premiale risarcimento che tocchi a quanti sulla Terra soffrono condizioni di miseria e di dolore. La povertà, la fatica, l’umiliazione, la lotta giornaliera, la crudezza dei rapporti umani, corrosi dall’invidia degli impotenti e minati dalla violenza dei più forti, rappresentano gli scenari di ordinaria dannazione su cui si muove grande parte dei personaggi umani di queste poesie, intonate alla fatica di vivere. Il pensiero corre allo splendido diario di Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, di cui Marziano Guglielminetti aveva annotato il carattere di “confessione esistenziale, ora sottilmente compiaciuta, ora crudamente impietosa”. Pare quasi che Piero Sola Costa abbia in mente lo scrittore di Santo Stefano Belbo, almeno per quanto attiene le descrizioni di mortificazione e di imbarbarimento dei lavori di campagna, e specificamente, nel caso del Nonese, del lavoro umile e frustrante del vaccaro. Il canzoniere come si è detto assume la forma del diario, non tanto perché le singole composizioni sono sigillate con precisione quasi notarile dalle singole date. Infatti, quelle date ci indicano il momento della scrittura, ma nulla hanno a che vedere con il momento del fatto o dell’epoca o del sentimento o dell’analisi psicologica elaborate nel testo della poesia. Le cose che vengono descritte sono già state archiviate nella memoria del Poeta, che le evoca attraverso il ricordo. Egli stesso battezza con il neologismo “rimuginio”, nel senso di ripensamento ovvero rimasticazione, l’operazione di risurrezione dei tempi e dei luoghi della vita trascorsa. Il canzoniere, allora, si avvicina all’esempio di eccellenza che è rimasto nella storia della nostra letteratura come il più splendente delle opere aventi questo carattere, che è il Secretum di Petrarca, a sua volta scritto tenendo a mente uno dei massimi capolavori della civiltà occidentale, cioè le Confessiones di Agostino d’Ippona. Benché sia scritto in poesia, cioè con l’ingaggio di un pensiero analogico anziché logico, quindi con una visione interpretativa anziché descrittiva, il canzoniere dialettale di Piero Sola Costa è un’opera parallela allo Zibaldone di Recanatese: è il sentiero impervio di un ragionamento sulla grande avventura e sventura di vivere: è una riflessione con sé stessi, un interrogativo amletico. La forma del diario, di conseguenza, deriva a questa raccolta di poesia dall’intento di dialogo riflessivo che si sviluppa nel corso dei tre libri. Si tratta di un Anti Poema, dunque, esattamente come lo definisce il Nostro: è poesia della non-poesia, perché canto poetico di un diario, di una narrazione, di un’autoconfessione: un’indagine psicologica di autoanalisi, condotta dall’Autore su sé stesso.
L’ambiente familiare è certamente uno dei Leitmotif ricorrenti nel corso dell’intero canzoniere, tripartito nelle tre ‘cantiche’. Un ambiente d’infanzia e di prima adolescenza segnato dalla povertà, quasi ai limiti dell’indigenza, con lo spettro della fame che avrebbe potuto sempre manifestarsi nella stretta dei bisogni primari. In questa anticamera di povertà, la figura del padre-padrone troneggia co­me spauracchio ovvero spaventapasseri sul povero fanciullino, che è sottratto ai giochi o alle scadenze scolastiche per essere sfruttato come stalliere o aiutante vaccaro, dal padre abbrutito non solo dal vino, ma più di tutto dalla miseria e dagli stenti che egli stesso ha dovuto a sua volta subire. Il fanciullino è figlio unico e come tale riceve affetto e attenzioni dalla madre, che tuttavia può fare ben poche cose, oltre le parole e i buoni sentimenti, per migliorare le condizioni di disagio del figlio. Ben presto la madre diviene invalida e il figlio ne accudisce la degenza fino all’estremo trapasso.
Ogni canzoniere, accanto alle scene di vita e all’alternarsi delle stagioni, addipana sempre anche una storia di amore, che nel caso del Poeta è quasi un amour de loin, come se fosse quello raccontato da Jaufré Rudel nei confronti della contessa di Tripoli. Nel nostro caso, si tratta, invece, di una sorta di turbamento adolescenziale per una giovinetta che viene idealizzata dal poeta ancora fanciullo, quasi come Giacomo Leopardi fece nei confronti di Silvia. Tuttavia, poiché le poesie sono scritte a distanza di molti anni dagli eventi narrati, alla dolcezza dei ricordi di allora si sovrappone il pensiero delle condizioni di oggi, di avanzata maturità del Poeta, che ora s’immagina quanto l’azione del tempo abbia fatto decadere le sembianze di sensualità e fascino della giovinetta e l’abbia trasformata in un’anziana signora priva di attrattiva, ancorché sia ancora in vita. C’è qui una decisa discrepanza con il canto di Petrarca, che assiste al feretro della sua amata Laura e benché la veda deturpata irrimediabilmente dai segni corruttivi della morte, la trova ancora incomparabilmente bella, perché icona di una poesia che il tempo non può né corrodere né deformare.
La condizione di scrivere un canzoniere, in for­ma di memoriale, a molti anni di distanza dagli eventi richiamati alla memoria, permette al Poeta di divenire un viandante del tempo, che si trasporta in avanti e in dietro, attraverso i procedimenti letterari dell’analessi e della prolessi. Ne deriva che accanto ai fatti accaduti negli anni della guerra e dopo la ritrovata pace, fino a giungere alla disgrazia accaduta al Poeta sulle sponde del torrente Chisola, assistiamo a un volo pontefice nel tempo e ci ritroviamo nell’attualità, nella condizione di decenza borghese raggiunta dal poeta, dopo anni di studio e di insegnamento. Vediamo, allora, il Poeta nella sua specola d’osservazione, un ideale osservatorio puntato sul Paese nel suo complesso e su None in particolare. Quest’ultimo è una sorta di leopardiano “natio borgo selvaggio”, poco incline ad apprezzare le doti di studio e di applicazione poetica del Nostro. Ritroviamo così uno dei grandi capisaldi della poesia dialettale di Piero Sola Costa che consiste nel rapporto di odi et amo sia con il suo Paese natio sia – e ancora di più – con il suo amatissimo Piemonte. Il Poeta avverte la decadenza della terra da cui partì il Risorgimento italiano. È un declino causato sia dallo svilimento dei valori morali e etici delle nuove generazioni sia dalla diminuzione demografica degli abitanti originari, invasi da un’immigrazione sovrabbondante di origine dapprima interna e poi extracomunitaria. Il Poeta da un lato si dispiace del declino del Piemonte e di None, ma d’altro canto ama ricorda il valore degli antenati. Proprio in quest’ultimo aspetto, Piero Sola Costa sembra quasi volere rivolgere un omaggio al suo celeberrimo omonimo Nino Costa, poeta in dialetto piemontese, in particolare alla poesia Rassa nostrana, citata con emozione da Papa Francesco il 21 giugno 2015, in occasione della sua visita a Torino per l’ostensione della Sacra Sindone, “Drit e sincer, cosa ch’a sun, a smjio: / teste quadre, plus ferm e fi’dic san; / a parlo poc, ma a san cosa ch’a diso / bele ch’a marcio adasi, a van luntan.” [Diritti e sinceri, quel che sono, appaiono: / teste quadre, polso fermo e fegato sano: / parlano poco, ma sanno quello che dicono: pur camminando adagio, vanno lontano]. Fa da riscontro, come eco che si rinnova nel tempo, la bellissima poesia di Piero Sola Costa, E j’ero piemontèis, collocata quasi all’inizio del canzoniere: “Noi j’ero fàit parèj / magàra ’d “bogia nèn” / s’at piaso le tichëtte – / «còti» parèj dël fèn / ’nt ël sol dëlò mèis ëd magg: / e… j’ero piemontèis! // E, ’nt ël cortìl, la sèira / – setà sota la lun-a, / d’istà, dòp dël travàj – / parlà Ilvo, con lentëssa, / dij gran e dla fortùn-a: / e… j’ero piemontèis!” [Noi eravamo fatti così / magari dei “bogia nen” / se ti piacciono le etichette – / morbidi come il fieno / nel sole del mese di maggio: / perché eravamo piemontesi! // E nel cortile, la sera / – seduti sotto la luna / d’estate, dopo il lavoro – / parlavamo con lentezza / del grano e della fortuna: / perché eravamo piemontesi!].
L’Anti Poema si presenta come un monumento eretto alla realtà descritta tra il sogno e il segno. La concretezza di mantenere i piedi per terra è controbilanciata dal talento di traguardare i limiti con la libertà del sogno, che a sua volta è catturata nei segni e nelle regole del linguaggio adottato, dei codici lessicali e sintattici della lingua piemontese, che impongono confini e ristrettezze al libero volo della fantasia. Piero Costa ci lascia in eredità questo Poema che è un non-Poema, perché è scritto per raccontare il mondo degli umili e degli sconfitti dalla Storia e dalla cruda prepotenza dei violenti. Non è l’Iliade di Omero, che narra le gesta degli eroi che competono con il fato e con gli Dèi per compiere eventi straordinari, rocambolesche sfide. Non c’è neppure quell’afflato lirico pronunziato da Ugo Foscolo nel poemetto de I Sepolcri (A egregie cose il forte animo accendono / l’urne de’ forti). C’è, invece, “la poesia senza cielo”, cioè senza luminose stelle che aprano la fuga dal mondo reale. Al contrario, c’è il buio della solitudine dell’uomo chiuso nella sua monade civile e temporale come il baco nel bozzolo. Tuttavia, fa da contrappeso l’immensa capacità di “rimuginio” che il non-Poeta possiede nel filare il suo lucente filo serico di scrittura, capace di slargarsi in inesauribili panorami interiori della mente e dell’anima, come bene Piero Sola Costa dimostra in tutta la sua grandiosa opera.

Sandro Gros-Pietro

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