Nota dell’editore

Il filo rosso che marca lo svolgimento di Congetture sul perduto amore è nientemeno che la fonte da cui sgorgano i settecento e più anni di storia della letteratura italiana, cioè il viaggio condotto dal poeta alla ricerca della bellezza, che poi altro non è che l’amore, nella sua vertigine ingovernabile di armonia e di ribellione rispetto ai fatti e alle regole della vita, in ogni loro manifestazione. Ci vuole la ma­gia del Buon Incantatore capace di trasformare la noia sesquipedale del tran-tran di vivere, rappresentata metaforicamente da un viaggio in treno attraverso una terra sen­za altro paesaggio che la monotonia del ripetersi anodino delle identiche vedute, in un convegno d’amore capace di scavare nei precordi dei personaggi in cerca d’autore riuniti nel vagone ferroviario. E tale carrozza ferroviaria è nientemeno che il celeberrimo vasel dantesco, esposto ad ogni ven­to, al “voler vostro e mio”. Ma se l’intento è così apertamente letterario, va det­to che la realizzazione del superbo lavoro teatrale di Renato Gabriele è tutt’altra cosa che una lezione di critica epistemologica o di filologia. Gli schemi vengono su­bito rotti. Sul palcoscenico si muove un Mago Merlino in abito da barman di carrozza ristorante; c’è il poeta Guido Guinizzelli, che manco per nulla è consapevole d’essere l’eletto che darà la stura ai settecento anni di letteratura italiana sul tema dell’amore – immaginatevi la durata paradossale di tale convegno ferroviario, che impegnerà la vita di ben tre Matusalemme! Vengono evocate le divinità che stanno a monte del convegno, cioè le antichità classiche e l’armonia ellenica da cui di­scenderanno i “balbuzienti”, cioè i barbari, ossia dicasi pure noi stessi, che non sappiamo parlare “latino”, ma solo il volgare, come Dante insegna, e che abbiamo perduto il significato misterico e divinatorio del fato e dei suoi enigmi. C’è il fascino im­pagabile del colloquio e dello sproloquio di Renato Gabriele, il quale fa parlare i suoi personaggi con acribiosa pertinenza lessicale e logica intorno all’aria fritta delle loro argomentazioni, con beckettiana facondia, sempre più evanescenti ed esilaranti nell’inconcludenza indispettita della vanità in cui sprofondano. Gesù, dunque, è un mago ed è un barman, come lo è lo sciamano, il Buon Incantatore o qualsiasi altro demiurgo che orienta il viaggiatore a discutere del Supremo Bene. Egli è il servo buono, dal carattere mite ma con qualche predisposizione all’ironia, distribuisce assistenza e il­lusioni ai viaggiatori incamminati lungo il magnificente nulla della loro eterna e bre­ve esistenza. L’arte di Renato Gabriele ri­sie­de nella sua vocazione angelica a ritorcere in comicità il nocciolo duro della tragedia dell’essere: perché il dolore? il peccato? la violenza, l’ingiustizia? l’orrore? Questi sono gli enigmi assidui che rodono la mente di Renato Gabriele e vengono illustrati con la messa in giostra di una gioiosa follia, capace di fare decadere in comicità ogni tragedia.
Virtù che prorompe teatralmente in scena con il Porompompero di Amalasunta Cordero-Belculfiné, nella seconda piéce, Ritorni: lo spettatore è costretto a piegarsi alla volontà del drammaturgo, che ritorce in comicità ogni umana tragedia. Anche in questo caso è evidente il lontano richiamo a Tiresia, l’indovino che ha vissuto – unico uomo al mondo – la pienezza dei piaceri sensuali per essere stato per un periodo uomo e per un altro periodo donna; personaggio che ha conosciuto il privilegio di piacere agli dei e la tragedia di cadere in loro disgrazia e di ricevere da loro la cecità co­me castigo, ma poi mitigata dal dono del­l’arte divinatoria. L’antico indovino non se ne farà nulla, perché la follia umana non saprà mai riconoscere la validità dei suoi poteri. E non diversamente accade al suo comicissimo emulo del ventesimo secolo, il professore Tiresio, anonimo docente di materie letterarie in un liceo, ma anche dilettoso poeta d’alto e tragico ingegno ancorché totalmente ignoto al bel mondo delle lettere, ma intervistato da un petulante apprendista giornalista, che è freelance presso il foglio commerciale L’Araldo del Consumatore. L’infermità subita da Tiresio come prezzo da pagare per i suoi meriti che competono con il potere degli dei non consiste nella cecità, ma in una semplice caviglia gonfia, forse gottosa o for­se offesa in chissà quale guerra mai di­sputata, particolare che moltiplica la comicità dell’individuo, il quale – in quel gioco pirandelliano delle parti che Gabriele sa sviluppare con impagabile maestria – finirà per scivolare nella più nera delle tragedie reali, quando freudianamente si ricorderà di avere stuprato e ridotto in servitù la propria figlia devota. Tutto finisce in un canto di sirene, in una coda di pesce, in una verità negata, riflessa, estroflessa. Il grande circo della vita, nella colorata in­terpretazione che ne fa Renato Gabriele, è come un numero di pagliacci-acrobati, so­spesi tra Don Chisciotte e Achille, tra l’ironia e la tragedia. Forse, dannunzianamente, c’è una luce che splende sotto il moggio, ma la scrittura del poeta va verso il nulla del suo fasto affabulatorio, come per dire che se c’è la verità, essa non è nella coda di pesce del poeta che è una sirena, solo capace di ammaliare con la suprema grazia del suo canto dispiegato al più ampio ventaglio di soluzioni contraddittorie ed equivalenti.

Sandro Gros-Pietro

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