Ha una nozione pluriprospettica la poesia di Giovanni Ariola, che si prefigge d’essere il racconto del mondo in cui viviamo, ci fornisce le nozioni e le descrizioni dell’attualità, la città di Napoli, le campagne, il mare, la quotidianità in cui sprofondiamo – sono le lacrime delle cose, e le cose mortali toccano la mente –, ma anche il patrimonio di idee, i voli pindarici, lo splendore accecante della nostra quasi trimillenaria cultura, che ci fa essere nel tempo liquido della poesia coevi e contemporanei dei classici, a rappresentare le fonti del mondo, la Teogonia di Esiodo e la catastrofe della città che scompare, – hopeless world – le millanta Troia omeriche dislocate sul pianeta, così inespugnabili e così disperse, il bel linguaggio dei latini che si chiedono quota hora sit e il linguaggio barbarico dei balbuzienti di Britannia, che poi hanno conquistato il mondo, con il loro impudico inglese turistico, what can I do can I say? C’è una sorta di VR set, un visore a realtà virtuale, applicato sugli occhi del Poeta, che può viaggiare per tre millenni con la stessa semplicità con cui scende a comprarsi il latte o il tabacco da pipa, nel negozio del suo rione, sotto casa: tout se tient, la poesia tutto registra e dà conto della luce che sorride e della tenebra che impaurisce. È la storia dell’uomo, nella sua aseità, viene fuori prepotente, incalzante, ruscella come una teoria di alvei che confluiscono nel grande fiume. Anzi, è una rappresentazione a frattale, che campisce l’infinito spazio della civiltà umana, ripetendo sempre la stessa formula. C’è un “Io” che racconta la sua aseità, che è una vicenda autobiografica indefinibile e dispersa, ma è an­che un’icona, su cui cliccare la moltitudine indeterminata dei destini equivalenti: lo aveva già fatto Esiodo duemilasettecento anni or sono, ed è un fatto recente, è coevo, è contemporaneo alle cronotopie di Giovanni Ariola. L’altissimo pregio del libro di Giovanni Ariola è tutto condensato nella densità magmatica del linguaggio poetico, il grande fiume che approda allo sbocco: “Chi va migrante per sempre nel linguaggio / globale un soffio di brezza / sugli occhi lo desta, è il mare”.

Sandro Gros-Pietro

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