Prefazione

Il lungo percorso poetico compiuto da Giovanni Chiellino ha sempre avuto il merito di mantenersi all’interno di un contesto letterario bene individuato e di essere stato fedele negli anni a sé stesso. È l’espressionismo il modo di correlarsi con la realtà del mondo attraverso cui Chiellino ha educato la sua sensibilità di scrittore e di poeta, ma usando il termine nell’accezione allargata che ha elaborato Maria Corti, cioè di una “sensibilità secolare” nei confronti della tematica del disagio interiore, del grido dell’anima, della morsa della solitudine, dello smarrimento del reale e più di tutto dell’enigma insolvibile del tempo: quella dimensione di perdita inarrestabile e di degrado entropico, che può giungere fino a procurare il grigiore del pessimismo o addirittura il panico degli stati d’ansia. Se per gli studiosi addentrati nelle ragioni della letteratura si può parlare di espressionismo come di una corrente egemonica in Germania principalmente attiva nel primo quarto dello scorso secolo, per “sensibilità secolare all’espressionismo” è invece da intendere un’attitudine verso la scrittura che inizia subito dopo che finisce l’impressionismo ma che si protrae nelle sue differenti manifestazioni fino ai giorni nostri. Lo scrittore ovvero anche il pittore impressionista, di formazione ottocentesca, aveva ben chiaro in mente il referente reale a cui la sua parola scritta o il suo segno dipinto si dovevano riferire e, attraverso una semplice impressione, dava rappresentazione dell’oggetto della realtà da lui cantato in versi o descritto in immagine sulla tela. Lo scrittore ovvero il pittore espressionista, invece, ha la coscienza di non possedere più dentro di sé l’idea perfetta e rappresentativa della realtà che lo circonda e ha quindi perso la facoltà di esprimere il collegamento tra il referente reale e la parola (ovvero l’immagine, nel caso del pittore) che dovrebbe nominare la real­tà. Se questa situazione suscitò negli scrittori e negli artisti del periodo storico dell’espressionismo una condizione di urlo, di panico, di ribellione, di manifestazione violenta delle forme espressive paragonabile alla proverbiale rabbia di Michelangelo nei confronti di Mosè, perché la statua si intestardiva a rimanere muta, altra cosa di­venta invece quella “sensibilità secolare” di cui parla Maria Corti alle tematiche profonde del disagio interiore, della morsa della solitudine e di quant’altro di simile. Ne è un esempio completo e bellissimo l’accettazione arresa e piana, quasi epica, davanti alla dissoluzione dell’intero vissuto manifestata da Giovanni Chiellino nella sua opera, che è così rasserenato da una filosofia di di­gnitosa ammissione dell’impotenza umana a risolvere le grandi tragedie dell’esistenza. Giovanni Chiellino appare come uno scrittore convintamente post-modernista, anche se la sua formazione classica demanda ovviamente fino ai primordi della nostra civiltà occidentale, basati sui due pilastri fondamentali della mitologia e della filosofia ellenica e latina, da un lato e, d’altro lato, sulla lettura metafisica dell’esistenza proveniente dall’immenso patrimonio di cultura e di racconto epico che è la Bibbia, tuttavia egli sembra fare i conti principalmente con poco più dell’ultimo secolo della cultura occidentale, ad iniziare dal modernismo di Eliot e di Pound, per poi attraversare le diverse tendenze e sviluppi dell’espressionismo, immaginismo, verismo, iperrealismo, per giungere fino ai giorni nostri, in cui trionfa una poesia dell’autoreferenzialità interiore rappresentata dai poeti attraverso l’analisi, in chiave psicanalitica, degli idoli quotidiani da cui sono circondati.
L’osservazione e il racconto della realtà è lo spunto iniziale da cui prende avvio la poesia di Chiellino. Tuttavia, già da subito si nota come il linguaggio assuma valenza allegorica e come il Poeta proietti il significato delle espressioni adoperate al di là delle parole. L’atmosfera si permea di un alone di diffrazione della realtà; è come se tra i versi si muovesse una magia di significati possibili, il canto diviene plurivoco e volutamente anfibologico, per cui i versi acquistano spessore e densità. Si legga con attenzione Il campione del ciclismo, in cui già nell’incipit c’è la nota iniziale enfatizzata della salita in solitudine, e quindi l’impossibilità di avere un destino di compartecipazione collettiva. Ma l’intero testo sviluppa un’atmosfera di metafora magica: chi è quel ciclista? co­sa rappresenta la sua fatica verso l’eremo e verso l’erto della montagna? Per quale Vittoria e per quale Gloria egli si sta battendo? Si apre un ventaglio di risposte possibili che vanno dall’individuazione di un celebrato campione delle due ruote alla figura materializzata del Messia, passando per quella del poeta o di altri fantasmi della mente e del sogno. Non possiamo rispondere alla domanda, ma ci rendiamo conto che tutta la poesia vuole significare bene di più di una specifica celebrazione di Girardengo, Coppi, Bartali, Gimondi, Pantani, Moser o di altri ancora. Quel ciclista è chiaramente un simbolo, è un’icona: è il segnale di un referente della realtà che re­sta nel vago delle pluriformi possibilità dell’esistenza. Chiarito che l’incontro con il mondo reale, in Giovanni Chiellino, avviene in modo plurivoco e magico, cioè lasciando sempre aperta una valenza indefinita di opzioni possibili dell’essere, va anche detto che la vita e i suoi protagonisti svolgono una funzione egemone e trainante del discorso poetico. L’uomo è praticamente al centro di tutto l’intreccio dell’anima. Più propriamente dovremmo usare l’espressione dell’umanità che non dell’uomo, infatti, nell’universo poetico di Chiellino, l’essere umano più presente è la donna, nella triplice dimensione di madre, di sorella ovvero di amica e, infine, di soggetto amorevole e ispiratore dell’eros. L’uomo è presente co­me padre e come amico o talvolta anche come mentore. I fanciulli sono presenti nella loro dimensione dorata di adolescenti gioiosi e cucciolotti birichini, dediti per lo più al trastullo innocente e al sogno generoso, compiuto anche a occhi aperti come fosse una fantasticheria. C’è, invece, una visione ridotta della natura. Tutto sommato, Giovanni Chiellino, a dispetto delle sue mai dimenticate origini calabresi, ha saputo totalmente affrancarsi dal potente richiamo della poesia del Mezzogiorno, fatta di panorami solatii se non accecanti, di marine scintillanti di barbagli luminosi e di boschi di lecci verzicolanti nella frescura primaverile. Chiellino, invece, è sostanzialmente un poeta metropolitano del Nord Italia, che si porta addosso i problemi e le tematiche di chi è cresciuto in città: in lui c’è l’odore e il sapore dei libri, l’ansia della solitudine, il dramma per la mistificazione del ve­ro, l’universo umano esplorato in assenza di gravità, senza una forza predominante che lo orienti, perché tutte le dimensioni sono buone, tutte le storie possono essere rivelatici, tutti gli sbocchi possono essere probabili. Ma il canto metropolitano di Chiellino è tale, perché è me­tropolitana la sua dimensione del tempo: è una variabile indefinita, che sembra girare a vuoto. Tutt’altra cosa ac­cade nel mondo della campagna che è regolato dal succedersi sequenziale delle stagioni. Il mondo poetico me­tropolitano, invece, ha una nozione di tempo fluido e li­quido, come insegnavano i modernisti Eliot e Pound, per cui si viaggia avanti e indietro, in una temperie indefinita di giorni mesi anni lustri e generazioni, con una continua estensione del presente, che ingaggia in sé l’attualità con i tempi remoti e con quelli futuri. Così, questa dimensione Da tempo a tempo di Chiellino collega in un unico intreccio i ricordi dell’adolescenza del poeta nato a Carlopoli, e colà rimasto fino all’adolescenza, con i tempi degli studi catanzaresi, padovani, torinesi; gli anni degli studi universitari si fondono e confondono con quelli della professione, e le occasioni di svago gioioso dei tempi goliardici si mescolano con le apatie della terza età, in una rappresentazione caleidoscopica di magico miscuglio del passato con il presente e con la proiezione del fu­turo. Anche il ricordo dell’infanzia, co­sì presente e co­sì sviluppato nel corso delle poesie, con le figure dei fratelli e più di tutto della madre e del padre, è rappresentato non già con la lamentosa e rancorosa querimonia ti­pica del ragazzo della via Gluck che re­spinge tout court il progresso, ma al contrario è rivissuto nell’atteggiamento di fantasticheria di viaggiatore nel tempo, che conserva dentro di sé non solo le tracce e le orme del passato, ma le mappe precise di descrizione del vissuto, per cui la sua vita, nel sogno della poesia, diviene un’esperienza leggera e stratificata, come una torta millefoglie la cui degustazione prevede l’assaggio contemporaneo di questo e di quello: così è la poesia di Giovanni Chiellino, una degustazione contestuale, da tempo a tempo, di una lunga vita vissuta nell’incanto vocativo del sogno, della speranza e dell’impegno quotidiano.
È un linguaggio da poeta. La lettera scritta si muo­ve sul foglio come una nuvola nel cielo: rappresenta un’icona, ma nel contempo è anche un oggetto preciso, tuttavia ha i contorni indefiniti, per cui è plurivoco, possiede in sé tante voci diverse, racconta un’avventura piana, ma può sembrare una favola antica, addirittura una fiaba contraddistinta da presenze magiche. Questo modo di scrivere, sempre proiettato verso la fuga dei significati al di là dell’orizzonte logico, si muove in modo analogico e visionario: è una grande festa della poesia. Così, non sorprende che molte poesie siano ap­poggiate a questo o a quel poeta, tuttora vivi ovvero mor­ti da poco, per cui sono reali e contemporanei compagni di “fantasticheria poetica” di Chiellino, il quale li ha conosciuti in vita, ha parlato con loro, forse ha bevuto insieme a loro una bibita in caffetteria, ne avrà osservato il movimento delle mani, le smorfie del volto, la luce degli occhi, avrà udito le parole dei loro resoconti di vita e altre fole, avrà letto le loro avventure di carta inchiostrata. Ne ha tastato il polso e riportato il battito dentro la sua personale esperienza di viaggi, da tempo a tempo: Maria Luisa Spaziani, Tomas Tranströmer, Franco Talarico, Sandro Gros-Pietro, Gino Pastega, Mirka Corato, Armando Santinato, Davide Puccini, non sono racchiusi in medaglioni celebrativi e ritrattistici di loro stessi, ma spaziano liberi nei testi poetici di Chiellino, che riconosce il volto dei suoi amici poeti nel contorno di nuvole della sua scrittura, per una simpatia di corrispondenze.
È quasi una contraddizione per un poeta della contemporaneità esprimere la gioia di vivere, dopo avere co­nosciuto da vicino le orrende tragedie del cosiddetto se­colo breve, le due guerre mondiali, gli spaventosi orrori del nazifascismo e del comunismo, due barbarie di bestiale ferocia, le bombe atomiche sulle città inermi, le guerre sanguinose per diffondere la democrazia occidentale nel mondo, il terrorismo islamico radicale. A questa scena di violenza continua si aggiungono le consapevolezze dei poeti riguardanti i disastri ambientali che l’umanità sta compiendo e che sono causa di danni e di modificazioni irreversibili nel cicli vitali del Pianeta. Non è, dunque, un caso che la parola “morte” sia riportata venti volte, quattordici volte la parola “cenere” e trentotto volte la parola “silenzio”: in tutto il libro aleggia un’atmosfera di accoramento e di patimento per i de­stini dell’umanità. Eppure, c’è anche in Chiellino un’irresistibile volontà di credere nella vita e nei suoi dolcissimi incanti; c’è un messaggio di gioia ad oltranza, che sfiora quasi il patetico messo in scena da Roberto Benigni in La vita è bella, capolavoro cinematografico che esattamente tratta il tema di salvare la gioia dell’uomo anche nel pieno della tragedia della sua distruzione. In termini meno teatralizzati e chiassosi di quanto possa essere una pellicola cinematografica appositamente studiata per gli appetiti sesquipedali dell’avidità hollywoodiana, Chiellino diffonde su tutto il libro lo stesso messaggio di conservazione della gioia della vita in coabitazione della consapevolezza della comune tragedia che quotidianamente continuiamo a vivere. L’esempio più al­to, semplice e perfetto, è la bellissima poesia La fotografia, “Vecchia, sbiadita, forse sessant’anni, / ma ci sono quei volti belli, puliti, / ai margini del campo. / Pallone in primo piano”. Chiamati per nome, come a un appello scolastico di alunni avviati alla grande competizione della vita, riaffiorano i compagni di giochi dell’adolescenza del poeta, con il loro ruolo di giocatori in campo e di uomini nella vita, chi tuttora in attività e chi già morto, ma tutti vivi e presenti nel tempo magico del poeta, che li richiama a testimoniare nelle nuvole del sogno compiuto ad occhi aperti lo slancio con cui essi si sono affacciati al loro campo di gioco, per un breve istante e poi per sempre, finché durerà la poesia e la forza di diffondere la gioia espressa dai migliori poeti. Viene da pensare che in questo slancio verso la vita vi sia una visione di luce metafisica che in poco si concilia con l’espressionismo di cui si diceva prima e in nulla con il pessimismo esistenzialista, che è uno dei tanti figli dell’espressionismo. Tuttavia sovente la contraddizione è un legame cementante l’organicità di un’opera. Non v’è dubbio, infatti, che Chiellino lasci risplendere nel suo mondo incantato di poeta una luce di mistero metafisico che alimenta la speranza e l’attesa, come lasciano chiaramente intendere, in modo particolare, la serie delle ultime poesie, precisamente il trittico dedicato al fratello Tonino, e le cinque poesie per il Natale. Ma ancora più decisivo appare il congedo finale degli ultimi versi della poesia che conclude il libro, La vita (Quasi un epitaffio), “Rimane solo un’onda / che si sfianca / lungo la bianca sabbia / della riva / per convertirsi / in nodo metafisico / dove s’allarga l’attimo / e si sublima / nel mare largo / dell’eterno Canto”.
La poesia di Giovanni Chiellino propone una testimonianza del nostro tempo e del nostro Paese, il primo a pendolo tra il passato e il futuro e il secondo giustapposto tra la campagna e la metropoli ovvero il Sud e il Nord, e ne ricostruisce alla perfezione l’impasto organico delle differenze coese nella visione unitaria di un solo tempo e di un solo Paese, come aspirazione del Poeta, che accarezza la prospettiva orfica anche di più alti orizzonti.

Sandro Gros-Pietro

Anno Edizione

Autore

Collana