PREFAZIONE

Coi cinque sensi sì (basti pensare ai meravigliosi arazzi della “Dame à la Licorne” del Museo di Cluny) e ancor di più col sesto (anche questo rappresentato sia pur in modo sibillino a Cluny e ancor più caro alla Dame degli altri “canonici”).
Secondo la leggenda è un essere selvatico, che solo una vergine è in grado di addomesticare.
O una donna ‘astra­le’, evanescente e attratta dall’insondabile, dall’indecifrabile.
Come la Dame degli arazzi di Cluny, appunto. O come Edith Dzieduszycka.
Del liocorno l’Ombra è forse la sua opera più prodigiosa. Con grazia aristocraticamente ammaliante trascina il lettore nelle spirali sinuose di un vortice. Come il pifferaio di Hamelin modula note voluttuose smemoranti e d’improvviso ci si accorge di essere precipitati in un liquido baratro.
Si annaspa tra mulinelli marosi e frattali nel gorgo ineluttabile, nel tremore del sogno, investiti dallo snodarsi imprevisto e serpentino di una corrente inarrestabile, osservando il deflusso e lasciandosi andare a una silenziosa deriva.
Scrittura liquida che travolge sommerge e imprigiona. Alcuni attacchi sono memorabili (“D’argento / non brillava / lo stagno / ma di piombo”), non meno avvolgenti certe clausole (“la linfa / che prosegue il viaggio / nel groviglio insensato / dei suoi rami”). Alcuni fulminanti ossimori (la “coscienza incosciente”!). Insomma a chi si avventura in queste rapide non è concesso fermarsi né sfuggire alla voragine.
Ma dove conduce il viaggio? Le figure che si susseguono in una serie di visionarie fantasmagorie (specchi statue ombre, arabeschi e merletti) sono tutti miraggi, ingannevoli insidie di ectoplasmatiche fate morgane). Il tracciato è “matassa ingarbugliata” che si dipana in innumerevoli rivoli, e immancabilmente la via si rivela “altra da quella che pensavi”.
L’unica realtà riconoscibile è quella del ‘fluire’ (come in Pessoa, anima sorella di Edith) in attesa di “scomparire / nell’accogliente nulla” di un pozzo senza fondo (“black-out senza barlume / ultimo lockdown / estrema epifania”)
Ma l’enigma non si arrende e non si scioglie nemmeno nelle obliose-scivolose-inconsistenti pareti del nulla. L’a­nima potrebbe “nasconderne un’altra / e un’altra ancora / fino all’esaurirsi / della loro sostanza”. Tutti i ricordi terreni svaniscono “in una sarabanda” ma “resta sbiadita / e muta / del liocorno / l’Ombra”.
Riaffiorano immagini ed echi di antica esoterica psicocosmica poesia: ritorna alla mente la sconsolata definizione dell’ottava Pitica di Pindaro: Σκιᾶς ὄναρ ἄνθρωπος (So­gno di un’ombra l’uomo).
Che sia questo il liocorno di Edith? Un’ombra nebulosa, un’estrema deriva dell’essenza vitale, una sorta di insonne “segugio del cielo” in cui l’anima stanca si dissolve senza morire?
Non esiste risposta sicura all’enigma dell’Oltre. Né d’altra parte questo poema sinfonico intende fornire risposte certe in proposito: unico suo intento è raccontare la meravigliosa avventura trasfigurandola nelle aeree forme del “poeta fingitore”.

Silvio Raffo

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