PREFAZIONE

Quasi cinquant’anni fa Sereni commentava, in una sua poesia riflessiva e fondamentalmente felice per molto stupore e commossa meraviglia, che di poesie, se ne scrivono ancora: a malgrado di tutto, dopo le guerre mondiali nel cuore della guerra fredda, con vivo il ricordo dei campi di sterminio, con tante dittature morte e tante ancora vive e (ahimè) allora vitali. Il mondo è profondamente mutato ed è altrettante volte rimasto uguale, con tutte le violenze, gli orrori, l’insensatezza della storia e delle mode, le predicazioni del trionfo della morte e della fine della scrittura, dell’annullamento della parola; eppure se ne scrivono ancora, anzi sempre più spesso, con l’opposta impressione della gioia della resistenza del verso e del messaggio e dell’espressione e delle emozioni dell’anima e dell’angoscia di temere di trovarsi di fronte a uno slancio disperato, a un ultimo grido d’agonia. Il futuro è inimmaginabile e impensabile: rapidamente tutto muta e tutto si ripete e rimane vanamente uguale. Credo abbia ragione Macbeth, che, sull’orlo dell’estrema sconfitta e della morte, dichiara che la storia è il racconto di un idiota pieno di confusione e rumore. Sì, così è la storia: ma credo che la poesia (la letteratura, le arti) abbia, invece, un senso. Non distrugge, ma crea, non nega, ma fa. Come dice Dante nell’XI canto dell’Inferno, aggiunge qualcosa al mondo creato, lo arricchisce, per minima che sia. A volte, però, quel “minimo” che è la poesia nell’ossessivo fragore delle mode dei mezzi di comunicazione di massa è grande, e riempie il cielo, anche se magari pochi se ne accorgono. Ma è sufficiente che qualcuno, almeno, ascolti, guardi, si ripeta le parole, i ritmi, il messaggio, la straordinaria novità di un’immagine, di un’armonia verbale, di una visione, di una lezione. E, allora, sono davvero il trionfo, la vittoria, l’attingimento del sublime.
È ora il caso della raccolta poetica di Clara Serra, che si intitola un poco enigmaticamente Di bronzo e fiamma, cioè, immagino, la parola che dura come il bronzo (aere perennius) ed è la fiamma della passione di verità, di continua scoperta e riscoperta del significato delle cose, della vita, dei corpi e delle anime. Penso, quasi in apertura del volume, a un testo che ripronuncia il nome della rosa, dopo tante apparizioni primaverili ed emblematiche, vive e metaforiche, sempre arrischiatamente sull’orlo della sublimazione della parola più preziosa e più amabile e dell’accensione dei sensi, dell’allusione al piacere erotico, fra omaggio e galanteria. Clara ripercorre tante pronunzie della rosa, tanta immagine del passato e del presente, fino a dichiarare con Gertrude Stein che una rosa è una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, cioè contiene in sé il fiore vero e vivo che, unico, è in grado di essere altre forme e significati nel momento stesso in cui è ripronunciato. La poesia di Clara è, di conseguenza, notizia della vita e sfida e confronto con la letteratura quale è stata e quale è, con passione e con ironia. Alla fine la protagonista ripete la tragica riflessione di Didone abbandonata come dice Ungaretti: “Non ho avuto il tempo di vivere per me – ora m’accorgo – ora che mi avete lasciata in un canto e dimenticata”. Gli oggetti quotidiani, la tarda sera, che è anche l’emblema dell’ultimo percorso dell’esistenza, per la forza straordinaria della loro pronuncia diventano gli emblemi dell’itinerario dell’esistenza, ma anche la ricapitolazione della lettura della parola poetica. C’è un’inquieta eco sempre nel discorso poetico di Clara: che sa che gli avvenimenti della vita non possono non tradursi nella descrizione, e allora l’intreccio è continuo.
Di qui, allora, l’ampiezza del discorso e, contemporaneamente, la nettezza delle descrizioni, delle situazioni, delle affermazioni. Penso a un altro testo esemplare come Se…, che usa uno strumento poetico fra i più rischiosi per il pericolo dell’enfasi, l’anafora, e lo rinnova splendidamente per la forza delle visioni e dei concetti che ne derivano, fra metafore e metonimie e forzature descrittive, a cui conseguono meditazioni, verifiche, sentenze, la consapevolezza del tragico quotidiano, che è il fondamentale punto di riferimento di ogni testo poetico di Clara. Si contempli con attento stupore questa apertura che è, al tempo stesso, pittorica e concettuale: “Se finisce il giorno in tremoli di nubi accartocciate / lungo il bordo del cielo irritato per il vento che afoso / passa e brucia arricciati sentieri negli spazi e il tempo / mio amaro compagno miete l’ore come grano dell’estate”. Clara affronta drammaticamente le due rappresentazioni fondamentali del nostro mondo: lo spazio e il tempo, ma l’uno e l’altro raffigurandoli con l’assidua originalità di immagini, di presenze rivelate, di visionarie metafore e visioni. Il tempo è detto l’“amaro compagno”, ed è una dichiarazione fra il tragico e l’ironico, lo stupore e l’implacabilità. Se lo spazio è popolato di forme, di oggetti, di apparizioni vitali e mortali della natura, il tempo è gioco e sfida della poesia. L’alternativa rispetto alla drammaticità delle verifiche e delle rappresentazioni dell’esistenza è l’incanto splendidamente classico di Cantabile, così ricco di allusioni e citazioni pagane gioiosamente eleganti e armoniose, ma con la consapevolezza che quella sontuosa descrizione dell’alba ha in sé un fondo di angoscia (ancora il tempo è caro a Clara, questa volta come epifania di grazia e di meraviglia). L’apparizione vitale e fervida e stupita della dea che si alza dal letto nel quale ha dormito con lo sposo (nel mito, è il decrepito Titone, a cui Eos ha ottenuto da Zeus che fosse fatto immortale, dimenticando però di non aver domandato anche l’eterna giovinezza) avviene sull’orlo del mare, nella rappresentazione di Clara, che modifica sapientemente il racconto mitologico con una suasiva attualizzazione della poesia che le vicende di Aurora e di Titone ha tante volte, per lo più per similitudine (penso a Dante), cantato: “Respiro dell’alba che giovane aspetta tra le brume lo sposo divino / fiato caldo alla bocca che si schiude e lecca l’orlo salino del mare / come in sogno… / … / cantabile della fanciulla dalle rosee dita che aspetta tra le brume lo sposo divino / lo sciabordio ha pause di languore come un fiore estenuato dalla luce…”.
La poesia di Clara si avvale, con sfarzo e molta sapienza di gioco e di reinvenzione, del mito, delle citazioni fondamentali della letteratura del passato e di una struttura molto singolare, anzi direi unica: il verso amplissimo, grandioso per ricchezza di figure, di immagini, con una straordinaria eloquenza di visioni, di descrizioni, di sogni, e, dentro ciascuno di essi, il ritmo perfetto, musicale, e ogni colon racchiude l’eco musicale di una misura metrica che è, al tempo stesso, rilevata e autonoma ed elegantemente e suasivamente è collocata nel centro del verso. Si veda, per un ulteriore esempio, Temporale estivo, cioè uno dei temi poetici più illustri della nostra poesia (Dante, Leopardi, Pascoli, Montale, d’Annunzio ecc.): Clara si serve di elementi ben conosciuti (Pascoli, con il tacere degli uccelli, i rintocchi di campane; d’Annunzio con i pini e il grillo, gli ultimi versi di Arsenio ecc.), ma costantemente modifica i materiali con fortissime variazioni, come “gocce pingui”, “un gemito di pioggia”, “un sussulto un corrucciato / rombo”, “il labirintico cammino d’un domino accidentale”, “la fornace del cielo”, “un moscerino impudente”, fino alla vertiginosa similitudine del temporale estivo che sconvolge la natura e il mondo e del gesto del poeta che diventa, per il moscerino, lui, il terrificante temporale che lo spazza via: “un moscerino impudente si aggira sullo / schermo del computer – lo punto decisa lo spazzo via – per lui / io turbine e caso causale terrificante temporale”.
È un altro aspetto della poesia di Clara: il dato, l’evento minimo, la memoria della letteratura del passato, la stagione, la notte, le meravigliate narrazioni della nascita come suprema avventura e itinerario e stupore, e la trasfigurazione in esempio supremo, in rivelazione prima inimmaginata. Penso a Il giudizio, che è la nuova raffigurazione del giudizio finale con la chiamata in causa dell’Apocalisse di San Giovanni, ma soprattutto di tanta pittura e sculture medievali e quattrocentesche (Bosch in prima linea), con la grandiosa attualizzazione di personaggi e situazioni. Il discorso poetico di Clara è sempre visionario: ma è legato sempre con l’attualizzazione dei personaggi e delle situazioni e delle vicende. Si legga, come ulteriore ammirazione, La fiera: è quella paesana, raccontata da La Nencia di Lorenzo, quella enorme e infinita di Michelangelo Buonarroti il Giovane, ma, se gli oggetti offerti in vendita e la festa sono quelli ben noti e comuni, si inseriscono dentro con giocoso slancio le nuvole d’ottobre come colombe dantesche, quelle di Francesca e Paolo, le sei seducenti fanciulle che ballano mostrando l’ombelico, la coppia avvinta nella milonga, la fulminea e conclusiva riflessione sulla fiera come l’emblema della vita. C’è spesso la rivelazione, alla fine ma anche nel cuore delle rappresentazioni e delle narrazioni che spesso si trasformano in visioni, della tragicità della vita: penso come esempio a Giovane notte. Per variazione Clara nella sezione conclusiva della raccolta muta impostazione e struttura poetica, e usa il verso breve, nervoso, musicalissimo, cantabile. Il discorso rimane uguale, sempre, cioè riflessivo, sentenzioso, visionario, descrittivo, ma per offrire costantemente lezioni, emblemi: ciò che muta è la costruzione metrica, e allora il metro breve e brevissimo è in funzione di rilevare meglio il messaggio. Penso a Vedi che il giorno…, a La lontananza, soprattutto a Caffetteria al 163, uno dei testi, in questo ambito, più alacre e fantasioso, come, del resto, Clara sa essere in adeguato rapporto con la diversità di ritmi e linguaggio. Quella di Clara Serra è una poesia di assoluta bellezza: non è facile usare questa parola per i nostri giorni, ma capita, ogni tanto, rarissimamente, per la fede ancora dell’anima.

Giorgio Bárberi Squarotti

Anno Edizione

Autore

Collana