PREFAZIONE

La contesa poetica è una tradizione radicata nella nostra letteratura. Nell’antichità romana era il certamen honoris et gloriae che suscitava plauso fra gli spettatori, per lo più nobili e patrizi. Erano le prime forme premiali e collettive degli attuali concorsi letterari e si concludevano con vittorie di contenuto morale, tipo l’apposizione della corona di alloro sulle tempie del vincitore. Il poeta, a quei tempi, si inebriava solo di gloria letteraria anziché compiacersi di borse di quattrini. Nel medioevo ha avuto molto successo la tenzone poetica ovvero il contrasto: i poeti si affrontavano in duelli in cui sviluppavano poetiche differenti, ma convergenti in un disegno di costruzione comune dell’argomento ovvero in una compartecipazione al testo unico da comporre (celebre è la tenzone fra Dante Alighieri e Forese Donati). Dal rinascimento in avanti le tenzoni teoriche hanno finito per trasformarsi in rivalità personali e sovente si sono risolte con episodi di criminalità comune. Celebre è la soluzione a pistolettate dell’odio poetico covato da Gaspare Murtola per Giambattista Marino. La poesia contemporanea celebra i due colpi di pistola di Verlain diretti all’amante Rimbaud, come atto di nascita di Une saison en enfer, la madre di tutte le poesie moderne. Quelli furono autentici colpi di fuoco d’amore, anche se di un amore definito, chissà perché, diverso. Per tutto il Novecento la poesia è stata un fervore citazionale di erudizione bibliografica e di competizione bibliotecaria. L’ultimo poeta a maneggiare armi come se fossero pertinenze ancora letterarie è stato d’Annunzio, poi si è sentito solo più il raspare dei pennini sulla carta e il soffio delle ciambelle emorroidali sulle poltrone degli scrittori, chini dodici-diciotto ore al giorno sulle sudate carte. Oggi la competizione letteraria, come incrocio e sfida di teorie e di forme diverse dello scrivere, sta prepotentemente tornando a furoreggiare. Si organizzano sfide in caffè alla moda, convegni in forma di gara, simposi creativi. Addirittura sono stati messi in opera dei premi letterari, che sfoceranno al Salone Internazionale del libro di Torino del 2010 nell’incoronazione di un vincitore, con meccanismi di selezione basati sul duello diretto fra scrittori.
Il gioco è molto semplice: ciascuno scrive contro l’altro, à la guerre comme à la guerre. I colpi bassi sono i più terribili, diretti all’eros, alle emozioni e al ragionamento. Sono i colpi preferiti dai lettori. Sesso, cuore e cervello sono i tre organi vitali. Questi gladiatori del computer non risparmiano nulla l’uno all’altro. Chi si lamenta per primo – o ricorre all’aiuto di altri o peggio che peggio, massimo della vergogna, minaccia l’avvocato per fare smettere l’antagonista – ha clamorosamente perso la tenzone: dimostra pusillanimità, mancanza di genio e inferiorità di stile e di contenuti. Nelle nuove agoni letterarie non serve più sapere citare Dante e Shakespeare. Non serve sapere di latino o tradurre epigrafi greche. Davanti a una penna che ti infilza e ti fa a pezzi occorre sorridere e reagire con lo stesso metodo.
Perché si fanno queste cose? Forse, bisogna prima chiedersi qual è la definizione moderna del ruolo dello scrittore. Dopo essere stato un intellettuale che si trascinava appresso l’ingombrante enciclopedia universale del sapere, oggi, che tutti adoprano quotidianamente gli estremi di quella stessa enciclopedia grazie al telefonino che li collega a internet, lo scrittore sta cercando una nuova definizione di sé. E sempre più si propone come maestro di vita, di pensiero, di comportamento. Si propone come stilista nell’arte di vivere. Chi scrive sa combattere e sa patire, è capace di simulare gioia e dolore in una realtà virtuale a tale punto bene ricostruita che si confonde con il mondo reale. Lo scrittore di talento racconta sempre storie che appassionano e convincono, ma che sono tutt’altro che vere. Eppure la letteratura è una proiezione indefinita della verità. Dunque, il racconto è la grazia di una compromissione continua fra facezia e serietà, simulazione e verità, furore e dolcezza, asprezza e armonia, lucidità e pazzia. Un cocktail magistrale di ingredienti disparati.
Rossano Onano e Veniero Scarselli, due noti ed esperti scrittori, provengono da due strade diverse, ma entrambi sanno fare dell’ottima letteratura. Raccontano storie che affascinano e appassionano e che non contengono neppure un chicco di verità. Eppure la verità è l’unico seme della loro ricerca, cui entrambi sono sempre stati fedeli. Onano applica le categorie della mente e i simboli del linguaggio al mondo della letteratura. Egli proviene da una formazione lacaniana, ha un orientamento strutturalista e destrutturalista; il problema del linguaggio resta al centro della sua avventura letteraria, specie nel rapporto enigmatico che la parola scritta intrattiene con la motivazione profonda dello scrittore. Scarselli proviene dal fasto poematico di una letteratura epica e chiaroveggente che ha il suo campione contemporaneo in Derek Walcott, ma che affonda le radici nel romanticismo inglese alla Walter Scott, tra atmosfere gotiche e tradizioni popolari. Autori di grande spessore entrambi, impegnati in un duello della mente senza sconti e di grande fascino, nel quale si alternano le teorie della scrittura oscura di Jacques Derrida con le teorie del mito e della geoepica, Onano e Scarselli pensano a una sola cosa: darsele di santa ragione, ma senza mai crederci troppo.

Sandro Gros-Pietro

 

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