SAMARITANESIMO E DOLORE NEL DIARIO DI IMPERIA TOGNACCI

La Sacra Scrittura ci prospetta principalmente due icone del samaritanesimo. Popolazione considerata impura dagli Ebrei, i Samaritani figuravano in una notissima parabola evangelica (Lc, 10, 25-37) in cui uno di loro diveniva emblema della solidarietà e della cura dell’altro, laddove altri ostentavano indifferenza. Una donna, invece, in Gv. Cap. 4, incontrata presso il pozzo di Sicar, finiva col diventare messaggera dell’annuncio dell’“acqua viva” salvifica e, nell’atto di attingere acqua e (si intuisce) di dare da bere a Cristo assetato, si rendeva immagine di quanti hanno cura del prossimo.
Così il samaritanesimo assurge appunto a quest’idea, è la controicona dell’indifferenza, emblema della creatura che si volta non – diversamente dalla moglie di Lot (Gn, 19-26) – perché non può recidere i legami con il passato, ma perché incapace di passare accanto alla sofferenza senza tentare in qualche modo di alleviarla.
Altri esempi potremmo addurre, ma ci limiteremo a ricordare Dal diario di una Samaritana (Milano, Solmi, 1917), memoriale in cui Antonietta Giacomelli (1857-1949), scrittrice trevigiana, raccontava la propria esperienza di infermiera volontaria durante il primo conflitto mondiale; il titolo alludeva alle Scuole infermieristiche Samaritane, circa duecento, dislocate in tutta Italia, all’altezza del 1914 e dal giugno 1916 aggregate alla Croce Rossa. L’azione di Giacomelli e di altre donne, alcune delle quali appartenenti a ordini religiosi, si volgeva all’amorevole pratica dell’assistenza a soldati feriti e spesso lacerati nello spirito da quell’immane tragedia ch’è stata la Grande Guerra.
Il Diario di una samaritana di Imperia Tognacci ci introduce in un percorso di grande spiritualità e intensità emotiva che nasce dalla rammemorazione dell’esperienza della malattia e della sofferenza del compagno di una vita, scomparso a causa di un tumore.
All’esplorazione del dolore l’itinerario artistico di Imperia Tognacci non è nuovo. Penso a La notte del Getsemani (Vasto, Edizioni Cannarsa, 2004) consacrata alla via crucis, al travaglio di Cristo, colui che “i demoni (…) ricacciato / aveva nell’orrendo pozzo”. Itinerario che s’intreccia al Getsemani dell’umanità stessa, nel temporaneo imporsi della Notte. La nascita a San Mauro Pascoli ha istintivamente condotto Tognacci a solidarizzare con il dolore del poeta delle Myricae, a cui ha dedicato la bella Odissea pascoliana (Foggia, Bastogi, 2006). Nello scenario di una Natura possente, maestosa come quella della foscoliana Ventimiglia, la poetessa aveva poi ne Il prigioniero di Ushuaia dato voce al Weltschmerz nel personaggio eponimo, quasi un “gigante impietrito” nel suo carcere assurto a condizione ontologica: “su di lui un dolore tale grava, / che il profondo dell’anima / mia scuote, là dove non sono / più io, ma umanità mi sento”.
La tragica esperienza esistenziale vissuta e raccontata nel Diario di una samaritana si innesta così in una naturale predisposizione ad accogliere in sé la sofferenza altrui, del resto richiamata anche nell’epigrafe di André Schwarz-Bart: “Ecco quello che fa il giusto: egli indovina tutto il male che esiste sulla terra e se lo prende in cuore”.
Il Diario ci prospetta un’iniziale situazione di equilibrio. L’incipit all’insegna di visioni gioiose e rassicuranti (“Settembre stendeva sul mondo caldi raggi”) cede però subito il passo a un onirismo luttuoso, presagio degli eventi successivi e memento mori, immediatamente seguito dalla sconcertante sequenza delle Ombre sconvolgenti a rafforzare l’aura perturbante.
Lo stesso avvicendarsi delle stagioni è vessillifero di sventura; se l’opera si apre su un autunno ancora sorridente, il capitolo successivo, quello della “svolta” (L’imprevisto), è introdotto dall’avanzata dell’inverno “a passi sicuri”.

Con una imprevedibile telefonata, sono convocata presso una clinica, dove mio marito è stato ricoverato d’urgenza per un malore. Come l’alta marea che avanza, si fa strada in me l’inquietudine. Cosa sarà accaduto? Si alternano nell’animo onde con riflessi di luce e onde tenebrose.

Muovendo dall’idea che il diario è registrazione di eventi ma soprattutto di emozioni e meditazioni dell’io narrante, è evidente che la prima samaritana sia proprio la voce che ci introduce nelle vicende: la sposa che assume su di sé il compito di accompagnare l’amato nel difficile passaggio che l’attende.
Eppure subito, nell’angosciante situazione, emergono anche altre figure assimilabili al samaritanesimo. La prima è proprio il medico che si occupa dell’uomo:

È un fascio di luce che si diffonde dolcemente, come la carezza del sole al tramonto sulle pendici aspre dei monti. Col suo sguardo dolce e scrutatore, ascolta attentamente chi si rivolge a lui per chiedere chiarimenti o semplicemente dei consigli. I capelli grigi che incorniciano il viso rivelano i suoi anni trascorsi e il volto lascia intuire una notevole sensibilità, pur nel rigore deontologico della sua professione.

L’opera encomiabile del dottore è segnalata dal comune riconoscimento della varia umanità che incrocia i sentieri della narratrice. Il medico, però, non è il solo “samaritano”; gli angeli del soccorso sono molteplici. Lisa, l’anziana zia del marito, tutta effigiata in quell’attesa di due ore in stazione per accogliere calorosamente la nipote acquisita e non farla sentire sola al suo arrivo; la sorella, che si precipita a far visita all’io narrante che si percepisce impaludato nelle acque stagnanti della desolazione. “Lei è come una roccia a cui tutti possono appoggiarsi; io un ruscello che, nel suo scorrere, ammira la diversa danza degli alberi allo stesso soffio del vento”. Se la similitudine riferita alla sorella riconduce subito a un’idea di solidità e affidabilità, non deve trascurarsi il fatto che, continuando a muoversi nei termini di procedimenti analogici riferiti all’acqua, Tognacci segnali di passare dalla “stagnazione”, con la mediazione di un virtuale “tuffo”, al concepirsi “ruscello”. Un ri(v)uscellus, dunque, un piccolo corso d’acqua, fragile quanto si voglia, ma limpido e che può ancora concepire il concetto della “danza”. Non è casuale che la presenza della sorella ridesti il ricordo di un’infanzia mitizzata: “Ripercorriamo momenti felici ed esclusivi e torniamo nostalgiche al nostro Eden, alle scorrerie nel castagneto, dove si alzavano bianchi voli di piccole farfalle, ai piacevoli risvegli, quando ancora l’alba stentava a emergere”. Chi abbia familiarità con l’opera di Tognacci non può non ravvisare il rifiorire di immagini presenti per esempio in Natale a Zollara (Foggia, Bastogi, 2005): “Le scorrerie per il castagneto, / il maggiolino legato al filo, / tra colline aggiogate in difesa / di un fittizio orizzonte”. La sorella assurgeva già a vestale di gioia e di tenerezza: “Verso di me, sorella, avanzi / e non sai ciò che d’immenso / mi offrono le tue mani / che alle mie s’intrecciano”. Una caratteristica, del resto, del Diario di una samaritana ci pare risiedere nel fatto che, sulla scorta di un primum movens esistenziale all’insegna della “doglia”, catarticamente oggettivata nella forma della scrittura, esso riannodi in sé tutta una serie di temi e motivi tipici della scrittura di Tognacci.
Tra questi la funzione terapeutica attribuita all’immersione nella Natura e alla dimensione della montagna. Rivive l’incanto del paesaggio montano, connesso alla tensione ascensionale sin dalla tradizione petrarchesca e mirabilmente rappresentato in letteratura ancora nell’Ottocento (citerò a esempi Fogazzaro e soprattutto Giacosa) e giù sino alle più recenti declinazioni (tra gli ultimi Cognetti). Quest’incanto è familiare alla scrittura di Tognacci; potremmo menzionare In un bar montano, in cui la seconda strofa, al suo dischiudersi, così recitava: “Si scioglie ogni dissenso / mentre si afferma tra le nevi / il comune privilegio di appartenere / all’universo”.
Nel capitolo quinto del Diario la famiglia parte per una breve vacanza nella casa di montagna. Suggestivo il momento in cui il marito indugia ad ammirare la “rocca di Radicofani, con la torre che domina e si staglia orgogliosa sulle vallate degradanti della bella terra di Toscana”. Si innesta qui una riflessione che ci consente di alludere a un’ulteriore caratteristica del Diario, la presenza di una matrice ragionativa che proietta in una dimensione cosmica le intuizioni legate all’esperienza del singolo. Quel bisogno dell’uomo di soffermarsi ad ammirare elementi paesaggistici apparentemente immutabili sembra riconducibile a una forma di saudade, una “nostalgia dell’Eden perduto”. È dolore tipico di ogni creatura sensibile al desiderio di scardinare il limite che allontana dalla comunione con l’infinito; un dolore ancora più lacerante nella situazione della famiglia del Diario, improvvisamente catapultata in un’amara odissea in cui il rischio della perdita incombe come la celebre spada di Damocle.
Proprio la breve vacatio animi suscita nell’io narrante riflessioni che si annoverano tra i loci più lirici del Diario:

Le cime degli alberi catturano l’ultima luce, che si riflette sulle foglie che, mosse dal vento, brillano come tanti piccoli specchi. Mille e mille sfumature crea la luce tra il verde. Respiro il profumo antico della terra, odo il discorrere del vento tra i rami, il canto degli uccelli, il ronzio degli insetti, instancabili ricercatori di polline. Nel suo grembo la vita resta perenne e indistruttibile. Un rapporto vitale si instaura tra me e la natura che, come una inconsapevole “samaritana”, mi comunica un senso di serenità e di armonia che non provavo da tempo.

Il passo in questione ci permette di rilevare un’ulteriore, ideale, “samaritana”, che si aggiunge alla galleria di apostoli e ancelle della cura; la Natura stessa. Eppure, se natura è quod nascitur, da essa proviene anche un’inattesa insidia, quella del cinghiale, che mina la serenità della passeggiata della protagonista e mette a rischio la vita del cane Stella. Del resto, il finale del capitolo vede le ombre minacciose tornare ad addensarsi; la vacanza ci pare così assimilata al percorso coniugale stesso, non brevissimo ma comunque paragonabile a un istante se raffrontato all’esistere dell’universo: “Questa è stata la nostra breve vacanza: un raggio di sole subito oscurato da minacciose nuvole”.
Molte altre cose potremmo dire. Potremmo far riferimento all’estrema tenerezza delle ultime parole del protagonista maschile, all’aura sommessa e struggente del trapasso, al difficile percorso di elaborazione del lutto quale emerge nell’ultimo capitolo, nello speranzoso congedo dal lettore. “Amo il cielo aperto a tutte le possibilità. Come la vita”, afferma la voce che si racconta. Forse il trauma della perdita, l’elegia dei ricordi non consentirà più di vivere “l’istante come gli uccelli del cielo, senza coscienza di noi stessi”, ma tra luci e ombre l’esistere si apre ancora a nuovi viaggi. E chi s’è amato resta sempre con noi: “nell’infinito dell’acqua scrosciante, del verde della foresta e dei colori dell’arcobaleno, tu sarai con me”.

Gianni Antonio Palumbo

Peso 0,3 kg
Dimensioni 15 × 21 × 7 cm
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