Prefazione

Esiste un modo per dire l’ineffabile? È per caso possibile leggere nel corpo i marchi dell’incontro traumatico con il linguaggio? Esiste un modo di incarnare e di seguire i fili sottili dell’esistenza del corpo che parla senza che ci si perda arenandoci in una qualche rappresentazione dell’essere?

Il tutto e il suo alleato, il senso, dicono fin troppo, supponendo e ricoprendo, con apparente ricchezza, quel che sarebbe da trovare nelle vie conosciute dell’epica o della trama narrativa. Non vi è dubbio sul loro valore, ciò nonostante giocano sempre sul limite del desiderio, dell’enigma, della verità, catturati dalla logica del fallo. Ci vuole una scrittura particolare per schivare le deviazioni della temporalità e della logica inizio-tragitto-fine che, abitualmente, danno senso e fanno godere il lettore. In questo caso si costruisce sempre e si suppone un autore: “voleva dire questo?”, si chiede di solito il lettore, oppure conclude senza nessuna inquietudine con un’affermazione netta là dove il sapere dell’autore contagia il suo sapere di lettore. Ciò comporta spesso una prossimità con la noia del già saputo della conferma. Non siamo abituati a leggere senza decifrare, senza supporre qualcosa all’Altro, senza cercare di leggere il suo di desiderio. Su questa strada, sembra che fuori dal senso non vi sia niente. Sono territori dell’assurdo, del cinismo canaglia senza desiderio o del campo pragmatico dell’utilitarismo, questi ultimi, il cinismo canaglia e l’utilitarismo perseguono ciò nonostante un senso, benché limitato e squallido.

Il libro di Céline Menghi azzarda, incursiona, si approssima con sottigliezza alla zona di das Ding. Dire il silenzio e l’assenza, enunciare l’innominabile, dar voce al vocabolo senza suono che permette di leggere il pensiero fugace, quello che, appena pronunciato, evocato o indicato nel filo dell’esistenza, non lascia indifferenti. La sua scrittura abita la dit-mansion che fa parte del corpo parlante, la dimensione che ci sfugge e si perde sotto la repressione del quotidiano. La sua scrittura si occupa di una geografia che talvolta è sulla punta della lingua, di un luogo di litorale che non si riesce a pronunciare, si occupa del quasi detto, punto basale dell’intenzione del dire soffocato. Abitualmente preferiamo dimenticare, lasciarlo lì o semplicemente non vogliamo saperne niente, rigettando questo sapere nuovo al punto di odiare chi questo dire lo incarna. Céline opta, sceglie una memoria che tesse e ricama ai confini della parola.

Mu si riferisce a μ, dodicesima lettera dell’alfabeto greco – detta abitualmente mi – lettera muta e silenziosa, come la h in spagnolo. Dire la lettera muta che accompagna certe parole è una porta invitante e impegnativa. Il titolo Dire Mu è uno straordinario ossimoro: dire l’impronunciabile e il silenzio, enunciare l’assenza. Scommessa decisa, rispettosa e audace fronte al silenzio: da un lato, perché evoca certi silenziamenti che non fanno bene, dall’altro, perché bisogna saper tacere fronte a certe cose, a condizione di non restare muti; e, finalmente, Céline arriva a intrecciare e annodare il silenzio dell’assenza strutturale del femminile con il suo stile.

In Dire Mu i pezzi staccati parlano o convocano, in qualche modo, a un dire in diversi modi. È qualcosa che solo la scrittura e una psicoanalisi permettono. Questa scrittura è fatta di una molteplicità di pezzi staccati: dettagli storici (la guerra, il dopoguerra, il ’68), luoghi (sagre, piazze, Milano, Parigi, Paese Basco, Roma, l’Est), momenti (Natale, Befana, estati). Contiene altri pezzi di reticoli fatti di tracce familiari di una genealogia al femminile (nonne, zie, madre, amiche). A partire dalle trame familiari, situa altri frammenti come la voce materna, l’impronta del padre, passando per la relazione precoce con la religione e il luogo del peccato nella carne, fino al pudore della pubertà con spunti di fantasia e di desiderio di altro. Emergono al contempo tracce della presenza di oggetti e altri artefatti di donna: un certo tipo di vestiti (reggiseni, giarrettiere, gonne), di ritagli di stoffa, e si incontrano luoghi di epoche diverse (le mercerie, La Rinascente, ecc.).

Ciò che risuona è un caleidoscopio evocativo. Il più intimo e familiare del lettore può sorgere fronte a dettagli apparentemente alieni. Un’esperienza di heim dello straniero, una scrittura extime.

Sono convocati anche alcuni particolari oggetti psicoanalitici: lo sguardo e la voce. Lo sguardo in scene diverse: colori (nero, grigio della città, verde, blu cobalto, color caramello di alcune bottiglie), capelli, corpi e le loro posture, il luogo dello specchio nel farsi del corpo per una donna, lo sguardo sul corpo di un’altra. La voce: con parole che risuonano e insistono, dialoghi memorabili, voci inattese, pronunce dialettali e accenti particolari.

Il corpo vivo è polifonico, non monocorde. La scrittura fatta di pezzi, tracce e dettagli si smarca dalla logica del tutto e del senso. Una scrittura che assegna un luogo a ciascuna contingenza senza un insieme che le raggruppi, salvo la penna che borda il buco del silenzio.

Mu è anche una voce onomatopeica riferita al muggito del toro maschio e femmina, una chiamata alla differenza sessuale e alla ripartizione dei sessi. Ripartizione dall’impossibile complementarietà, dove l’oggetto perduto è evocato in maniera fantasmatica rivolgendosi all’Altro. Tentativo fallito di raggiungerlo. Non vi è relazione. L’incontro è suscettibile solo nella contingenza, quando diventa amore. E non è senza dire, non è senza parole, né atti senza gesti. Il libro è fatto di parole, ma incarna anche l’atto e il gesto.

Sul versante della donna, la scrittura stessa è corpo che (si) scrive, che tiene in conto le sottigliezze e i frammenti del corpo e dei detti. Solo così il corpo parlante può trovare alloggio. Céline traccia e delinea un corpo possibile assegnando un luogo essenziale alla solitudine come partner particolare di una donna. Al contempo, tocca certi enigmi della donna davanti allo specchio, davanti alla presenza dell’altra donna, altro corpo che l’Altra donna incarna, la sexy e sensuale, quella che sa, alla quale non importa niente, quella che non cede oppure, sì, acconsente al desiderio; quella che si permette di interrogarsi su come fare i conti con il godimento che deborda.

Il libro si smarca dal bavaglio, scelto inconsciamente o per inibizione, tipico del no decir ni mu, secondo l’espressione colloquiale castigliana che vuol dire non dire niente, nessuna parola, restare in silenzio. È una scelta forzata rivolta all’enunciazione e al segno.

Il libro si svincola da alcune forme del non dire come il mutismo elettivo, scelto, impotente o generalizzato. Mu si riferisce anche, di traverso, al muto e ai muti, ivi inclusi silenzio codardo, mutismo dell’indifferenza e uomo muto e terrorizzato, eventualmente violento, di fronte all’amore e al desiderio. Dire Mu, tra le righe, fornisce delle piste precise sulla differenza tra il mutismo maschile e il silenzio di una donna.

Il libro fa passare il tragitto singolare di una donna che si fa Altra per se stessa alleggerendosi del peso dei fantasmi e delle elucubrazioni di sapere. La tensione, il dialogo, la consonanza e l’assonanza tra le voci delle donne, nella scrittura di Céline, sono fondamentali per farci intravvedere il luogo che una donna occupa per un’altra. È anche indicativo del luogo di costruzione di sé, della sua autorizzazione, del proprio corpo, dell’amore, dell’intimità e della complicità con astuzia che caratterizza l’amicizia tra donne, cosa che noi uomini non riusciamo neanche a immaginare.

Il libro prende le distanze dall’uni-verso del senso per offrire un multi-verso di parole e avvicinarsi al fuori-senso con una posizione determinata rispetto all’esistenza. Nel caso degli uomini lettori, in posizione maschile ma decisi a varcare questa soglia del fuori-senso, incontreranno nel corso della lettura un possibile volto del continente nero. Per chi si situa in questo luogo vi è un’abbondante segnaletica per approssimarsi a una donna e alla femminilità. Gli uomini indecisi e gli ostinati che coltivano l’odio – e magari nemmeno lo sanno –, che ancora scommettono esclusivamente a partire dal fallo, non incontreranno la terra promessa né un oggetto scarto di cui fare uso. D’altro canto, quelle in posizione femminile, donne e uomini, si sentiranno a casa e troveranno molteplici porte, si lasceranno entrare nelle soffitte e nelle cantine che evocheranno a ciascuno, a modo suo, alcuni ricordi memorabili dei marchi del linguaggio nel corpo. Faranno anche ri-letture del più attuale di queste impronte invocheranno tracce della materialità della vita e della storia, impronte di incontri di amore e di sessualità.

Mu indica – in castigliano, benché oggi in disuso – anche l’atto di dormire, il sogno, ir a mu, in una certa continuità tra non dire e dormire. Dire Mu invita anche al risveglio dalla sonnolenza del linguaggio, dall’addormentamento della banalità quotidiana dei detti e del senso che schiacciano l’essere parlante. Un risveglio fino alle ultime pieghe del non detto dell’esperienza, fino all’Altro radicale, all’etero, differenza assoluta non senza passare per l’etereo.

Céline Menghi continua a “passare” il suo reale e la sua voce, e invita con le sue di lettere gli altri a fare il passo verso la terra ignota freudiana e a restituire dignità all’indicibile del femminile, reintroducendo il mistero, l’inconsistenza e l’impossibile da localizzare tramite il ben dire nella scrittura. Ciò risveglia.

Alejandro Reinoso

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1 recensioni per Dire Mu

  1. Fabio Galimberti

    Da una lettura di Fabio Galimberti per la rivista “Attualità lacaniana” n° 27: “VIOLENZA”, Rosenberg&Sellier, giugno 2020 “Leggere mu Questo libro, va proprio detto, è scritto per me. Non sto tanto dicendo che fa per me, che mi si addice, che è il tipo di libro che mi tira dentro e che mi fa piacere leggere. No, no, dico che è stato scritto per me, che sono io il suo vero lettore. Voi non lo so. Non è stato immediato accorgermene, ci ho messo qualche pagina, poi però è stato chiaro. All’inizio è stato evidente che non fosse un libro per tutti, poi piano piano mi sono reso conto che Céline elegge il destinatario di queste pagine e che, il destinatario di queste pagine sono io. Lo so che lo hanno letto prima di me altri, forse altri che l’hanno anche aiutata nella stesura. Céline in effetti li ha ringraziati uno a uno, o uno a una, se preferite. Così c’è Alejandro Reinoso, che ha anche scritto l’introduzione, bellissima, c’è Monica Vacca, «che legge come da un’isola», c’è Paolo Biondi, che anche lui «ha fatto cadere i gravi e gli acuti al posto giusto» e altri non meno significativi. D’accordo. Ma com’è come non è, il libro è scritto per me. E non fa niente se Céline non mi ha messo nei ringrazia- menti, non ce n’era bisogno. Voi direte, con la leggerezza di chi intuisce la burla, che il recensore è im- pazzito, che minimo minimo ha un delirio di riferimento. Ma avrete capito che metto la maschera del clown per dire una verità. E allora seguitemi qualche riga per capire quello che mi è successo durante la lettura di un libro inusitato. Che non sia un libro normale lo si capisce in fretta, se poi si è letto il risvolto di copertina si è presto avvertiti: non c’è una vera trama, non c’è un vero senso. Dunque, se volete un racconto con un capo e una coda, siete fregati. E ve l’ho già detto, questo libro non fa per voi. Però ci sono trame, sensi, fili, pezzi di corda, orditi. Li volete? Attenzione, qui l’autrice stringe ancora di più l’apertura da cui state cercando di passare e ne fa una fessura angusta. Ecco, se in queste parole avete colto un doppio senso non solo siete dei maiali, ma soprattutto siete degli uomini. E Céline lo dice dubitativa: «Forse piacerà anche agli uomini». Ma non ne è così sicura. Non certo agli uomini geometri, dice. Perché qui non entra chi è geometra. E non si riferisce tanto ai diplomati di un istituto superiore, ma a chi vive more geometrico, a chi cerca di far tornare i conti, soprattutto quando la vita o «la vite è spanata e dai ad avvitare, non succede niente», i «cavicchi non entrano più» e chi forza il cacciavite o il cacciavita alla fine «diventa cavicchio di se stesso e, confuso, non ne viene a capo». Ma allora a chi piacerà? Ci siamo, questa è la questione che percorre il testo, che si trasforma nella domanda che ti senti rivolgere a ogni bellissima riga di questa sperimentale opera poetica: «Chi sei tu, lettore»? Ci vuole arte per mettere in questione chi legge. E io sono stato messo in questione: saprò leggere mu? Saprò ascoltare mu? Bisogna essere deboli per farlo, questo non è un libro per lettori forti, dalle orecchie muscolose. Lo scrive Céline e non potrebbe essere più chiara: «serve la debolezza per scrivere, una debolezza singolare, anche per ascoltare serve». E allora, chi sei tu, Fabio, sei un lettore forte, o sei un lettore debole? Sei qualcuno che ha saputo accogliere la propria fragilità, andarle incontro, non rifiutarla più, volerne i segreti? Ma prima di arrivare a questa domanda mi era successo di seguire Clelia, la protagonista. Protagonista di cosa? Non si può dire di questo romanzo, perché non è propriamente un romanzo, difficile classificarlo come tale. Dico: la pro- tagonista di questa scrittura. L’affascinante Clelia, che vedi così spesso col viso appoggiato al finestrino di un treno che gocciola memorie, distillate come aloni sulle pagine istoriate con ironia, dolcezza, malinconia e gioia. La fascinosa Cle- lia che ti racconta di come «non leggeva al sole, ma all’ombra», di come «aveva sognato di perdere le ciglia e che nulla avrebbe più fatto ombra agli occhi». E, allora, ho capito che potevo, che anzi dovevo entrare in quest’intimità scura per poterla ascoltare, che dovevo sottrarmi alla luminosità delle parole e accomodar- mi dietro, nel loro retro opaco, o se non dietro almeno di lato, di sicuro non nei loro punti luce, ma nei loro punti ombra. È in questa zona crepuscolare dei mots, del muggito, del mugugno, del murmure, che ho capito che il libro era scritto per me. E, facendola finita con la burla iniziale, è in questa zona crepuscolare che voi capirete che il libro è scritto per voi – ve lo consiglio – anzi che è scritto per te, LETTURE FABIO GALIMBERTI / LEGGERE MU per te lettore, mon semblable, per te che vorrai farti destinatario delle parole di Céline, intime, silenziose, allusive, confidenziali. Perché è un libro pubblicato, ma forse non è un libro per il pubblico, è un libro per il privato, per il tuo privato, che sicuramente ti priva di quei significanti tirati a lucido con i quali, almeno nella formazione lacaniana, ti sei abituato a interpretare e descrivere il mondo. Di- menticati del desiderio, del godimento, della Cosa, dell’oggetto a, di tutta la frase- ologia più o meno chiara e distinta della tua teoria, perché qui troverai guêpières, uomini guardaroba, donne che diventano la spoglia di sé, immagini scarcerate, un «fiore così per bene» come l’ortensia, esistenze senza bandoli, sarti dell’ordine che tirano fili dell’imbastitura e musiche sottratte alla «dittatura del senso». Ma per incontrarli dovrai lasciare da parte, se ne hai, i «baluardi virili» che difendono le tue orecchie dall’insolito, i legacci invisibili che ti incardinano alla realtà e ti impediscono di andare altrove per entrare in quella stanza in cui Clelia ama concludere le notti, per finire le parole, con due, tre, una persona. Quale per- sona? Quella che non sei, quella che scopri di non essere leggendo le sue pagine. Fanne la prova. Prendi il libro come una missiva chiusa in una busta sulla quale puoi scrivere il tuo nome, perché sia stranamente indirizzata a te. Aprilo come si scarta un regalo senza biglietto. Non lo dico a caso, lo scoprirai. Che cosa ci troverai? Qualcosa che ti parla, ma non ti rispecchia, qualcosa di un po’ estraneo che da una distanza così prossima vocifera con impudico pudore che fa parte di te. A me è capitato così. Quel che sarà per te, potrai dirmelo. Anzi, potrai dirlo a Céline.”

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