Incapacità sentimentale e di empatizzare

La breve, dolcissima e ferocissima pièce teatrale di Menotti Lerro ci catapulta violentemente nella tossica incapacità sentimentale di cui l’ignaro mondo ormai si nutre fino alle estreme conseguenze.
Dopo una vita di sofferenza, di abusi anche familiari, assistiamo alle ultime 48 ore di Matilde, donna dalla sensibilità straordinaria che ripercorre attraverso un distorto e follemente lucido dialogo allo specchio, il sentire delle persone che maggiormente hanno determinato il suo ineluttabile precipitare verso l’inferno.
C’è in lei l’incapacità di elaborare i lutti della propria oscura vicenda, l’incapacità di perdonarsi più che di perdonare; incapacità d’amarsi… di ribellarsi: non riesce più, Matilde, ad empatizzare con se stessa, perché gli altri non hanno saputo empatizzare con lei, sprofondando dunque nella follia, fino all’orrorifica fine che lei stessa si procura per liberarsi dalle voci che l’annientano. Il dolore è così cupo che neanche “Amore” o la propria “Ombra” che l’esortano a resistere, o lo stesso frutto che porta in grembo (forse figlio di una violenza o di un amore perduto) riescono a fermare infine la sua mano, prima matricida e poi suicida.
Attraverso la saggezza, la lucidità, la sensibilità e la potenza della sua scrittura, Menotti Lerro dà corpo ad un’indimenticabile antieroina che ammonisce la società, a partire dai nuclei familiari, al vegliare amorevolmente sulle proprie creature se vuole veramente preservarle dalla follia e dalla morte.

Aggiungo, inoltre, che nella nostra società, che sovente mistifica l’autenticità e la verità, le persone, dopo aver soppresso l’altro, spesso continuano a vivere senza nemmeno prendere in ipotesi la propria fine. Raramente assistiamo, infatti, all’omicidio-suicidio, che, nel caso di Matilde, è omicidio, sì, ma della propria creatura non nata e pertanto già da intendersi come processo di auto eliminazione, parte del suicidio che sta per mettere in atto, di lì a poco, paradossalmente, per salvarsi dagli omicidi che ha già subito e che continua a subire rivivendoli attraverso il lacerante ricordo. Il suicidio, dunque, nella sua inaccettabilità teorica, e a volte retorica, non sempre è in verità atto di resa, ma è da intendersi, in determinate circostanze, come vero e proprio atto di coraggio, poiché supera e vince l’istinto più importante e predominante che in noi è insito fin dalla nascita: l’istinto della sopravvivenza. Un destino troppo crudele può eliminare nell’essere umano l’istin­to di autoconservazione…
Rappresenta, il suicidio, in casi peculiari, il sottrarsi a ciò che la psiche non riesce più ad accettare, come una vita che ci è stata donata, è vero, ma anche imposta, e che alcune volte ha contorni così tenebrosi nel suo quotidiano concretizzarsi, da essere percepita finanche contronatura e pertanto da rifiutare: non tutti sono capaci di reggere, cercando di perdonare e di perdonarsi, sforzandosi di sublimare ciò che è stato. A volte, va detto, l’atto di viltà è rimanere, proprio allorquando si tratta di coloro che hanno messo in atto quello che il critico letterario Pietro Citati definiva “il male assoluto” ossia il male che viene inferto all’altro per il banale gusto di fare del male.
C’è chi ce la fa a rimanere, c’è chi ce la fa ad andare via… (nonostante tutto).

Maria Rita Parsi

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Ottobre

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