PREFAZIONE

La poesia di Miriam Bonamico Chiareno è illuminata da una fede di eternità che si manifesta nell’epifania creaturale della vita. Ogni essere vivente del mondo, appartenente al regno della flora ovvero della fauna, agli occhi della poetessa è lo schermo su cui si proietta visibile una soprarealtà enigmatica la cui dimensione completa ci contiene. Noi viviamo circondati da umili e caduche creature – famiglie d’erbe, d’animali e d’uomini – ciascuna delle quali riverbera su di sé l’impronta e l’orma di qualcosa che la sovrasta e di cui non riusciamo comunque a darci perfetta contezza. La ragione preferisce fare un passo indietro, davanti a tanto sgomento che ci assale. Dice la poetessa: “Tu, scendimi soltanto / Nel cuore e restaci, / O mio Dio”. Il dolce rifugio, dunque, nasce da questa intuizione religiosa dell’origine divina della vita. Si tratta di un territorio ideale del cuore che non è raggiungibile dalla ragione. Il viaggio della poesia, dentro la vita, è la scala verso un cielo che conduce all’amorosa visione. Una visione poetica e non razionale, per l’esattezza. Un dolce rifugio, che non ha un valore consolatorio o riparatore dei tanti inganni e dei tanti dolori che la vita ci infligge, ma che piuttosto ha il valore di esaltazione e nel contempo di evanescenza dei nostri cinque sensi con i quali esploriamo il mondo, e che giunge a permetterci di scoprire la dimensione altra delle cose e della quotidianità, in cui tuttavia viviamo immersi. Non si può non sentire l’affinità ecoica con il “dolce stil novo”, cioè la poetica dell’amore verso la donna angelicata che rappresenta la strada di elevazione dello spirito a una visione superiore delle cose. Per la Bonamico la gioia sta nel raggiungere il rifugio. E il rifugio è la predisposizione poetica della mente, che si raggiunge lasciando esalare le parti più grevi e penose del quotidiano, le chiacchiere inutili, le beghe riottose, gli egoismi e le rivalità. Sono queste le trappole che irretiscono la nostra ragione in un garbuglio intricato di equazioni, in un contraddittorio di convenienze e di inopportunità. Non c’è una donna angelicata che ci conduca verso l’amorosa visione, ma c’è invece un percorso di sedimentazione degli affanni e di pacificazione dei sentimenti, che conduce al dolce rifugio.
Non si può negare una connotazione anche evocativa, capace di risalire fino alla stagione dell’infanzia, di questo rifugio, che è da intendersi come espressione di protezione e di ricetto dei valori forti della vita. Volta a volta, il rifugio potrà essere la casa di via Caffa a Genova, ovvero la casa della nonna, ovvero altre visioni solari e aperte, paesaggi di magnifiche marine, scorci chiaroscurali di borghi dei pescatori, ovvero i bagliori delle maestose montagne, con ghiacciai e valli travalicate da ardimentose funivie o ancora i siti esotici al di là del mare di mezzo della nostra civiltà, collocati in Africa e in altri paesi che si trovano anche al di fuori delle colonne d’Ercole. Ciò serve a chiarirci quanto il “rifugio” non sia il capanno costretto nell’angolo oscuro del giardino di casa, ma sia invece l’orizzonte luminoso di una mente poeticamente sempre in viaggio, il cui simbolo potrebbe essere un gabbiano, un volo di uccelli, una brama di libertà e di sapienza: in fondo, un atto d’amore.
In tanta luce di vita, profondo e indifendibile è il dolore per la morte che macera il cuore ferito della poetessa. La morte è sempre presente nella mente di Bonamico, come definitiva sentenza di rottura e di privazione inappellabile, con le sue scelte illogiche e incontestabili, con lo strazio irredimibile di dolori implacabili, anche se consumati negli anni, ma mai pienamente acchetati. La bellezza della poesia di Bonamico sta nella sua alta statura di umanità, cioè nell’accettazione dei due volti a specchio della vita e della morte, intrecciati insieme nel solo filo di refe che costituisce la trama dell’esistenza e le sue continue tappe di termine e di rigenerazione, verso lo scopo finale della creazione che resta avvolto nell’enigma di una soluzione imperscrutabile. Quella di Miriam Bonamico Chiareno è una poesia di luminosa dignità e di fervida speranza, capace di collocarsi tra le espressioni più nitide e sicure dei nostri anni, a vantaggio dei valori forti che sorreggono la nostra civiltà, come l’amore, la memoria, la natura, il sentimento di piena dedizione di sé riversato in atti di speranza e di fede nel futuro, fino a costituire un valido modello culturale di riferimento per i giovani di oggi e di domani.

Sandro Gros-Pietro

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