Prefazione

 

Con D’oro d’argento d’ombra siamo di fronte alla più vasta e profonda riflessione compiuta da Edith Dzieduszycka sul tema misterioso del tempo. Ci introducono al libro le due citazioni collocate in epigrafe, rispettivamente tratte da Fernando Pessoa e da Tadeusz Różewicz, delle quali va subito notato il carattere di marcata specificità novecentesca. Pessoa è sicuramente un monumento di ineguagliata grandezza della Poesia europea, che ispirò l’intero secondo Novecento, con un anticipo di svariati decenni, essendo morto nel 1938. Tadeusz Różewicz, poeta e drammaturgo polacco, devastato dall’esperienza tragica della Seconda Guerra mondiale, si portò dentro il “vizio di scrivere poesie” quasi come una colpa inspiegabile agli occhi di chi aveva vissuto in epoca contemporanea agli orrori di Auschwitz-Birkenau, la “fabbrica della morte”. Il testo di Pessoa è tratto dall’antologia curata da Antonio Tabucchi e Maria José de Lancastre, edita da Adelphi, nel 1979, intitolata Una sola moltitudine. Si tratta di un’Ode scritta dall’eteronimo Ricardo Reis, quello per cui Pessoa – che in portoghese significa “Persona” – scrive che “ho messo in Ricardo Reis tutta la mia disciplina mentale”: è il trionfo di un nichilismo pacato e arreso al meccanismo erosivo dei fatti. I versi di Tadeusz Rozewicz sono invece tratti dal lungo poema Et in Arcadia ego scritto nel 1960 nel corso del secondo viaggio in Italia del poeta polacco e dedicato alla città di Roma. Il titolo risale all’epigrafe di un quadro del Guercino, conservato nella Galleria di Palazzo Corsini a Roma. Tradotta letteralmente la frase diviene “Anche in Arcadia io”, sottinteso “ci sono”, riferito alla Morte, che colpisce anche in Arcadia, patria dei poeti. Nel quadro, di concezione barocca, si vedono due pastorelli che diseppelliscono da una tomba negli ubertosi campi un teschio simbolo della morte. Il quadro è stato interpretato a suo tempo in senso fideistico, come la dimostrazione che il morto è finito in Arcadia, cioè in un poetico Paradiso. Ovviamente la ricostruzione ironica di Różewicz, sviluppata nel suo poema, si fa beffe di simile interpretazione, ed è ispirata a un nichilismo crudo, a un totale ateismo, ma anche a una grande attenzione ai fatti umani della vita, al breve passaggio che noi tutti compiamo prima di “cadere orizzontalmente”, cioè strisciare come vermi nelle nostre abiezioni, fino a dissolverci e scomparire. Le due epigrafi introducono con forza nel centro del pensiero europeo del secondo Novecento: sostanzialmente nichilista, ateo, disilluso, consapevole della propria incapacità di definirsi e di comprendersi, tuttavia anche attento e affascinato dalle proprie manifestazioni di vita, dalle emozioni e dalla levità quotidiana e biologica degli esseri viventi, dalle catene irrisolvibili di pensieri e idee che l’uomo riesce a proiettare al di fuori di sé, anche se del tutto vane, fini a sé stesse.
Il libro di Edith si apre con la splendida metafora della nascita di una creatura già formata nel ventre materno, dove galleggia in un mare amniotico, nel quale si coniuga solo in negativo l’esistenza: non c’è “il silenzio / e nemmeno il buio / il nulla / quello soltanto”. Ecco, però, che la creatura viene al mondo. C’è “lo spalancarsi / della porta scarlatta”, cioè del ventre materno, e inizia la breve e affascinantissima vita della creatura che è appena venuta al mondo. Inizia, dunque, “lo stupore / il pianto / lo smarrirsi / in altri oceani / più vasti / più lontani”. E subito dopo, all’insegna del pensiero novecentesco tracciato da Pessoa e radicalizzato da Różewicz, leggiamo che “È nato un viaggiatore / dalla cruna dell’onda / un viaggiatore / nudo / che nulla ancora / sa / di quel che accadrà / lungo la sua strada / Giacché di quell’ignoto / nulla / gli confida / cieco / l’orizzonte”. Non c’è alcuna possibilità di scrutare l’orizzonte ossia il futuro: non vi sono possibilità credibili di divinazione, di premonizione, e vedremo che non vi saranno neppure ragionate ipotesi di orientamento consapevole, addirittura mancherà la possibilità di conoscere fino in fondo sé stessi, perché come dice Pessoa “Il mistero per me ha il sapore che io sia un altro”. Cionondimeno, il viaggio inizia, continua, si svilupperà e si concluderà nella rimarcata tensione di “trascendere dal particolare per approdare al supremo”, che in verità è un insegnamento buddista e non rientra nella catechesi cristiana. Il viaggiatore rimarrà rinserrato come una monade nella sua “affollata solitudine”. Vale la pena di ricordare che Un’affollata solitudine. Poesie eteronime è il titolo della più recente antologia delle poesie di Pessoa, curata da Piero Ceccucci e uscita nella BUR nel 2013, l’anno seguente alla morte di Antonio Tabucchi, che tanto contribuì a valorizzare il poeta portoghese in Italia.
Va detto che il libro si divide nelle tre sezioni chiamate d’oro, d’argento e d’ombra. È evidente da parte della Poetessa il richiamo esplicito al tema ricorrente, fino dall’antichità di Esopo, di Le tre età: quella d’oro, dell’adolescenza; quella d’argento, della maturità; e quella d’ombra, della vecchiaia. A dispetto del fatto che tale tema risalga fino all’antichità classica greco-romana, esso trovò grande fortuna nell’età moderna, a principiare dal Rinascimento, epoca in cui “Le tre età” si imposero come tematica riflessiva di primazìa sulla vacuità destinale della commedia umana. Come bene si sa, alfiere del tema delle tre età fu la pittura, ancora più della letteratura. Non dobbiamo mai scordarci che Edith Dzieduszycka è una creativa a tutto tondo, capace di esprimersi in poesia, in prosa, in pittura, in fotografia. Quindi, il ricorso al tema delle Tre età è da lei compiuto in piena consapevolezza di quanto tale argomento significa nella cultura dell’arte europea. Non si tratta mai di esplicite citazioni, da parte di Edith, di questo o di quel quadro, ma di ricostruzioni metaforiche delle visioni che appaiono sintoniche all’uno o all’altro. Dalla rappresentazione fastosa di possenti nudità michelangiolesche alla drammatica comparazione dei tre volti del pittore vecchio, del figlio maturo e del nipote giovane, confrontati con i musi dei due cani e del leone, le due tele celeberrime delle “Tre età” di Tiziano Vecellio, si passa alla lunga rassegna che continua con la postura seria e meditativa sviluppata da Giorgione, con le tre figure a mezzo busto, del vecchio, del maturo e del giovane. Trasvoliamo i tempi, per arrivare all’incantevole metafora di Caspar David Friedrich, in cui si vede l’uomo vecchio col bastone, il giovane aitante con accanto la bella sposa e due pargoletti con la bandierina in mano della Svezia, tutti e cinque ritratti di spalle sulla sponda di un promontorio sul mare, ove sono riflesse sulle acque le loro icone allegoriche, cinque navi che a poco a poco si perdono nelle nebbie ovvero che da esse emergono. Tutto ciò in uno sfolgorio di contrasti cromatici tra il nero, il marrone, il verde, il blu, il giallo, l’arancione, l’indaco. Si noti quanta nebbia, quanto nero, quanta luce e quanti contrasti di colori ci sono anche nelle poesie di Dzieduszycka. Per sveltire la rassegna citiamo ancora la serie delle “Tre età dell’uomo” dipinte da Picasso, di cui va ricordata almeno quella del “periodo blu”. E concludiamo con l’opera più vicina alla mentalità e al gusto di riferimento di Edith, il famoso quadro delle “Tre età della donna” di Gustav Klimt, in cui si vede il nudo di una donna anziana, che nasconde il volto fra i capelli dalla vergogna di avere il ventre rigonfio per l’incipiente maternità concepita in età avanzata, accanto a lei c’è la figura armoniosa, floreale, botticelliana di una donna giovane, che tiene in braccio la sua bambina. È proprio questo il quadro più vicino al patrimonio artistico di Dzieduszycka, per l’insistita interpretazione al femminile del miracolo della vita umana, per il contrasto tra gli sfondi di nero plumbeo e le stelline filanti, per il rigoglio dei colori e per la drammaticità armoniosa dell’insieme.
Tutte e tre le età, nella loro ricchissima presentazione di trasfigurazioni, visioni, metafore, allegorie, sottolineano sempre l’azione capricciosa e imprevedibile dell’aggeggio bizzarro, come leggiamo a pagina trentasei, con cui si manifesta lo “spreco / energia dispersa / frangia schiumosa / sulla sabbia / del tempo”. Quella “sabbia” funziona da rivelatore della presenza misteriosa di una clessidra, che misuri l’inconoscibile entità del tempo: dovrà essere un insieme di “ingranaggi” stravaganti, balzani e tuttavia affascinanti. C’è sospeso nell’aria un “mistero attrattivo dell’ora”, che fa apparire “Vibrante / luminoso / il tempo dell’attesa / quando batte / il cuore”, come leggiamo a pagina ventinove. In tanto sfolgorio di vita e di animosità che caratterizza l’età d’oro, a pagina quarantanove leggiamo che “A volte / s’insinua / nell’arco degli eventi / una certa stanchezza / allenta / sulla montagna / l’infido rotolare / dei massi alla deriva / prosciuga la cascata / in volo”. È l’avvisaglia della condizione di franamento continuo verso il basso, che lavora come un tarlo a erodere la gagliardia della gioventù. Infatti, nell’età d’argento della maturità si fa già sentire il peso dei giorni, seppure in alternanza con la levità di altri, come leggiamo a pagina cinquantasei “Com’è che / certi giorni / ti pare lieve / il peso di quei giorni / appena nuvola / mentre / alcuni altri / non li sopporti proprio / e quelli da venire / ti sembrano montagne / da scalare?”. La vita appare un insieme di “Percorsi aggrovigliati”, nelle quali diventa un’impresa “sopravvivere / sotto livide lune e / soli melanomi”. Anche il fisico si corrode, infatti, si chiede la Poetessa “Quanti rimangono / nella bocca del tempo / matrigna avida / denti / tuttora sani / non contaminati / da quelli cariati?”. È evidente l’allegoria delle carie che imputridiscono la bocca, le quali in realtà rappresentano i vizi, la decadenza morale, la negazione di sé stessi, le perdite di orientamento e l’offuscarsi della gioia di vivere. Verso il termine della maturità, ecco l’amara constatazione dei “Birilli / cadono / uno / poi un altro / e un altro / ancora / nel pozzo senza fondo”. Si noti che l’immagine del pozzo senza fondo è sicuramente un omaggio celato alla poesia del citato Rozewicz, il quale ricorre più volte a questa metafora. Ogni essere umano è “Rinchiuso in un recinto / per conto suo / ognuno / recinto circolare”: qui c’è il richiamo alla solitudine illustrata da Pessoa nelle sue poesie. L’età dell’ombra, quella della vecchiaia, si inizia con un sentimento di annoiata disillusione, come bene si legge a pagina novantasette “Ma che storia scontata / che noia / monotonia / banale favola / per ognuno / comincia / per ognuno finisce / Non c’è scampo alcuno”. È l’ineluttabile, che si manifesta con una sottrazione crescente della Spazio che diviene anche funzione e presagio di sottrazione del Tempo, come si legge a pagina novantanove: “A poco a poco / si riduce / lo spazio intorno a noi / spazio mentale / corrispondenze / orizzonti velati / sbarrati da cancelli”. L’aperto richiamo alla morte è svolto nella bellissima poesia “La dama grigia”, che tuttavia è in grado di sedurre il viaggiatore ormai prono e disilluso. Ed è a questo punto che Edith ha un riscatto dal plumbeo nichilismo, pur colmo di fascino per lo stupore della vita, ma tendente all’accettazione illuminata della disperazione come unica condizione umana. Al contrario, leggiamo in Edith, che alla fine della licenza, permane “il sogno / la voglia di capire”, già quando la barca è indirizzata all’isola dei morti (scrive la Poetessa “ignari del domani / sulla propria barca ognuno / galleggiamo // verso lidi estremi / nella mantella avvolti / della nebbia / senza vederci”. L’isola dei morti è un’altra citazione indiretta delle famose cinque tele sull’argomento del pittore Arnold Böcklin. “Lei sapeva quello / che c’era da sapere / quello che nascosto ai più / sembrava un niente / Il bagliore d’un lampo / di rugiada la goccia / il fremito dell’ombra / Ancora lei sapeva / la voce che / sussurro all’orecchio distratto / in segreto parlava / di cose semplici / trascurabili tanto / da scivolare sull’onda / fuggente d’un riflesso / cose lievi dinanzi / al rumore del mondo”. Si accende, dunque e sempre si rinnova, nel progetto poetico di Dzieduszycka, una vibrante densità espressiva di attrazione per la vita che demanda a concezioni postromantiche, anche al patrimonio musicale di Čajkovskij e in particolare al suo seguace e continuatore Sergej Rachmaninov, così incline a un eclettismo stilistico cosmopolita. È il richiamo a quella cultura orientale che invita a “trascendere dal particolare per approdare al supremo”, già illustrata da Herman Hesse ne Il gioco delle perle di vetro, come un calcolo universale delle conoscenze. La Morte sa cosa c’è oltre l’universo conoscibile, ma non lo svela. La raccolta si conclude con un richiamo a Soldati di Giuseppe Ungaretti “Si sta / come d’autunno / sugli alberi / le foglie”. Similmente la Poetessa sviluppa la similitudine “Così come le foglie / a primavera / spuntano / sui rami degli alberi // sospinte dalla brama / di leggi inderogabili / così poi come cadono / esauste // a stagione compiuta / e marciscono / per fare nascere l’humus / fonte di nuova vita // anche noi / in un dove / un quando / che non sappiamo / ci inchineremo / sull’orlo della botola / spiccheremo il volo / o precipiteremo”.
Tra le opere di poesia più significative apparse nell’ultimo lustro, D’oro d’argento d’ombra è una riflessione sul lungo viaggio della vita descritto con mirabile concisione ed efficacia espressiva, in una misura calibrata e affascinante di disperazione e di speranza, con una testimonianza a latere dei maggiori interpreti della poesia moderna e un archivio di immagini poetiche bene ancorate al patrimonio della pittura europea.

Sandro Gros-Pietro

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