Premio I Murazzi per l’inedito 2012 (dignità di stampa)

Motivazione di Giuria

 

La poesia di Maria Ebe Argenti, nella proporzione di una forma metrica rispettosa della tradizione italiana e liberamente intonata alla ricchezza espressiva dei versi sciolti, ma anche con la possibilità di evocare con grazia suadente e non insistita forme chiuse ormai relegate nel passato della nostra letteratura di impegno, contribuisce in modo significativo a mantenere integro e affascinante il ruolo del poeta come letterato e cultore dell’espressione armoniosa ed erudita di un linguaggio congegnato per esprimere messaggi di comunicazione e di interpretazione del mondo rivissuto come proiezione interiore della cultura e dell’amore verso la sapienza e la verità.

 

PREFAZIONE

In un incontro ravvicinato con la tradizione italiana si sviluppa la poesia accorata e sognante di Maria Ebe Argenti. L’atmosfera poetica d’insieme dei testi demanda, in realtà, al simbolismo francese e ciò comporterebbe, quindi, uno spostamento dell’asse di collocazione letteraria in chiave transalpina, verso quell’atmosfera di spleen alla Baudelaire e verso l’irredimibile tristezza del poeta scerpato dai suoi ideali, che stanno alla base della poesia moderna del diciannovesimo secolo: dicasi, oltre all’autore de I fiori, anche Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé. Se vogliamo, le cose stanno anche così, in un modo che si direbbe quasi scontato, visto che tutta l’immensa foresta della poesia del Novecento occidentale ha le radici e sugge gli alimenti nel simbolismo francese e nell’orfismo che ne consegue. Ma l’esperienza poetica della poetessa di Varese è decisamente incastonata in una corona di tradizione italiana, con antiche derivazioni dal gotico medievale per poi consolidarsi nell’incanto del nostro secolo d’oro – basti pensare al rovello del verso foscoliano, con le speranze mie parlo e deliro, che dalla poetessa viene usato come cifrario poetico per contrassegnare la lirica Il regalo più bello della vita. Il regalo più bello risiede nell’impenetrabilità del mistero finale, nell’impossibilità di fare preveggenze sull’ultimo giorno, per cui la scrittrice rimane sempre alla ricerca di quei tali colori, di quelle tali musiche di parole, di quelle tali visioni di paesaggi dell’anima che fanno del poeta il grande sacerdote dell’ignoto e l’interprete delle realtà scontate riviste sotto una nuova luce di lettura, capace di rilevarne un più mirabile volto di autenticità.
Maria Ebe Argenti è una scrittrice di alto profilo culturale fortemente esercitata nel rispetto e nella confidenza dei valori letterari della tradizione, a tale punto da essere attaccabile dalla critica meno attrezzata (o dall’invidia degli autori poco estrosi). Sono le accuse che si rivolgono sempre e soltanto ad artisti o a scrittori di vero talento, al punto da essere considerate come affidabili cartine di tornasole. Se esistono tali accuse, infatti, significa che veramente siamo in presenza di uno scrittore capace, bersagliato per dispetto da ridicole recriminazioni, che rappresentano il Leitmotif originato dalla rivalità degli incapaci. Si tratta di una pratica antica come il mondo, visto che possiamo farla iniziare con le accuse rivolte a Virgilio per farla finire con quelle rivolte a Montale.
Vi è una cabala di parole chiave nel sistema poetico della scrittrice, che assumono lo spessore del sacrario poetico messo a guardia o forse messo a disposizione dei grandi passaggi e delle armoniose visioni che consentono, a chi pratica il ragionamento poetico, di “più vedere” – come dice Costanza a Dante – dentro gli enigmi della vita individuale e collettiva degli uomini. Citiamo almeno quattro di tali pilastri sostenitori, che sono altrettanti palchi sia di partenza sia di arrivo dei voli poetici: Tempo, Anima, Terra, Spirito. Qui stanno i quattro elementi fondamentali del pensiero poetico, che un poco arieggiano quelli degli antichi filosofi greci, come se fosse possibile individuare i fondamenti dell’intero universo a specchio: l’universo della realtà, esplorato dai filosofi per amore di scienza, contrapposto all’universo della poesia, immaginato dai poeti per vocazione di interpretare la sopra-realtà. In Argenti c’è, a bene guardare, questa corrispondenza d’amorosi sensi tra la poesia e la filosofia: Platone le parla nel salotto di casa non meno di quanto non le parlino Leopardi o Pascoli. Tuttavia, sbaglierebbe chi credesse che il tempo, sullo scrittoio di Argenti, si sia fermato agli albori del Novecento, cioè un poco prima di Marinetti e di Apollinaire, e cioè un poco prima del grande incendio dei placidi orizzonti eterei ed immortali. La notizia di Roma che brucia è giunta fino sulla scrivania della poetessa. Fuori di metafora, Maria Ebe Argenti vive pienamente nel suo tempo – che è il tempo di noi tutti – divorato dalla nevrosi dell’insicurezza, corroso dalla caduta dei valori, immiserito dalla perdita della memoria letteraria dei grandi scrittori del passato, involgarito dalla grossolanità di un pressapochismo dubitativo eretto a dialettica delle opportunità. Ma vive anche nel respiro dell’uguaglianza e delle libertà che i tempi moderni hanno portato; nella pratica delle tecniche che allungano la vita umana e che accendono gli orizzonti di agi e di speranze; nell’esercizio universale della democrazia come unica forma di governo proponibile. In questo secolo, così sconcio e così affascinante, come si prospetta il primo del terzo millennio, la nostra poetessa vive con temperante sagacia e con sofferta partecipazione. La sua posizione, nel coro della poesia moderna, ricorda quella delle sacerdotesse nel tempo di Vesta, custodi delle tradizioni passate, ma anche audaci interpreti dei tempi futuri, tra vaticini e visioni, in ogni caso poste al di fuori e al di sopra dell’arruffamento quotidiano per procacciarsi vantaggi e privilegi. Il fulgore più luminoso di questa visione poetica risiede nella propensione ad accendere nella poesia la luce meravigliosa dello stupore: “Sbadiglia l’orizzonte mentre scrivo / poche parole fitte d’emozione, / nell’esprimere tutto il mio stupore / vedendo qual soave primavera / l’alba chiara quaggiù vada inscenando / ed è piacevolezza questa brezza / che accarezza i gerani e la lobelia / e le ramaglie tutte rende vivide, / sollevando il sipario al visibilio”. Chi scrive è profondamente convinto che se esiste un valore fondamentale di tutta la scrittura dell’umanità in ogni luogo e tempo della storia, questo consista proprio nell’avere coltivato nell’animo dei lettori la capacità di provare stupore per l’immensità della creazione: non esiste altra funzione della letteratura che valga il costo dell’inchiostro e della fatica di scrivere. Ciò anche significa che, come bilancio della fiera delle vanità che compongono il nostro affascinante viaggio di presenza caduca nel mondo, non può non affacciarsi sulle labbra dello scrittore avveduto un sorriso di disarmata ironia rivolto alla vanagloria degli impegni umani altisonanti e una condiscendenza di gioiosa partecipazione riservato alle attività gioiose o ludiche: “Ecco, sono arrivati i saltimbanchi / ad esibirsi in giochi di destrezza. / Saltano dal passato nel futuro / scavalcando il presente, / un esercizio bello, affascinante / che tutti noi dovremmo poter fare”.

Sandro Gros-Pietro

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