Prefazione

Non cessa di stupire l’innovazione poetica di Antonio D’Elia che, come robusta quercia, esperta nel miracolo di rigenerarsi, espande le fronde e bonifica il terreno attorno a sé, fino al punto di originare un bosco, là dove prima c’erano arbusti, qualche cespuglio o semplici fili d’erba. Il tempo è un alleato del Poeta salentino, come lo è di tutte le creazioni, naturali o artificiali, che sono progettate per durare. Proprio il tempo, nel suo fluire eracliteo, rappresenta una delle principali fonti di fascino della sua poetica. È una dimensione astratta, sospesa tra il ricordo e l’attesa, la ricapitolazione e la premonizione. È fatta di sogno e di memoria, cronaca della realtà e invenzione dell’immaginario. Nel tempo si coltiva il mito dell’antichità, come fosse lo specchio lacustre, l’occhio vitreo aperto sul cuore della Terra, che negli abissi racchiude leggende e cronache reali delle civiltà scomparse. Contemporaneamente il tempo è anche attesa di ciò che verrà, promessa di continuazione, proiezione indefinita del desiderio di esserci al di là degli orizzonti visibili della contemporaneità.
Con il sortilegio del tempo la poesia di Antonio D’Elia si è sgravata di ogni apparato prosaico di trattazione minimalistica del contingente. Il dettato poetico è divenuto essenziale fino al punto di apparire quasi evanescente, come fosse metafora della realtà, divenuta una nuvola, un miraggio, un ricordo ovvero un presagio. La levità del verso si riscontra anche nella forma lapidaria della composizione, che si esprime per sentenze e vaticini, per aforismi e formule criptiche, in uno sfolgorio colorato di luci accecanti e di ombre diffuse, di solitudini nel deserto e di presenze incombenti, che non sono fantasmi del­l’esistenza, ma che al contrario sono autentiche realtà della vita: le verità consistenti, la patria salentina, la bellezza di Lecce, il mare prospiciente i Balcani, le derive storiche del mondo antico, le problematiche di attualità, la vitalità e la sofferenza di un popolo operoso e antichissimo, educato nel culto della bellezza e nel principio della realtà, ad essere alacre e laborioso per godere dei frutti della natura e della fatica umana, i doni della vita, sempre minacciati dal caso e dalle pesti del destino, non ultimo il batterio infestante della xylella che demolisce gli ulivi plurisecolari del Salento, i quali sono autentici capolavori costruiti dall’unione sapiente del lavoro umano con la fertilità della natura.
Verosimilmente c’è un’aura vagamente surrealista in questa formula innovata della poesia di Antonio D’Elia, che rimane pur sempre agganciata agli oggetti del reale, ma, come avviene in alcuni splendidi pittori surrealisti come Magritte e Picabia, diviene icona della capacità di immaginare il mondo senza confini e senza prigioni, libertà esclusiva dei grandi artisti di vaglia, capaci in tale gara di spingersi oltre i confini e di liberarsi anche dall’orrore della morte. Il richiamo a Salvatore Quasimodo, tuttavia, esercitato nell’omaggio del titolo, serve a mantenere l’àncora con la Terra, con la dimensione del suolo, con quella pulvis da cui proveniamo e in cui ci trasformeremo, anche se per l’artista vale il monito oraziano del non omnis moriar.
Tutta la poesia di Ed è già sera è un inno fantastico e dolce rivolto all’amore, che è polifonico, poli-prospettico e multi-rappresentativo, adombrato nel simbolo muliebre della donna, amante e compagna, ma spinto nell’allegoria di un significato traslato: la donna amata è sempre Calliope, la Poesia, o meglio ancora, come rivela il Poeta nel finale della silloge, nella poesia Vivi silenziosa, la donna amata è la parola: sogno, speranza, compagnia, solitudine, tenebra e luce accecante per ogni valido poeta.

Sandro Gros-Pietro

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