PREFAZIONE

Nella tradizione classica greco-latina l’elegia è una poesia declinata tra la confidenza e la confessione, nella quale il poeta racconta le sue esperienze sentimentali e sensuali, di vario genere, con predominanza per l’eros, come avviene nelle opere di Ca­tullo, Ovidio, Tibullo e Properzio. In epoche successive i contenuti elegiaci sono espressione del mondo interiore del Poeta, delle sue passioni, dei punti di forza del canto e della visione del mondo. Pare d’obbligo citare le Elegie romane Lord Byron, le quali so­no un’ode entusiastica alla bellezza di Roma, con va­gheggiamento dell’antichità e con pochi e radi ri­ferimenti amorosi alla bella Faustina, da molti critici individuati come la figlia dell’oste: “Faustina mi ren­de felice! Allegramente condivide con me il letto!”. Gabriele d’Annunzio si richiama apertamente a Lord Byron nella composizione delle sue Elegie romane, scritte sulla falsariga del diario psicologico: esse ri­prendono quelle di Byron e aggiungono la nuova in­venzione del secolo, l’indagine psicologica. Un notevole incupimento si sconta nelle Elegie duinesi: in quell’incantato angolo di mondo sulle sponde del Mare Adriatico presso Trieste, Rilke si lascia prendere da una complessa problematica di turbamenti interiori, certamente aumentata dall’atmosfera dello scor­cio d’anni in cui vive, quando ormai Nietzsche ha già celebrato i funerali di Dio, l’Europa si è sfaldata, tre imperi sono scomparsi – austro ungarico, zarista e ot­tomano – la borghesia dimostra palesemente la sua incapacità di sostituirsi alla nobiltà, di cui continua a vagheggiare il perduto charme, le ban­de di scioperanti infiammano la società con tensioni sociali, i militari sono trattati come vergognosi nulla facenti, l’autorità annaspa: Rilke vede angeli e creature fantastiche a ogni angolo, ma non riesce a scrollarsi di dosso il pessimismo. In Italia, del resto, furoreggia il crepuscolarismo e in Inghilterra va alla grande la poesia cimiteriale: ghiottoneria per lapidi, croci, an­geli piangenti, adorazione per la morte in giovani età, lamenti e resurrezioni strappa cuore. An­che la pittura dei preraffaelliti sconta il fascino della morte.
Rodolfo Vettorello, Poeta di solidissima cultura, rinserra nei magazzini della memoria gli oltre due millenni di poesia elegiaca coltivata nel Vecchio Mon­do. E ne rovescia totalmente il concetto. Di qua­le confessione ovvero confidenza, a beneficio dei po­veri di spirito, potremmo parlare se il Poeta volutamente intona una Elegia per me solo? Il Poeta non rappresenta il suo Io-Poetante, ma invece interpreta degli eteronimi, seguendo l’esempio di Ferdinando Pessoa, anche se – proprio come Pessoa – ricostruisce un ortonimo che è una sorta di parziale autoritratto. Più probabilmente il versante più innovativo è an­cora quello psicologico: c’è un viaggio, seppure di­vagante e nebbioso, alla ricerca dell’Io o più probabilmente di quel Sé definito da Jung “unità e totalità della personalità nella sua parte conscia e in quella inconscia”. In verità, non si tratta neppure di un’analisi psicologica, perché sono labili le componenti del­l’interpretazione dei sogni e al posto sono sviluppate le illustrazioni d’ambiente reale. Quel che è cer­to è che il libro sommuove nella memoria la danza macabra della morte alla maniera di Giacomo Borlone de Buschis: non è dato vivere senza fare comunella e confusione continua con la Morte. La presenza è incombente, asfissiante, pervicace e universale. È co­­munque una presenza terribile: l’uomo nasce nel se­gno e nella consapevolezza del suo doloroso trapasso alla morte. Splendida è la poesia Nel pozzo, dedicata a Julien, caduto nel pozzo a Malaga e ad Alfredino Rampi, caduto nel pozzo a Vermicino: il pozzo è la metafora dell’utero materno dentro cui il neonato deve passare per venire al mondo e, mentre lo fa, sperimenta inconsapevolmente – un imprinting che rimarrà per sempre infisso nel suo Sé junghia­no – la morte che lo assedia già dalla nascita e attraverso cui inesorabilmente dovrà passare.
Le formule stechiometriche attraverso cui la morte entra in relazione con la vita – si combina con essa in una nuova sostanza di unità e totalità dell’esperienza – sono poetiche che un Poeta di lungo cor­so e di raffinata sapienza come Rodolfo Vettorello cita con proprietà e levità magistrale. Forse, al primo po­sto, essendo Vettorello un milanese d’acquisto, po­tremmo mettere quell’impareggiabile Delio Tessa di Caporetto 1917, L’è el dì di Mort, alegher. La poesia di Vettorello risente, per ammissione stessa del Poe­ta, del fascino della Linea Lombarda, che risale a Giuseppe Parini e discende per sacri lombi fino a Vittorio Sereni, Giovanni Giudici, Giovanni Raboni. È una linea di narrativa poetica, nella quale i poeti trascurano la liricità delle affinità elettive per impegnarsi invece a documentare i casi della vita, loro e degli altri, anche con una vocazione di testimonianza sociale e di impegno civile. Si sviluppa così nei testi un’atmosfera di autentica compassione e condivisione della comune sofferenza, che conduce al significato antico dell’assemblea, cioè dell’ecclesia: comunione di quanti condividono e hanno illustrato il sentimento di dolore, di passione e anche di timore per l’attrazione calamitante e annullatrice della Morte. Attraverso tale sentimento, il nostro Poeta si sente vi­cino alla poetica “D’amarissimi casi ordine im­menso” di Giacomo Leopardi; a quella “del mal di vivere” di Eugenio Montale e del “vizio assurdo” di Cesare Pavese. Giganteggiano, in questo immenso omaggio all’altissima poesia italiana di Ottocento e Novecento che è il libro Elegia per me solo, le figure di Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Giovanni Pascoli, Gabriele d’Annunzio. Quasi in ogni composizione si ritrova l’acerbo stupore che Ungaretti aveva racchiuso in quella terribile e lapidaria for­­ma proverbiale, la morte si sconta vivendo, a chiusura della poesia Sono una creatura, una delle più im­portanti de Il porto sepolto. È la poetica del Dolore ungarettiano, quel colpevolizzarsi di essere sopravvissuto alla morte del figlio Antonello, lo stupore aspro di essere vivo e contemporaneamente divorato dalla Morte, che porta all’allegria dei naufragi. Il tema del dolore, della sofferenza ineliminabile e infine della morte si ritrova anche in Salvatore Quasimodo, in modo predominante nelle poesie del­la senilità, in Dare e avere. La magnificenza e la ma­gniloquenza dannunziana, invece, non rappresentano un modello poetico di comunanza con il sentire di Rodolfo Vettorello, data l’assoluta incomparabilità dell’Immaginifico con qualsiasi altro scrittore del No­vecento non solo italiano, ma di tutta la cultura occidentale di fine Ottocento e inizio Novecento. È piuttosto la focosa ambizione di d’Annunzio per una vita improntata all’eccesso e vissuta sempre sulla li­nea di confine e di sfida con l’oltre-vita, quasi in corteggiamento assiduo della morte, a creare una zona di contatto con Vettorello, che afferma a chiare lettere “è da una vita che vorrei morire”, anche se confessa che ha orrore per il disfacimento lento, inesorabile e progressivo con cui la Morte corrode ed erode nel tempo la carica di vitalità che possediamo. Nella poesia È da una vita scrive il Poeta “Vorrei morire qui, senza patire, / il mio terrore è il male che devasta / e la co­scienza che si annebbia e cede. Vorrei morire come la falena / per il calore che sprigiona il lume”. Un ul­teriore elemento di affinità con il mondo poetico di d’Annunzio è l’importanza della natura anche se Vettorello non sviluppa il panismo della Pioggia nel pineto, ma piuttosto un forte amore per le montagne, i luoghi dell’infanzia, le crode, i boschi, i pioppi, la nomenclatura dei fiori, anche di rara conoscenza, tipo salicornia (asparago di mare), plumbago, ga­zania, citiamo fra l’altre le due splendide poesie Co­me fa la morte e Come nei giorni di vento. Tuttavia, anche nei rigogli di una natura apparentemente festosa e solare, si manifesta leopardianamente il tormento ossessivo della Morte, l’attesa estenuante, il rodere incessante, che spinge il poeta anche a subire l’attrazione per il “vizio assurdo” espresso da Cesare Pavese. Si tratta, allora di concepire un atto non conservativo ovvero si tratta di esaltare l’eutanasia come forma di affrancamento dall’assedio estenuante della Morte sopportato e patito fin dai primi anni della ragione, come si legge nelle poesie La buona morte 1 e 2. Ecco, allora, che si giustifica l’assurdo dell’omicidio come atto d’amore, presentato dal Poeta ov­viamente parlando in prima persona, come se egli stesso vivesse l’esperienza, mentre come abbiamo già detto si tratta della creazione di un eteronimo che agita nella memoria la poetica di Fernando Pessoa, uno dei massimi scrittori del Novecento, ben presente in Vettorello. La poesia indicata è Ali aperte, nella quale il poeta si cala in un fatto di cronaca e rappresenta il tragico personaggio in prima persona: è una madre che compie l’omicidio del figlio e lo lancia dal balcone, perché l’amore “Vorrebbe un salto con le ali aperte, / dentro la luna, rossa all’orizzonte / ma questa volta troppo breve è il viaggio / e il marciapiede è il cielo che ci attende. / Così ti abbraccio, t’ho abbracciato forte, / nel viaggio breve, fino a giù, nel fondo. // La morte a volte sceglie strade assurde, / l’amore grande / sceglie di cadere”. Un caso simile è quel­lo delle due bimbe Alessia e Livia (e a Matthias Schepp, padre infelice): la misteriosa scomparsa del­le due figlie, rapite dal padre, poi suicida sotto al tre­no – lascia un biglietto in cui dichiara di averle uccise – la possiamo includere nella categoria del “vizio assurdo” pavesiano, un vagheggiamento del suicidio/omicidio come rimedio alla “piccola morte” che quotidianamente ci assedia e ci consuma, ci rende anoressici verso la vita, senza più appetiti. Altro ca­so, tuttavia diverso per via delle motivazioni di origine che sono turpi e vergognosamente vili, ma con identica conclusione letale, lo ritroviamo nella poesia Fortuna, alla bimba seviziata e uccisa a Caivano.
Nell’ampio viaggio elegiaco di Rodolfo Vettorello esiste una fondamentale ricostruzione della me­moria anche in chiave autobiografica. Infatti, c’è la rappresentazione dei primi anni di infanzia a Meano (vedere Piangere di meno), cui segue l’adolescenza e la gioventù milanese; c’è la rievocazione dell’alloggio di famiglia in Piazza del Duomo, “Tre camere su strada, un corridoio / e la cucina grande”. Il cuore del poeta si slarga nella memoria della madre in Bellurie di un tempo, in cui si leggono i dolcissimi versi “La tua canzone ricolmava tazze / di latte caldo, come me­dicina. / La nostra vita e il senso // sei tu che sei colei che porta il vento // e il sole e l’acqua, / il miele e il sentimento. / Tu, solo unico centro / di tutto ciò che ho perso e che mi manca, / tu ventre e carne e sangue e sfinimento. / Mi partorisci un giorno dopo l’altro / ed ogni volta è ancora un altro parto. / Poi mi distacchi, come fai da sempre, // (cordone ombelicale che non molla) / dalla mia sorte assurda / e mi allontani tu / dalla mia morte”. Questa immagine della Madre, luminescente di continuità nell’oltre-vita del­la mor­te, non può non richiamare alla mente La ma­dre di Ungaretti in Sentimento del tempo, “In gi­noc­chio, decisa, / sarai una statua davanti all’eterno”. Il filo rosso dell’autobiografia è, dunque, uno dei te­mi portanti di Elegia per me solo, anche se, come ab­biamo visto, non è certamente l’unico. Inoltre, più che un’au­tobiografia con dettagliata ricostruzione dei mo­menti e delle date, si tratta dell’interpretazione del personaggio ortonimo del libro, cioè dell’autore in sé e per sé, ma parzialmente e volutamente rappresentato al­l’interno della visione poetica che Rodolfo Vettorello ha voluto conferire all’intero libro. Così ap­paiono le pagine dedicate al fratello Enio (vedere Per Enio, un fratello che ora sta surfando nelle nubi) e al­la sorella (vedere Le vele nere, a una sorella perduta e Così la tua morte, a D., mia sorella). Inoltre, vi sono altri importanti personaggi del lessico famigliare, come la lavandaia Maria, il gatto Puffi, la ca­gna Cica, con un’ulteriore galleria di fantasmi della men­te, rivisitati tra il ricordo e la fantasia. Altisonanti ma anche arrese all’ineluttabilità della conclusione scontata sono le poesie del congedo, che si aprono con Se muore il canto, affettuoso omaggio a uno dei poeti evidentemente più cari a Vettorello, Eugenio Montale, di cui sono citati i versi tratti da Casa al mare, nella sezione Meriggi e ombre degli Ossi di seppia: “Il viaggio finisce qui: / nelle cure meschine che di­vidono / l’anima che più non sa dare un grido”. Questo ideale finisterrae che suscita lo stordimento del Poeta giunto a osservare il labile limite della sua vita autentica che va a “infinitarsi” con un’eternità annichilente e che da un lato gli fa implorare l’autenticità del vissuto dall’altro lo stordisce con l’esalazione nel nulla che lo attende, oltre il limite del ba­gnasciuga, sulla sponda dell’eterno che tutto erode e polverizza. Tuttavia, resterà il canto, finché il Poeta lo intonerà, ovvero finché, qual altro erede per lui, riprenderà il verso. La pagina conclusiva è l’anello di congiuntura con la nascita/morte, la sortita dall’utero/pozzo, la riaccensione dei ricordi sul vissuto au­tentico dell’infanzia, la casa di Meano e La cagna rossa.
Il verseggiare di Rodolfo Vettorello consiste in un’ambientazione poetica del racconto: c’è sempre una vicenda, nascosta tra le pieghe della poesia, ma è comunque “poeticizzata”: è resa sfuggente quasi ai limiti dell’ermetismo ed è marcata con la forza dell’espressionismo e dell’imagismo, nel solco caldo e profondo, ubertoso e fertile, della migliore poesia del Novecento, di cui Vettorello rappresenta sicuramente un autore di riepilogo e di rilancio, di ripresa e di ri­fioritura. Si noti anche la bellezza e la naturalezza del verso libero, sempre sviluppato intorno a un na­turale ronzio della metrica contenuta nei paradigmi dell’endecasillabo, talvolta spezzato, talvolta alternato a versi brevi, raramente imbrigliato nei gorghi della rima o dell’assonanza, come uccello finito nella rete dell’uccellaio, per gioco volutamente lieve e qua­si canzonatorio, per poi lasciarlo di nuovo riprendere il volo della libertà, come appare nella poesia A noi che siamo un animale strano, forma di omaggio affettuoso e paziente rivolto alla persona amata, e contemporaneamente valido anche come abbraccio lanciato a un “Tu” generico che rappresenta l’intero genere umano, soggetto portante del suo amore terreno.

Sandro Gros-Pietro

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