Premessa dell’editore

La costanza con cui Antonio Marcello Villucci si è dedicato alla Poesia è uguagliabile a una professione di fede, che mai si rinnega. Villucci è un letterato, precisamente un umanista, che ha tratto dallo studio autentiche possibilità di gioia e di vita onorata. Viene a mente il celebre aforisma di Jorge Luis Borges, Il libro è una delle possibilità di felicità che abbiamo noi uomini. Immerso nei libri, Villucci si è procurato e tuttora si procura la vita felice. La letteratura, la storia, la filosofia, la religione, l’arte, l’architettura sono state fin dalla gioventù le fonti originarie della sua conoscenza mondana. Con esse, egli si è impadronito del patrimonio di azione e di pensiero sviluppato dall’uomo nella temperie dei secoli. Come confessa Ovidio dal suo esilio di Tomi, egli vive continuamente in cerca di notizie, perché non si è mai stanchi di acquisire più documentazione dei fatti e delle idee. Se la generalità dei libri ha rappresentato il suo laboratorio della grazia – usiamo il termine al singolare per irradiarlo di una pregnanza cristiana, a differenza del plurale foscoliano, che è splendente di glorie pagane – la poesia è stata ed è il suo hortus conclusus, il suo eden in terra, coltivato con erbe miracolose e profumate. Le passeggiate metaforiche nel giardino di parole della Poesia, alla ricerca del significato profondo della giornata appena trascorsa e in attesa di quella prossima, rappresentano nella vita del Poeta il dialogo galileiano sovra i massimi sistemi: la sua rivoluzione personale sul metodo di intendere le cose del mondo, la sistemazione definitiva della verità e della giustizia.
Il grande viaggio nella poesia intrapreso da Villucci principia nel 1970, quasi mezzo secolo prima rispetto ai tempi attuali, con la pubblicazione del libro di liriche Rifugio, il cui titolo evoca nel lettore un omaggio letterario scopertamente gozzaniano, precisamente a La via del rifugio pubblicata nel 1906 dal Poeta del Meleto. Quest’omaggio non è una pura occasionalità, perché va richiamato quanto Guido Gozzano fosse celebrato e apprezzato dai poeti avanguardisti riuniti nel Gruppo del ’63 dei Novissimi, con Edoardo Sanguineti in testa, grande estimatore e superbo valorizzatore della poesia di Gozzano, per quel suo potenziale di irrisione e di demistificazione rivolto alla poesia classica, la quale potremmo dire si perfeziona con il paterno Carducci e con l’immaginifico d’Annunzio. Villucci si affaccia, dunque, alla poesia con l’umiltà probatoria del neofita, che non si sottrae agli esercizi di stile per dare conto a chi di dovere del suo riguardoso praticantato di letterato bene in arnese. Anche la critica più attenta nota subito lo spessore di letterarietà e, ancora più, di attualità, in cui l’opera poetica di Villucci si inserisce fin dagli anni dei primordi con una sicurezza nitida di orientamento innovativo del gusto. Quel fraseggiare lieve eppure sferzante del verso, che supera le passate vicende quasimodiane dell’ermetismo, e che già riprende le ansie di Luzi sul consumo enigmatico del tempo, sui tormenti di fede sviluppati da Rebora, Betocchi e Turoldo, fanno sì che poeti e critici come Renato Filippelli e Antonio Piromalli apprezzino con vigore la sapienza poetica di Villucci e gli manifestino piena sodalità.
Va riconosciuto al genio critico di Vittoriano Esposito e di Maria Grazia Lenisa il definitivo sdoganamento di Villucci dall’universo umbratile dei poeti “bravi e sconosciuti” e il riconoscimento delle sue inimitabili credenziali di distinzione e di maturità: l’acutezza di alternare suasivamente liricità e satira, quasi come in un’eco classica di giustapposizione tra lo stile alto e lo stile basso del verso, rispettivamente ingaggiato dalla tragedia ovvero dalla commedia. Ben presto, nel ristretto ambito della poesia che conta, la quale come Luciano Anceschi ha crudamente dichiarato vanta “un pubblico della Poesia composto esclusivamente dai poeti”, la voce di Villucci viene accreditata e riconosciuta come il canto estatico e severo, dolce e amaro come l’erba dulcamara, che può essere quasi un nettare, ma può anche palesarsi indigesta. Dal suo hortus conclusus Villucci ha tratto il primo elisir capace di lenire le ferite del tempo, della fortuna avversa, della morte, degli inganni orditi dai cialtroni, delle violenze inflitte dai sopraffattori ai più deboli: è il canto di una poesia che sa rendersi voce soave nel racconto delle bellezze della natura e nella lode della bontà e dell’amore, ma che sa anche colpire come frusta implacabile per condannare i vizi e i reati dei prepotenti.
L’interesse della poesia di Villucci è rivolto al mondo dell’attualità in cui viviamo, nel quale, tuttavia, si manifestano ovunque le testimonianze del passato. In tal modo la poesia di Villucci diviene un pendolo che campisce le traiettorie tra passato, presente e futuro e le amalgama in una nozione di tempo sfuso o più propriamente fuso, reso liquido e scorrevole come il fiume di Eraclito, riassumibile in un continuo divenire delle cose. Il pensiero poetante di Villucci diviene un movimento pendolare di analessi e di prolessi: evocazioni del passato, attese del futuro, narrazioni dell’attualità, riunite in uno stesso ordito creativo e poematico. Ben presto si manifesta l’inclinazione del Poeta a concepire la Poesia non più come l’illuminazione istantanea, il bagliore rivelativo di un attimo a sé stante, l’occasione montaliana di un baluginio ovvero di un barbaglio, e comunque in chiave di rappresentazione per nomadi o meglio ancora per relitti del naufragio dell’unità del reale, secondo l’indicazione trionfante nella seconda metà del Novecento. Al contrario, nel pensiero poetante di Villucci, si fa strada la convinzione che la Poesia sia una rappresentazione continuativa, organica, unitaria della realtà del mondo così come viene rielaborata nel giardino delle parole che il Poeta costruisce per se stesso e per i suoi lettori. La Poesia diviene racconto del “mondo invisibile”, cioè esprime la proiezione delle cose reali del mondo in cui viviamo, non già denotate attraverso l’esposizione narrativa, ma rievocate nello splendore sfuggente della visione poetica, sempre evocativa, creativa e fantastica. Le case coloniche, gli affetti familiari, il ricordo degli avi, la lunga teoria degli amici e dei maestri di vita e di studio, gli incanti paesaggistici, la bellezza di Sessa Aurunca e dei luoghi viciniori, l’Irpinia e la sua antichissima storia: l’universo intero, coniugato nel doppio personaggio sia dell’io-poetico sia del collettivo immaginario divengono un unico poema articolato e pluralista, ma comunque organico, ideato complessivamente a ricostituire quell’unitario “oriz­zon­te degli eventi” che dal Poeta viene sempre sotteso alla complessità sommativa della vita.
Lungo questa strada di pensiero poetante, Antonio Marcello Villucci non può trovare nei suoi contemporanei molti corrispondenti, giacché i poeti italiani sono quasi tutti impegnati a seguire le mode letterarie del momento che diffondono una versificazione lineare e piatta del mondo reale, una banalizzazione del quotidiano, un’elencazione per “robe e fatti”, luccicante come la plastica dei supermercati, e altrettanto ingombrante e inquinante, destinata a lentamente avvelenare la purezza cristallina del linguaggio poetico, perfezionatosi nel filtraggio sperimentale dell’arte creativa della parola in Poesia. Assume molta importanza, in questa fase di maturazione centrale per la poesia di Villucci, la sodale amicizia sviluppata dal Poeta da un lato con Giorgio Bárberi Squarotti e dall’altro con Emerico Giachery, entrambi validissimi critici letterari, tuttavia molto indipendenti l’uno dall’altro. Bárberi affianca la sua valentia critica con la militanza poetica esercitata in proprio, essendo al tempo uno dei maggiori poeti italiani, forse l’unico che percorre in solitaria un cammino parallelo a quello descritto da Villucci, consistente in un grande riscatto della vocazione poematica della Poesia e della centralità di una visione unitaria del reale. Giachery fiuta nei libri che riceve in spedizione da Villucci la presenza di una voce poetica del tutto singolare e nuova e, come è nello stile ricettivo del critico romano, si apre a lui con una solare amicizia, in applicazione al motto da lui stesso sperimentato di “letteratura come amicizia”.
La successiva fase di crescita e di maturazione del pensiero poetante di Villucci avviene con il superamento della rappresentazione del mondo co­me eterno divenire. Villucci si lascia alle spalle i discendenti moderni di Eraclito. Superata da sempre la visione di Hegel del divenire, inaccettabile agli occhi del poeta per quella identità tra l’essere e il nulla, in cui il pensiero cristiano non riesce a ritrovarsi; abbandonata da tempo anche la visione di Mario Luzi, così bergsoniana, per quella modalità individuale della misura del tempo e della pazienza dell’attesa, che sembrerebbe ridurre la percezione dell’essere a una questione di talento personale, il Poeta si avvicina al pensiero di Emanuele Severino, che sottolinea come sia impossibile che una cosa “che è” possa successivamente mutarsi e divenire “il nulla”. Al contrario, avviene una continua trasmissione tra causa ed effetto, per cui la causa si coeterna nell’effetto, come il legno diventa cenere, ma non cessa affatto di esistere “legno”, coeternato nel suo effetto di combustione in cenere. A differenza di ciò che i nostri sensi vorrebbero farci credere, ciò che non esiste più all’interno “dell’orizzonte degli eventi” continua a esistere in un mondo invisibile. Ed ecco, allora, il grande dono interpretativo e immaginativo della poesia, che diviene racconto, narrazione, interpretazione fantastica del mondo invisibile: illustrazione dell’eterno che si colloca al di là dell’orizzonte degli eventi. Poiché ogni cosa è destinata a traguardare il limite del mondo sensibile, e non solo le persone, ma anche gli animali e le piante, le cose, le montagne, i mari, le stelle e gli astri del cielo sono destinati, nel loro divenire, a coeternarsi nel mondo invisibile, in quanto eternamente sono scomparsi, scompaiono e scompariranno in futuro dal mondo visibile all’interno dell’orizzonte degli eventi, il poeta è chiamato a dare conto di questa Epifania del Cielo e della Terra, a costruirne la testimonianza, a squadernare l’invenzione e il canto, nella sapienza e nell’umiltà delle sue minimali coordinate umane, del tutto inadeguate a campire la smisurata vastità del mistero che circonda l’universo, eppure pienamente consapevoli del fascino facondo di una creazione che eternamente dura, pure nel consumo e nella scomparsa di sé stessa. Così la poesia diviene epifania della divinità, dove il divino ha una nozione moderna, scientifica e filosofica, di coabitazione della causa con l’effetto, di durata che non finisce, di essere che si eterna nella sua indefinita e anche infinita trasformazione e contemporanea permanenza in sé. La traduzione in dettato poetico di questa impostazione di pensiero poetante è realizzata da Antonio Marcello Villucci in un riferimento di pensiero cristiano, in quanto avvertito come apice di maturazione della civiltà umana, nella pienezza dei suoi contenuti di fede, speranza e carità: la luce massima di elevazione per realizzare la vita felice.
Epifania del Cielo e della Terra è un’antologia impropria dell’opera poetica di Villucci. Il Poeta non ha affatto voluto comporre il suo Amarcord professionale per fornire ai lettori la versione filologica perfetta e storicizzata della sua produzione. Invece, Villucci ha liberamente attinto a piene mani dai magazzini della sua memoria poetica: ha selezionato i testi, talora li ha corretti, talvolta li ha riformulati, li ha modellati e limati oppure li ha riprodotti tali e quali, per rendere una panoramica completa dell’evoluzione del suo poema e della sua visione epifanica del mondo in cui ha vissuto e in cui tuttora vive, come esponente di massimo rilievo della Poesia irpina d’attualità. Ci corre alla mente Il libro ascetico di Gabriele d’Annunzio, uscito nel 1923: il Vate lo collazionò per fornire una “sum­ma” del suo pensiero interpretativo dell’attualità mondana in cui viveva e che egli stesso voleva traguardare in una visione superiore del mondo. In verità d’Annunzio, nel Libro ascetico, intendeva propinare una lezione umanistica, principalmente di filosofia e di politica. Gli intenti di Villucci sono diversi, hanno uno stampo dantesco, recano dentro di sé quello spirito di transumanare che ispirò tutta l’opera del Fiorentino. Se vogliamo si riconosce in Villucci l’ansia di Dante che chiede a Costanza se ella avverte l’urgenza di “più vedere” e di accostarsi di più alla Rosa Celeste e ritroviamo anche la stessa soave pazienza e santità di Costanza, che risponde al Fiorentino come ella sia paga e totalmente illuminata e felice stando all’interno dei confini di conoscenza e di visione dell’amore celeste che le sono stati assegnati. Similmente ci appare Villucci, che è così amorevolmente chino e quasi prostrato in ammirazione estatica del Cielo e della Terra contenuti in Irpinia, e che non chiede affatto di avere un posto più centrale nella visione del mondo moderno, perché già dove egli si trova, in Sessa Aurunca, c’è il centro di gravità dell’intero universo, che infinitamente si ripete in ogni luogo e in ogni tempo della creazione.
La poetica di Antonio Marcello Villucci si sviluppa su tre fondamentali pilastri. Il primo consiste nella visione umanitaria e religiosa della vita, che lo porta a credere con convinzione nell’eternità dell’essere e a concepire la fede religiosa come sostanziale forma di sapienza e di bontà umana, nell’adozione e nell’approfondimento del pensiero cristiano, per comportamenti etici e per riti di devozione e di preghiera. Il secondo è consistente nell’evocazione dei ricordi e in particolare del mondo rurale e campagnolo, come forma di infanzia non solo dell’Autore, ma anche estensibile all’infanzia della civiltà, una sorta di età dell’oro, che allude ai primordi del mondo pastorale in cui si manifestò la buona novella del redentore. Il terzo pilastro consiste nella galleria dei ritratti degli uomini giusti che il Poeta ha conosciuto e amato nella vita, come esempi di probità e di impegno e come realizzazioni al singolare di una serie di vite felici. Questa triade tematica comporta come corollario una sequenza di applicazioni ovvero di contestualizzazioni in cui si addipanano i racconti poetici. Si è già detto che Sessa Aurunca è lo scenario privilegiato della vicenda terrena del Poeta: è l’oasi uma­na e reale in cui si realizzano i miraggi della poesia, le evocazioni, le agnizioni, i riconoscimenti del ve­ro che si cela dietro ai fantasmi ingannatori del rea­le, per speculum in aenigmate, come avverte Paolo nella prima lettera ai Corinti. Anche il mon­do familiare, con la ricchezza degli affetti, la sicurezza del ristoro fisico e spirituale, la fecondità dell’amore verso la donna, madre dei tre figli, la dolcezza dei legami affettivi verso figli e nipoti: tutto ciò è il potente intreccio del racconto poetico che definisce i confini e i contenuti della vita vera e autentica realizzabile dagli uomini di buona volontà. Lo splendore della natura, la campagna e le marine, i boschi e i coltivi, i monti e le acque che ne discendono sono i piani scenografici in cui si muove il viaggio poetico di Villucci, con accenti di pacata e virgiliana ammirazione per lo splendor mundi, sia quale dono ricevuto dalla natura sia anche quale opera valorizzata dal lavoro instancabile e affascinante condotto dall’umanità. Quest’ultimo aspetto, consistente nella capacità umana di inventare nuove forme rivelatrici di bellezza, che la natura non possiede, ma che l’uomo riesce a concepire, rappresenta uno dei più importanti impegni di Villucci non solo come poeta, ma anche come studioso d’arte e di architettura, basti citare al riguardo il suo saggio La monumentale cattedrale di Sessa Aurunca, di recente pubblicazione presso l’editore Caramanica.
Le voci dei critici si uniscono nel riconoscimento dell’attualità e della luminosità del messaggio di Antonio Marcello Villucci. Esemplare è il ragionamento avviato da Emerico Giachery: “La poesia pia verso il quotidiano e verso la vita sa cogliere il fermento del Sacro, la sete di Dio, la tensione all’Oltre. Credo che oggi, non ostante certe apparenze, sia tramontato il tempo in cui si proclamava trionfalmente la morte di dio e un fermento religioso sia in atto. Non necessariamente nelle forme confessionali, che pure hanno un valore profondo per chi le professa, ma anche in una libera ricerca protesa all’Oltre, in certe aperture della scienza che cerca la “particella di Dio” e scopre nuovi orizzonti vicino allo spirito, nell’affermarsi, specie nei paesi anglosassoni ma anche in Europa, della parapsicologia che cerca, e a volte trova, segni dell’Oltre. In questo senso la sua poesia, pur nella sua misura tradizionale che scandisce con eleganza e compiuta armonia tempi e nuclei di vita, con ansia del senso, ha una sua attualità”.
Così si esprime Nilo Cardillo: “Antonio Marcello Villucci disegna un quadro toccante del suo mondo antico, colto nello splendore luminoso della natura, nella vivacità della sua economia, dinamica e ricca, nella vita serena e operosa di un popolo ancorato alle leggi non scritte delle tradizioni, dei riti, dei sentimenti autentici che davano equilibrio e ordine alla vita, individuale e collettiva, ed i suoi versi, che generano una lettura fluida e spontanea, ci donano il piacere della poesia, quella vera che, quando raggiunge le vette più alte, ha sicuri elementi di universalità e tocca e commuove ogni lettore”.
Sull’importanza di Sessa Aurunca come metaforico centro di gravità dell’intero mondo poetico villucciano, dice molto bene Nicola Terracciano, “Questa vita villucciana tramata di intense esperienze culturali e umane, esaltanti e dolenti, come nelle vite autentiche, segnate dal sigillo di vera, calda umanità, si distende nel dedalo, negli intrecci di memoria anzitutto dentro il carissimo sfondo naturale e storico sessano. Villucci, in armonia con il suo carissimo amico Filippelli, nella sua esperienza poetica non è afferrabile, definibile, se non a partire dal fascinoso contesto naturale, paesaggistico, storico di Sessa Aurunca. Se questo vale per tutte le vicende biografiche e per tante vicende politiche, per Villucci il dato è di un’incisività nodale”.
Walter Tommasino, nell’illustrare il contrasto tra il mondo dell’io poeta, singolo e solitario, e l’immaginario collettivo, multi-espressivo e socievole, cita opportunamente un brano critico di Renzo Neri sulla personalità poetica di Villucci, che poi illustra anche ricorrendo a un significativo riferimento leopardiano, “Come i poeti del nostro ’900, anche [Villucci] avverte il dramma di sempre: ‘la situazione di ambiguità di chi, geloso della propria individualità, ama rifugiarsi in solitudine, ma, al tem­po stesso avverte il bisogno di comunicare con gli altri. Sicché il poeta tende da una parte a difendere la propria soggettività, i propri valori, l’inamalgabilità della propria sostanza, della propria essenza (da Alfonso Gatto), e, quindi, fa ricorso alla propria intimità più segreta, alle sue tradizioni, che si identificano poi in quelle dell’infanzia, della famiglia, dell’ambiente sociale in cui vive, della sua regione, e, in ultima analisi di una patria; dall’altra, avverte la necessità di comunicare agli altri la propria individualità, la propria solitudine per ricevere dagli altri lo stesso messaggio, individuale e singolare’. Questa ambiguità fu avvertita da quando Leopardi con la sua produzione poetica segnò un vero distacco dalle impalcature e dalle convenzioni classicistiche e propose una poesia lirica ridotta a espressione di intimità, a confessione di situazioni, affezioni, avventure storiche del proprio animo”.
Carmine Chiodo illustra con efficacia le doti e il garbo narrativo del Poeta, “Villucci ci offre una poesia che va lodata per l’accuratezza e precisione delle immagini, per i contenuti vari, ma espressi sempre con una lingua sciolta, suggestiva, ben calibrata che conferisce ai versi, alle poesie una misura narrativa ricca di varie suggestioni e avvenimenti, che appartengono al passato e al presente, e al riguardo ecco, ad esempio, il testo Terremoto in Irpinia, e qui «Tetti sconnessi», case, chiese «diroccate», e poi «morti tanti morti nelle bare a schiera». Ma nonostante ciò non bisogna arrendersi e quindi è necessario riprendere «l’orgoglio dei padri / che fecero vive queste contrade / dal tempo dei ‘tratturi’ / ricomponendo il proprio destino». Una poesia che piace per temi e per linguaggio, e nel contempo colpisce per la grazia, il garbo, la delicatezza con cui vengono dette le cose o descritti i momenti esistenziali o di stagioni, e qui si nota una misura narrativa e poetica molto riuscita e penetrante”. Sem­pre Carmine Chiodo espo­ne con piane ed esaustive parole la ricchezza dei contenuti, quando osserva che “Villucci, quando parla di se stesso, dei suoi sogni, del suo paese, dei suoi cari, di certi elementi legati al giorno, alla notte, all’alba, quando presenta certe suggestioni e stati interiori, o coglie momenti naturali legati all’Universo, o ancora quan­do dice della sua giovinezza, della povera gen­te, dell’umile gente, della terra degli avi, dell’attuale Presidente della Repubblica, ci dà sempre bella e perfetta poesia”.
Anche Francesca Luzzio riprende il concetto della vastità delle tematiche villucciane e del lindore espressivo, “La pluralità tematica è proposta dall’autore in versi liberi che, se pur non alieni da particolari figure metriche o retoriche, si caratterizzano per un linguaggio semplice, chiaro, d’immediata comprensione, quale si addice alla narrazione della vita”.
Di particolare significanza appare il giudizio espresso da Raffaele Nogaro, uomo religioso di alta cultura, “In questi tempi di comunicazione di massa si possono ascoltare facilmente i cantautori di un verso, fatto di improvvisazione e di provvisorietà. Raramente incontri colui che raggiunge il Deus interior intimo meo, la sapienza e il valore di una vita capace di eternità. Solo allora si ha il poeta. E tale è Antonio Marcello Villucci”.
La bravissima poetessa Maria Grazia Lenisa, amica sodale del Poeta di Sessa Aurunca, scrisse di lui fondamentali chiavi lettura, senza astenersi dal­l’esternare, accanto all’ammirazione per il lavoro, anche l’affetto per la dignità e la signorilità dell’uomo, ma a noi sembra che ci sia una frase, fra tutte quelle che si potrebbero citare, che bene rappresenta lo stupore ammirativo che Villucci suscita nel lettore, “Ho letto molti libri di Villucci, ma in questo [Fiori d’arcobaleno] la poesia è volo, speranza, gioia e la stessa malinconia appare un riflesso del tramonto”.
Si può porre come sigillo di questo ridottissimo oblò aperto sulla sterminata letteratura critica già depositata sull’opera di Villucci, l’affettuoso saluto che Giorgio Bárberi Squarotti rivolgeva all’amico poeta nel suo ultimo autunno del 2016, quando già la vista gli si stava spegnendo, gli scrisse Caro Villucci, la lettura della sua nuova raccolta di poesia suasivamente accompagna questo inizio d’autunno ancora tiepido e luminoso, ed è gioia ed è ammirazione ed è conforto. Molto belli sono i componimenti di memoria e di alacre e armoniosa vita, ma mirabili sono i testi religiosi, davvero altissimi, esemplari. Grazie del dono di verità.

Sandro Gros-Pietro

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