Premio I Murazzi per l’inedito 2010 (dignità di stampa)
Motivazione di Giuria:

In un sigillo leopardiano di nostalgie e sfumate promesse, s’apre un concento di mille occasioni ispirate, ai miti della classicità e alle mode dell’attualità, per un ampio panorama che abbraccia l’effimero e l’imperituro, in un proposito di resistenza ad oltranza della poesia: la Giuria attribuisce la dignità di stampa anche nell’ossequio del prestigioso percorso già compiuto dallo scrittore irpino che è voce primaria della sua terra.

 


PREFAZIONE

Idealmente la poesia di Nicola Prebenna è orientata a rappresentare il viaggio o meglio ancora un’indeterminata esplorazione del nuovo. Si sa che in letteratura i viaggi della poesia si compiono per lo più per mare, mentre quelli della prosa per predilezione si svolgono per terre emerse (salvo numerose eccezioni, come la nave Pequod di Melville e altri casi). Quasi sempre finisce che il viaggio per mare è più tragico, come quello compiuto da Ulisse, mentre quello condotto per terra ha una vocazione più comica, come appare nella trasfigurazione dei poemi cavallereschi compiuta dall’hidalgo don Quixote de la Mancha. In entrambi i casi, tuttavia, ciò che conta di più non è né la località di partenza né la futuribile destinazione, ma la ricerca del nuovo e gli obiettivi di conoscenza delle idealizzate dimensioni del mondo, e di realizzazione dei sogni covati nell’animo. Nel concepimento del viaggio, conta anche quella particolare sindrome della fuga che conduce il viaggiatore a essere divorato dal desiderio di sfuggire a tutto ciò che rappresenta il luogo stanziale della vita ordinaria: la sicurezza, la predestinazione, l’abitudine, le radici, ecc. Poiché i viaggi più illustri della letteratura sia in prosa sia in poesia non conducono quasi mai a luoghi della realtà – fa eccezione il capolavoro di Marco Polo – bensì a luoghi di pura fantasia creati dalla mente dello scrittore, se ne deduce che il viaggio è fonte di una conoscenza maieutica: serve come levatrice o espediente per fare venire alla luce ciò che c’è già nella mente dello scrittore. Il viaggio è sostanzialmente un pretesto: l’alibi di un sogno non realizzato, ma vagamente covato nei precordi dell’animo. La metafora poetica di questa categoria mentale può essere il sigillo leopardiano era il maggio odoroso, che trionfa giustamente come titolo splendido dell’ultimo libro di poesie di Nicola Prebenna, pensato e istruito in forma celebrativa di viaggio poetico: la perfetta conoscenza maieutica, in omaggio a Socrate. In Silvia ci sono, infatti, le due facce della stessa medaglia, che funzionano da luogo di partenza e da luogo di destinazione del viaggio. La partenza è il vagheggiamento delle promesse e la destinazione è il disinganno delle illusioni. In Leopardi, A Silvia è, dunque, lo sconfinato viaggio nei precordi dell’animo umano, condotto in sessantatre versi, dalle promesse della giovinezza all’inganno della morte. A dispetto della potenza del richiamo leopardiano collocato quasi come un grido acuto sul frontespizio, per battezzare l’intero libro, non si deve credere che Prebenna sia un fervente seguace di Leopardi. Basti dire che Prebenna è un uomo di fede, innamorato della natura da lui ritenuta benigna, votato alla fiducia e alla speranza riposta negli uomini di buona volontà, in ottima armonia con i suoi famigliari, sia in ascendenza sia in discendenza generazionale: c’est tout un autre affaire, dunque, rispetto al grande Recanatese. Ma la perfetta identità sta in quel viaggio nei precordi, che fa di Prebenna un sicuro lirico, con ricadute e risvolti filosofici, etici ed estetici, e quindi con meditate ragioni di affinità con i grandi idilli, di cui quello più illustre è qui alluso nella citazione del verso assunto come titolo. Prebenna organizza il suo viaggio come fosse idealmente l’esecuzione di un concerto che prevede tre tempi: preludio, toccata e fuga. Possiamo anche pensare al progetto – i greci lo chiamavano poiesis – di una linea architettonica che parta da una fonte, raggiunga in tangente l’obbiettivo e degradi in asintoto verso l’infinito. Fonte, obiettivo e infinito sono metafore di preludio, toccata e fuga. Già nel preludio, ritroviamo un elemento che funzionerà come fil rouge lungo tutto il viaggio del libro, come leggiamo in Mattino: “Svaporano / le caligini dell’Erebo / e si dissolve il torpore della carne… // lenta sul tuo volto scivola / la carezza, // ed inebria di luce / il sole / noi due”. Inizia, dunque, alle prime luci dell’alba, quando le tenebre dell’Erebo si sono appena dissolte, il canto amebeo d’amore, cioè quel noi due – il poeta e la sua donna – che costituirà la guida fuori campo per tutto il viaggio. La donna amata rappresenta l’eros, cioè la forza che fa muovere l’intero universo e che è un fondamento a tutte le azioni e le scelte. L’emozione dei sentimenti e più in generale il sistema affettivo, che fa riferimento anche ai figli e ai nipoti come al ricordo della madre, degli amici, dei luoghi natii, sono al centro della prima sezione del libro di Prebenna. Ma è già presente anche il secondo filo rosso che, insieme all’eros, si dipana lungo tutto il libro, e si tratta di thanatos, l’immagine della morte, che ritroviamo esplicitamente almeno nelle due poesie Frullio e Mi illudo di vedere l’amico Ugo, oltre che, in modo più sfumato, in Di là dai pini, che contiene una riflessione suscitata dalla visita al cimitero nell’occasione della festività dei morti: “Se ai fiori ed ai lumi / si sostituissero – insana audacia – / o forse più umanamente si affiancassero / preghiere e buone azioni, / la vita di tanti sarebbe meno triste, / più umano il ricordo dei cari / e vera e duratura la lezione della tomba, / adorna e vivace nel tripudio della festa, / utile richiamo alla vita nobile / di noi che restiamo”. La seconda sezione del libro celebra il tuffo nella grande avventura del mondo – i luoghi, i tempi, le vicende – e principia anch’essa con un’alba, come abbiamo visto sorgere l’eros della prima sezione, ma questa volta si tratta della tragica alba del 7 aprile 2009, all’indomani del terremoto notturno che ha sconvolto e deturpato L’Aquila: “ Volti pietrosi / disseminati lungo il Calvario / che s’apre silente / tra cumuli di macerie e presenza di morte”. C’è una elencazione di luoghi – e talvolta di uomini e di gesta – famosi della storia e che funzionano come icone rappresentative del viaggio mondano: Carlo Gesualdo, principe di Venosa; Nôtre Dame a Parigi; Diamante di Cosenza; Rouen sulla Senna, ove patì la condanna al rogo Giovanna d’Arco. Ma accanto a queste e ad altre icone celebri che raccontano, per lo più attraverso l’olocausto degli innocenti, la storia della nostra civiltà e dell’umanità in generale, che viene rapidamente toccata con le ali della poesia, Prebenna ha voluto ricostruire il senso dell’operato umano anche citando il dramma o la tragedia di individui anonimi, e di eroi sconosciuti che, come altrettanti militi ignoti, hanno combattuto la loro battaglia per la vita e hanno offerto il loro sacrificio alla storia del mondo, che li ha ignorati. Non fosse che il poeta pietosamente si ferma a riconoscere l’altezza tragica della loro testimonianza, come splendidamente vediamo in Naufragio, che celebra la tragedia di un extra-comunitario clandestino, scagliato in pasto ai pesci dai nuovi negrieri, trafficanti di uomini: “[…] ti hanno / venduto, ingenuo piccolo Ulisse, l’illusione di patria / nuova, di terra madre e t’hanno // invece abbandonato tra la schiuma / che lenta s’è richiusa e in pasto / t’hanno dato all’affamato di turno”. Il viaggio nel mondo – metaforicamente denominato toccata – si conclude con una riflessione di saggezza e di disincanto, in cui vediamo il poeta chiedersi se valga la pena inseguire la gloria, la fama, la conquista di onori e altri meriti, dopo avere sperimentato che tutta la storia è un’immensa macina di sangue innocente, come leggiamo nella fase conclusiva di Pausa: “Meglio se forse torni sui tuoi passi / e sull’ampia spianata del pianoro, e t’abbandoni al lento riposo / che ti ripaga della fatica patita / e senza smanie di incerte conquiste / ti regala attimi di beata contemplazione / e di serena disponibile attesa // di quel che il Signore vorrà”. La terza sezione del libro, che si chiama fuga, è un asintoto verso l’infinito, cioè verso il concetto di eternità, che da sempre coinvolge e sconvolge la mente degli uomini. Il viaggio si trasforma in una infinita partenza da Itaca e in un infinito pellegrinaggio fra le stelle, che da sempre sono il massimo orizzonte dell’espressione poetica. Non solo nell’amato Leopardi – cantore di vaghe stelle – ma in tutti i poeti che hanno preceduto il Recanatese, le stelle rappresentano l’orizzonte perfetto e definitivo della poesia, nel quale confluiscono con pari dignità sia sogni e attese dei poeti che, come Nicola Prebenna, si attendono un riscontro affermativo alla loro fede in Dio – “[…] e sei tu, Signore, / la mano che dirada le tenebre e apre / il sentiero del sollievo, / tra le acque del mare agitato” – sia sogni e attese espresse dai poeti atei e agnostici che, come Leopardi, patiscono in modo conclusivo la perdita della vita senza altro riscatto possibile se non il vago simulacro incontaminabile delle stelle. Con una metafora poetica di forte valenza simbolica, Prebenna convoca a testimonianza queste due categorie di sogni rivolti alle stelle, nella poesia che si chiama Dal Gargano a Delfi, dove i poli degli atei e dei credenti diventano per analogia poetica i poli dei pagani e dei cristiani, e precisamente sono rappresentati dai simboli del culto di Apollo e della predicazione di Padre Pio. Infine, la terza sezione del libro, la fuga, celebra anche il commiato definitivo dall’eros, ed ecco che riemerge quel sotterraneo filo rosso con la compagna del poeta, la quale si fa avanti per affrontare lo strazio del dissolvimento del vincolo d’amore e di fedeltà contratto con il poeta, come leggiamo in Oltre l’Acheronte: “Quando sorpresa la tua mano sfiorerà/ il mio volto di ghiaccio / o quando la mia s’adagerà / impotente sui tuoi occhi spenti // non cediamo allo strazio che deforma / serbiamolo dentro il nostro dolore, urna sacrificale all’unione che dura / oltre il silenzio”.
La forma e il contenuto della poesia di Nicola Prebenna sono un grande omaggio di ripresa e di rinnovamento della tradizione classica della letteratura occidentale, che pone al centro del discorso poetico la visione lirica che il poeta ricostruisce dentro di sé del mondo. In questo intreccio di visioni e di ricostruzioni si esprime una grande profondità di riflessione e di collegamenti analogici, che aprono il panorama della poesia di Prebenna su secoli di storia e su differenti civiltà. Alla fine trionfa la sensibilità indagatrice di un pensiero poetante che formula le sue ragioni di orientamento in termini di conoscenza e di frequenza dei temi della filosofia, nonché in termini di esplorazione filologica della possibilità della parola di perseguire il vero come unica declinazione dell’essere.

Sandro Gros-Pietro

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