In un tempo così poco conciliato con la vecchiaia e con la morte, è dicibile la vecchiaia, è dicibile la morte?
Nessuno probabilmente ama essere confrontato con l’esperienza del limite eppure se ci è dato vivere, la vecchiaia ci pone di fronte, in anticipo rispetto alla morte, alla nostra finitudine e l’esperienza del limite si fa pressante, ineludibile. Il nostro vivere all’insegna dell’efficienza fisica, del risultato, del culto del bello, del desiderabile ci allontana sempre di più dalla ricerca di percorsi interiori dove sia reperibile una dimensione di accettabilità e valore della fragilità e della fine.
Scienza e tecnologia ci rassicurano sulla possibilità di controllare o annullare i segni del passare del tempo sul nostro corpo. Soggiogati dall’illusione di fermare il tempo, di annullare i simboli del decadere dell’organismo, cediamo all’inganno dell’immortalità. Ma rimuovere dai nostri paesaggi interiori l’esistenza della finitudine e della morte significa anche occultarle al di fuori di noi quando esse abitano le persone che ci circondano: distogliamo lo sguardo davanti al vecchio o all’uomo che è al termine della vita. Inguardabili, quindi resi invisibili, quindi non pensabili e non narrabili. Infine non “curabili”. Perché nella semantica di cura sono reperibili diversi orizzonti di senso: per curarsi di qualcuno occorre esperire interesse, occorre un moto passionale. Per curarsi di qualcuno occorre pensarlo. E ancora non c’è cura se non c’è possibilità di riconoscere la debolezza e la fragilità.
Farfalle di Dio ci pone senza veli di fronte alla radicalità del limite, alla difficoltà della separazione per chi va e per chi resta, allo scandalo della morte. Ma ci pone anche di fronte al valore di pensare la vecchiaia e la morte per inscriverle in un orizzonte di senso.
Rimbalzano nel libro due mondi emotivi: chi vive l’esperienza e chi accompagna in un colloquio muto eppure urlante che esplora, indaga i rispettivi territori dell’anima. Padre e figlia si trovano così a condividere l’intimità del dolore che non risparmia ad entrambi emozioni forti come la rabbia, la tristezza, la disperazione. Eppure sono l’amore e la vita a vincere, perché sono l’amore e la vita a tessere la trama dell’ascolto attento, del sentire di figlia quel che il padre sente e viceversa.
È un libro per chi accetta la sfida di farsi disturbare, per chi si pone interrogativi di significato, per gli uomini e per le donne che sono padri, madri, figli e figlie. È un libro per chi ha scelto un lavoro di cura.
Nel lavoro di cura occorre essere capaci di un approccio estetico al sentire dell’altro per poter costruire ipotesi di comunicazione. Ma come essere sensibili alla sua esperienza quando io non vivo la sua esperienza? Questo può avvenire solo attraverso un esercizio immaginativo non del pensiero, bensì del sentire che si affina con la costante applicazione e diventa apprendimento proprio quando si avvicina al vissuto e all’interiorità dell’altro.
Anche la narrazione può aiutarci in questo percorso di apprendimento: di fronte a parole come quelle di Farfalle di Dio, non c’è scorrere passivo di pagine: le emozioni sono lì ed entrano dentro e lavorano, trasformano.
Per chi svolge un mestiere di cura le narrazioni, quando riescono a penetrare nei linguaggi dell’anima, diventano spazi e luoghi di ascolto interiore, eco sensibile di ciò che si vive quando si accetta il rischio di porgersi e declinarsi accoglienti verso l’esperienza della sofferenza e della morte dell’altro. Un modo per ri-pensare, per ri-sentire e anche per elaborare i propri vissuti. Un modo per avvicinarsi a quel luogo di cui Bateson diceva: “… occorre esitare ad entrare là dove gli angeli non osano entrare”.

Caterina Marsaglia

Angela Donna ha scritto un racconto che non ha nulla di prosaico. La narrazione è illuminata dalla vibrante immaginazione poetica della scrittrice e il movimento dei personaggi è teatralizzato in un canto amebeo, come accadeva nei contrasti d’amore di medievale memoria. Ma qui non si tratta di due amanti che si inseguono o si eludono. Al contrario, è un incontro ravvicinato tra il padre morente e la figlia che non riesce a contenere la pena che prova davanti allo scempio che l’estrema senilità produce sull’amato genitore. Il padre che fu marinaio, sta partendo per l’ultimo viaggio, a bordo del suo letto da infermo, come nave ormeggiata alla banchina del porto. E su quella banchina, c’è ancora una volta l’adorata figlia, che gli porta le medicine al capezzale, e che lo invoca e lo vezzeggia, come tante altre volte aveva fatto nei precedenti viaggi, nei momenti della vita festosa, ma che ora fa nel momento della pietà. Sono pagine in cui la tensione non cala mai; c’è un canto fermo che è un acuto continuo, e che non ha nulla a spartire con le cantilene funerarie. Piuttosto, in modo sorprendente, c’è una solare intensa e dolce celebrazione della vita che si sta spegnendo nel padre, c’è la composizione della dignità del morituro, che si congeda eroicamente, pur nella miseria del suo stato d’impotenza, ma che, illuminato dall’amore della figlia, appare bello e tragico come Ettore sotto le mura di Troia, quando stanco di scappare, si volge verso Achille per abbracciare la morte a lui decretata dagli dei. Non è dato scappare alla finitezza della vita; nessuno ci riuscirà, per quanto si sforzi di procrastinare il momento con la fuga o per quanto cerchi di cancellare le avvisaglie della vecchiaia incombente. La vecchiezza, così tetra e deforme come ci appare descritta dai classici ed in genere dagli autori del passato – che per lo più manifestano commiserazione, orrore e talvolta anche disprezzo verso gli anziani – appare meno tragica e meno crudele agli autori della modernità. Alcuni scrittori moderni, infatti, hanno avuto il coraggio di fare una scelta un tempo assolutamente improponibile, cioè di prediligere un uomo in tarda età per il ruolo dell’eroe protagonista, come accade nel celeberrimo romanzo di Hemingway, che individua nel più annoso pescatore del villaggio, già evitato da tutti a causa del suo attemparsi, l’eroe che ingaggerà la lotta solitaria con il gigantesco pesce spada, e che ne uscirà vincitore. Ciò non significa, tuttavia, conciliarsi con la vecchiaia, ma semmai spostare il suo inizio più avanti negli anni. Del resto, la conciliazione con l’ultima età della vita non è mai possibile, né è mai augurabile, per alcun essere umano. Ho letto la migliore definizione sulla condizione dei vecchi nei racconti di Cechov: la vecchiaia è triste non perché cessano le gioie, ma perché finiscono le speranze.

Sandro Gros-Pietro

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