INTRODUZIONE

Si percepisce immediatamente, alla prima lettura, in Figli del vento di Giuseppe Ruggeri, insieme con il tono inconfondibile di una voce poetica nuova, suadente, modulata dentro un ricchissimo caleidoscopio di ritmi, immagini, colori, la limpida vocazione dell’io poetante a trascendere i dati della greve realtà quotidiana (pure squadernata nella sua atroce invadenza) e i limiti della nuda psicologia individuale, nel tentativo inesausto di andare oltre l’apparente e il déja vu, alla ricerca di ciò che è proprio dell’uomo: quell’anelito di infinito – si direbbe – che lo eterna, di fatto.
Una poesia come illuminazione, quindi, e come percorso privilegiato che consenta il recupero dell’armonia primigenia di corpo-anima, creatore-creato, uomo-natura (variamente mortificata da certa scomposta modernità), nonché la valorizzazione dell’amore, della pace, della solidarietà, in opposizione netta, inequivoca alle logiche dilaganti della tecnologia, del dominio, della violenza, della guerra e dell’asfittico materialismo.
Una poesia del tutto avulsa, per conseguenza, da ogni idoleggiamento dell’Io ed immune, nel contempo, da intenti consolatori o parenetici o meramente politici.
Poesia – alla fin fine – come ricerca del senso della vita e del mondo: ricerca giammai esaurita, peraltro, ma perenne, sempre operativa, dal primo all’ultimo verso: ricerca che continua, incredibile dictu, nell’atto stesso in cui si fa poesia.
E ciò – si badi – nei modi musicali, armonici, carezzevoli offerti dalla tecnica compositiva più scaltrita (l’accorpamento – spesso nuovo, originale, inedito – di nome e aggettivo; il ricorso abituale alle forme speciali dell’allegoria e del simbolo, l’uso molto parco della punteggiatura, i frequenti enjambements, la valorizzazione degli spazi vuoti, il verso libero dentro strutture strofiche mobili): una poesia ugualmente distante, in effetti, da ogni ribellismo anarcoide novecentesco (di stampo prosastico o allusivo o frammentistico o criptico), e, nel contempo, da ogni supino ossequio alla retorica antica e moderna.
Certo, il giusto contesto cui tale esperienza poetica inerisce è quello post-ideologico e neo-spiritualistico del Terzo Millennio, nel quale si affermano, su vasta scala, urgenze salvifiche del pianeta (e dell’umanità con esso) nonché istanze mirate al superamento di antichi steccati (tra relativo e assoluto, tempo ed eternità, scienza e religione) e alla riproposizione, talora, in forme viepiù accattivanti, del messaggio cristiano.
La vasta raccolta si presenta, senza ombre di sorta, come un’opera perfettamente circolare, in cui le posizioni iniziali e quelle conclusive restano convergenti sul piano etico-cognitivo: una collana di perle omogenee ma cangianti, coordinate secondo il principio, già medioevale-dantesco, dell’armonia ternaria: diciotto sezioni, ognuna delle quali si apre con una lirica introduttiva in corsivo, cui segue un poema o poemetto costituito da nove (ancora un multiplo di tre) sezioni, per complessivi centoottanta componimenti (di cui diciotto introduttivi). Si direbbe, invero, che il poeta, perfettamente consapevole della fragilità sua e della condizione umana, avverta il bisogno di certezze, di stabilità, an­che di forme stabili e stabilizzanti: persino di quelle of­ferte dalla numerologia trinitaria del sacro.
Le singole sezioni del libro si succedono, invero, non secondo un processo lineare (da una posizione iniziale a una finale, evolutiva o involutiva che sia), ma seguendo, per l’appunto, un percorso circolare: quasi onde concentriche generate da nuclei tematici ricorrenti che, di volta in volta, si creano e si moltiplicano per approfondimenti e/o ulteriori illuminazioni.
Si possono, al limite, circoscrivere sei ambiti modulari dentro tale ardita architettura: il primo modulo, articolato in sette sezioni (Parole, L’ombra della caverna, False maturità, Stagioni, Respirando il sublime, La vita sospesa, E verrà giorno), raggruma, anticipandole mirabilmente, le principali componenti tematiche e stilistiche dell’opera (che vengono poi approfondite e rivitalizzate nei moduli successivi); il secondo comprende quattro sezioni (Catene, La legge del vento; Alfabeto, Cuore del mondo) ed esplora l’origine, la presenza, l’azione del «vento» nelle vicende umane; il terzo, costituito da una sola sezione, Donne, canta selettivamente l’amore che occhieggia peraltro in tutta la raccolta; il quarto (Il falso e il vero raggio, Pneuma) evidenzia, in ispecie, l’azione salvifica del «soffio» naturale-divino nella vita dell’uomo e del creato; il quinto (Apotema, E notte sia) ritorna sul tema onnipresente della «nebbia» (buio, morte) che insidia la via della salvezza, ma che prelude alla rinascita (in conformità con il ciclo eterno, immodificabile della natura); il sesto (Relicta, Figli del Vento) riprende i temi centrali dell’amore, della poesia disarmata ma eternatrice, del «vento», di Dio con toni profetici (Relicta) ed esplicita la posizione anti-mondana, quasi misoneistica, del poeta che condanna i «signori del fuoco e dell’acciaio» riproponendo, in alternativa, la solidarietà umana e la denuncia coraggiosa dei loro misfatti (anche quelli recenti).
L’asse portante della sontuosa costruzione di Giuseppe Ruggeri è, però, costituito dal mega-tema della circolarità-eternità del processo di vita-morteche determina ontologicamente la natura e l’uomo, il quale è difatti assediato, dall’«ombra», dal buio, da luci apparenti, dai falsi bisogni del potere, dalla morte, e sovente viene risucchiato nel caos, nel Nulla, secondo la dialettica sovrana di essere-non essere: la salvezza non dipende, certo, dall’uomo fragile e scisso tra spinte contrastanti; solo il «Vento», il soffio vitale e gratuito, la cui voce si percepisce – chi la sa ascoltare – nel momento del dolore e della sconfitta può ricondurlo alla luce, al bene, all’eternità cui è destinato ab aeterno: non c’è salvezza tuttavia al di fuori del processo morte-rinascita.
Non pare, perciò, azzardato considerare Figli del vento un miracoloso punto di incontro tra filosofia e poesia nel solco di istanze culturali attualissime. Talché potrebbe non essere velleitario riutilizzare, col permesso di Leopardi e di Antonio Prete, e senza alcuna velleità comparativa, la definizione di «pensiero poetante», per evidenziare, in estrema sintesi, il carattere specifico dell’attività poetica di Giuseppe Ruggeri che, muovendo nel solco della migliore tradizione post-ermetica e anti-ermetica (sono percepibili riflessi dei grandi del secondo Novecento, da Quasimodo, a Pasolini, a Sereni, a Caproni, a Zanzotto, a Turoldo), non dissimula la sua vocazione anti-lirica (anti-crociana) e, per converso, decisamente indagativa, costruttiva.

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Si veda come già nel primo poema della prima sezione (Parole) sia perfettamente adombrata, in forme luminose ed armoniche, l’eterna vicenda della «nuda presenza dell’uomo» che «tende» a «cieli / aperti […] / a cime lontane lucenti/ […] ad aquile di pensiero / […]», restando tuttavia «perplessa / se cogliere l’attimo come / insegna l’aurea mediocrità / o farsi afferrare dal guizzo / che supera qualsiasi barriera» / Perciò – senza soluzione di continuità – l’uomo «trascorre così nell’eterno / ondivago esserci e non esserci».
In questa importantissima sezione, c’è già, invero, come dicevamo, una prima epifania di motivi che verranno ripresi e diversamente lumeggiati in altre sezioni: quello della parola e della poesia libera da finalità mercantili («Ma non vendetele se no le parole / si vendicheranno e da semi / si muteranno in serpi»; (II); quello dell’amore e della donna che salva: «Tu mi hai dato la forza / per vincere ogni tristezza / e io la terrò in pugno / affinché non si spenga / lentamente / la mia voglia di essere» (IV); quello della vita incurante delle volizioni degli uomini e quello della «perduta gioventù dell’anima» dietro falsi bisogni (V); quella del dialogo tra le due parti antitetiche dell’io poetante e del «vento uguale / come un fiume privo / di correnti» che l’io poetante – la sua parte migliore – vuole «cavalcare» (poema IX).
Sin dall’inizio si appalesa, in altri termini, la dimensione anti-realistica della poesia di Ruggeri, riflesso diretto, a sua volta, della convinzione fondamentale del poeta, secondo cui il tempo e la volontà dei singoli non incidono più di tanto sulle vicende umane, giacché gli uomini, in un’ottica parmenidea prima che cristiana, sono spinti verso l’alto (il «sublime»), muovendosi tuttavia nel ciclo eterno di vita-morte della natura. È, dunque, il «vento» che «soffia dove vuole» (Giov. 3, 8) ad esercitare una funzione primaria e assoluta nella vita di ognuno. E ciò, oggi come ieri: nunc et semper.
Tale convinzione, che è anche un’assiologia, si dipana incessantemente, nell’opera di Ruggeri, alla ricerca – parrebbe – della forma più consona, in una miriade di soluzioni che sono tentativi di raggiungere, anche per questa via, l’Assoluto: la poesia realizzata, non mercificata è, in effetti, per il poeta messinese, una manifestazione dell’Assoluto. Quanto dire che il nesso tra significanti e significato si sbilancia, sulla pagina, a vantaggio dei primi: non è raro che il significante (le immagini, i simboli, le metafora) surroghi il significato, invadendo pressoché completamente il testo. E intanto, la forma mutevole, cangiante dei poemi salva la raccolta da certa fissità che ogni sincronia comporta, di norma.
Nel bellissimo poemetto di quattro quartine di endecasillabi che apre la terza sezione – False maturità – il treno diventa, per esempio, metafora della vita («False maturità macina il treno / della vita costretto a zigzagare / tra scambi e raccordi per lo più impensati / vigilati da mura impenetrabili.»): un treno che va senza sapere dove, incosciente come la vita stessa quando si è giovani o distratti da mille «false maturità», appunto. Nel terzo poema, il treno diventa un «natante» (un «guscio»), incerto se starsene nel porto della sicurezza e dell’inerzia o affrontare il mare aperto. Nel quarto poema, c’è uno sguardo limpido, impietoso sui pavidi che temono di avventurarsi nell’ignoto: «spingersi oltre si sa / rompe equilibri consolidati / che tornano utili al consenso / perché il mediocre è garanzia / di pavida inerzia […]». Le conseguenze dell’inerzia sono nel quinto poema: «E nulla fermerà la furia / acefala incontenibile / che sconfinando risale / verso cime nebbiose […]». Solo Dio («Ma Tu verrai») ha salvato il poeta e salverà l’umanità, come canta il nono poema.
Gli errori giovanili del poeta («Ero giovane e avevo unghie lunghe / e aspetto truce da bullo di strada») e le seduzioni del successo ritornano in Stagioni, quarta sezione del libro, insieme con la gioia per rinascita alla luce, dopo il dolore.
E così – per andare molto velocemente – nel settimo poema della V sezione, Respirando il sublime, risuona il giusto orgoglio di avere «rotto gli argini / in tempo per accorgerci di noi / del progetto di cielo / sotteso al vento dell’anima / allo strepito dei sensi. // Abbiamo stretto in pugno / – afferma con orgoglio il poeta – l’infinito nel fulmine d’istante / che precede la resa / del donarsi senza condizioni». Dove non si può non ammirare, tra l’altro, la perfetta alternanza di settenari ed endecasillabi. Incantevole è il nono poema della stessa sezione: «Perché il nulla e il tutto convergono / nell’aurea sezione che unisce / i poli opposti del tempo / sommessi alla forza incessante / dell’eterna creazione»: «pensiero poetante»?
Lo sfacelo prodotto nel mondo dai «viaggiatori del nulla», dai «venditori di fumo», da «un potere senza nome né storia / che mise radici profonde /nel cuore della gente» ritorna, perfettamente iconizzato e con accenti d’invettiva biblica, nel primo poema della sesta sezione – La vita sospesa – insieme con l’avvento, però, di «un manipolo» «d’increduli […] sparuti» che «sempre più crebbe all’ombra e lentamente / si fece largo tra sterpi e miserie / e aprì menti chiuse a più mandate / dal catenaccio di quella paura / […] e la vita ritornò a splendere / sulle macerie di quel vago passaggio». È il meccanismo tipico della sincronia ideale che è sottesa ai convincimenti e alla poesia di Giuseppe Ruggeri: il male c’è – eccome – nel mondo, ma il bene può trionfare, se non ci si lascia travolgere dal pessimismo, dal disfattismo, dalle logiche del successo mondano e dalla paura imposta dal potere.
Una delle tante perle poetiche della raccolta è nel secondo poema di questa sezione («Non chiedetemi / di stare lontano dai sogni / perché la realtà vera è sogno / postilla d’infinito al libro / che tutti noi scriviamo»), la quale si chiude con una nuova palingenesi, nel nono poema, dopo il superamento di mille tranelli: «E correre vorremo nei prati / quando si sarà sciolta la nebbia / bevendo dai petali dei fiori / la pioggia caduta a fiumi. La paura / sarà solamente un ricordo / un’ombra sfibrata».
Ne discende il tono profetico della sezione successiva – E verrà giorno – che sigilla, già nel poemetto introduttivo, questa prima parte del libro: «Sparate pure nelle piazze deserte / tanto non ucciderete il cielo / le sue nuvole gli faranno da scudo / e i canti a stormo degli uccelli /copriranno il rumore dei fucili».
Nei moduli successivi della raccolta, riappaiono, come dicevamo, in forme viepiù sorprendenti, i temi centrali della poesia di Giuseppe Ruggeri.
Il secondo modulo esalta, in particolare, nelle quattro sezioni che lo compongono, la potenza del «vento», con riferimenti espliciti alla personale esperienza del poeta.
Si veda come, già nel poemetto introduttivo della serie – Catene – si espliciti la profezia: «Ma non chiedere avrai / quando e se vorrà il vento / che il tuo vessillo logoro / fa ondeggiare nell’aria. // Le catene del cuore / sono stracci di tempo / che tappezzano la tua anima / in bilico sul ciglio // dell’infinito». L’assunto viene egregiamente confermato nel nono poema della sezione: «Sulla tua fronte perle di dolore / asciugherà quel vento / che ha ali di gabbiano e tocco di madre / uno stantuffo il cuore / nel suo ultimo viaggio verso il sole. / […] Un vento senza nome».
Quindi, il poemetto introduttivo de La legge del vento ribadisce: «Quando il sole si oscura / e l’ombra cresce dietro le tue spalle / non cercare risposte nella nebbia / dei tuoi pensieri non le avrai / chiedile al vento».
In questa sezione e nella successiva – Alfabeto – si accentua, invero, la dimensione autobiografica dell’io poetante che ritesse le sue esperienze dolorose e fallimentari di uomo e di poeta, rilevando tuttavia di avere trovato, sulla scorta del «Soffio» vitale, la strada giusta: «E risalii – afferma nel poemetto introduttivo – il fiume controcorrente / come un salmone avido / di nuovi pascoli // per saziare la sua fame d’immenso». Egli stesso recupera, nel primo poema della stessa sezione, in forme di smagliante nitore, il tema della poesia (personificata come illuminazione e tramite di salvezza), che volò via dopo un suo rimprovero: «Ma quando finalmente aprii gli occhi / vidi che aveva lasciato al suo passaggio / una scala di luce che univa / cielo e terra come un arcobaleno. // E cominciai a salirla».
In Cuore del mondo, infine, il «vento» prende le fattezze di un «angelo» che è «venuto a salutarci da oriente»: «si è fatto strada / tra cocci di vetro e ciottoli di mare / seguendo il passo / dei nostri sogni di bambini. // Perché il cuore del mondo / stoffa di quei sogni / non ci abbandona mai, / anche se crediamo / di poter fare a meno / del suo battito lieve / come ala di farfalla / che guida i nostri passi // verso un nuovo mattino». E ci si consenta di sottolineare la flagrante bellezza di questo poema introduttivo della sezione, che costituisce, in effetti, una perla luminosissima tra mille altre della raccolta.
Il terzo modulo è costituito da una sola sezione – Donne – riservata selettivamente all’amore: «Le donne sono l’ar­cobaleno /[…] – dice il poeta nel poema introduttivo – sono il frutto che spacca / la scorza sul ramo/ per bere a sorsi la luce // di un eterno mattino». Amore come supremo punto d’incontro tra uomo e natura, in altri termini. Basti ricordare il poema VII della stessa, in cui la donna dormiente, accarezzata dall’occhio del poeta nella sua corporea, «morbida» bellezza, è parte integrante del paesaggio naturale – il giorno nascente, il sole – che la circonda: «Dormivi nell’onda leggera / di lini e lenzuola sconnesse / in fronte il raggio incipiente / del giorno che invade la stanza / violando la cifra scomposta / di tanta bellezza. // E io guardo / il sole che cresce e rischiara / il morbido ventre flessuoso / le braccia le gambe le foglie / del tuo albero in trepida attesa / di un nuovo prodigio d’amore».
Nel quarto modulo, ritornano altri due temi significativi della poesia di Ruggeri: quello della salvifica presenza di Dio e del suo «Soffio», in Il falso e il vero raggio («Sei la mia vita e la Tua è vita vera / cenere che torna fiamma mosaico/ di cellule assemblato con pazienza / dal Soffio che ha dato forma al tempo»), e quello del «vento di pace / che hai ripreso a soffiare / sull’incendio dell’anima», agli occhi di Dio «che non mi hanno mai perso di vista / come il figlio una madre», in Pneuma.
Laddove il dualismo nebbia-vento come essere-non essere si riaffaccia, con immagini di forte presa emotiva, in Apotema («E saremo vento / che spazza ogni nuvola / occhi di Dio / che ricrea il mondo // dalle sue stesse ce­neri fumanti»), e, con la stessa forza espressiva, nel­la contigua sezione E notte sia: «Ci sarà pure un riflesso / un’eco sottostante / che continuerà a pulsare / oltre il muro di nebbia / che divide ogni uomo / dal suo tempo di ghiaccio».
L’ultimo modulo bipolare (Relicta e Figli del vento) è la giusta σϕραγίς della straordinaria architettura poetica messa su, con passione e maestria, da Giuseppe Ruggeri. Ci limitiamo, per evidenti ragioni di spazio, a segnalare, in Relicta, la limpida, antiretorica espressione della fede, nonostante tutto, del poeta («Oltre al cielo e al mare / e alle stelle che bucano l’infinito / un Padre o una Madre non so / ci ha donato angeli / per guidare i nostri passi») e il repentino, quasi discorsivo taglio del suo anti-relativismo («non dimenticarti che tutto ha un senso / anche il caos primigenio dell’inizio»). Ma non possiamo non rilevare, in Figli del vento, almeno la vibrante denuncia della cruda attualità politica – forse, l’occupazione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin e la disumana guerra che ne è seguita – come estremo attentato dei «viaggiatori del nulla», di «un potere senza nome né storia», dei «signori del fuoco e dell’acciaio», che hanno causato nel passato e causano oggi distruzioni, dolori e morte, ma che «non hanno spento il vento». Donde, l’alto ammonimento del poeta: «Non profanate altre tombe / signori del fuoco e dell’acciaio / il silenzio dei morti / è il loro inno di vittoria // su ogni vostra indecenza». Nel commiato, il poeta stesso risentito e offeso afferma, infine, con ritmo incalzante, la sua prossimità – che diventa immedesimazione – alle vittime e con le vittime: «Non tacerò su quanto avviene / nel tuo mondo perché quel mondo è pure il mio / […] Quelle braccia che stringono un bambino / quelle gambe che corrono via / quel cuore che batte all’impazzata / mi appartengono fino al midollo / e nessuno potrà mai convincermi / che la tua guerra non sia anche la mia».
Poesia. Vera poesia, se la poesia sopporta aggettivi. Prenderà il volo.

Giuseppe Rando
Professore Ordinario di Letteratura Italiana (già UNIME)
Scuola Superiore Mediatori Linguistici REGGIO C.