PREFAZIONE

L’intreccio delle poesie di Giovanni Chiellino si muove oltre una linea di frontiera immaginaria e astratta che separa il sogno dalla vita, in una proiezione di cerebralità, quindi, che allontana il discorso poetico da ogni enfatismo lirico, da ogni compromissione emozionale ed emotiva, da ogni connubio troppo facile e troppo scontato con il fascino di suadenza delle belle lettere e delle parole magari innamorate di sé ed arpeggianti, in aggiunta, richiami e citazioni e rimandi leziosi: al contrario, Giovanni Chiellino impone un rigore asciutto e scabro alla parola poetica cui conferisce un abito di moralità e di eticità espressiva anche severo, di aderenza e di precisione linguistica, di nettezza e di pulizia del segno, proprio in quanto – questa parola poetica – viene spinta a muoversi in un territorio con un’identità intellettuale e con un certificato anagrafico tutt’altro che pacificamente riconosciuto, oltre una frontiera di cultura che porta in sé le cifre – non ufficialmente autorizzate – dell’indagine scientifica da un lato e della rilevazione poetica dall’altro lato. Ne derivava, allora, l’illustrazione di un cosmo in cui si muovono ansie e nostalgie come fantasmi cerebrali rielaborati dal pensiero poetico al di là della vita e al di là del sogno eppoi descritti nei loro lucidi, ordinati, cristallini e inquietanti interrogativi, espressi con un composto galateo di enigmi, per altro irrisolvibili:

Battito lontano
nel profondo scorrere del giorno
hai brillato un attimo
sul muro della notte,
ma la conchiglia non si è svelata,
la porta non ha cigolato
sui cardini duri dell’ignoto
curvati siamo rimasti
sui gradini della vita
e abbiamo battuto timpani di sogni
credendo di risolvere,
invitati al giuoco, l’enigma
che scorre fra le ciglia,
ma il tempo si è inginocchiato
sui nostri occhi, il vuoto
è caduto sulle labbra.

Gli enigmi principali che muovono il discorso poetico di Giovanni Chiellino sono il tempo, la morte e la donna, quest’ultima avvertita e descritta nei suoi due fondamentali ruoli assegnatele dalla storia, quello di madre e quello di compagna dell’uomo. Nel richiamo di questi enigmi si collocano le descrizioni dei momenti e delle occasioni della vita – di cui è fittissimo il testo – talvolta quotidiane e a noi vicinissime talvolta, invece, costituite da ricostruzioni trasognate, allucinate eppure lucide – di miti della storia o di civiltà scomparse, come è nella composizione Nurago di S. Antine. E s’accampa, così, un presepe epifanico di personaggi e di situazioni umane, per lo più senza un volto e senza un nome ben definito, ma con una loro ben precisa calligrafia espressiva della propria fatica, luminosa ed inutile, di esistere e di resistere, erosi dal tempo, graffiati dalle ansie, inquietati dai troppi interrogativi cui non sanno e non possono rispondere, e sempre pervasi da un sentimento tenue e nobilissimo di nostalgia. Proprio la nostalgia è, in Giovanni Chiellino, il sentimento umano più studiato e più artisticamente rielaborato, fino a giungere a modo espressivo del suo pensiero poetico. Non sarà solo nostalgia di un’impossibile serenità casalinga, come in Profumo di caldarroste; non solo nostalgia della natura, anche nominalisticamente invocata di frequente nel testo con appelli linguistici alla betulla, al calicanto, al bosso, all’oleandro, al cormorano e via di seguito; non solo nostalgia di un desiderio impedito di fuga e di viaggio e di continua ricerca di un altrove per viaggiatore mitico, come in Il gabbiano ferito; non solo nostalgia del mito della caverna di Platone – più propriamente definita tana, con una riduzione familiare, ma più intricante l’ulteriore nostalgia del ventre materno; ma è, anche e da ultimo, nostalgia de l’ora del pensiero alto, e, quindi, di una pienezza appagante e serenatrice del metafisico e di un vagheggiamento della suprema e definitiva luce solutoria degli enigmi che né l’inchiostro dello scienziato né quello del poeta potranno mai compiutamente esplicare.

Sandro Gros-Pietro

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