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Autore: Carlo Mosca
Editore: Genesi Editrice
Formato: libro
Collana: Le Scommesse, 455
Pagine: 96
Pubblicazione: 2016
ISBN/EAN: 9788874145362
Aforismi, pensieri e riflessioni
Prefazione
Nell’avventura letteraria compiuta da Carlo Mosca riecheggia il nomadismo del popolo Jenisch che pur essendo sostanzialmente errante da un luogo all’altro finisce per risiedere principalmente in Germania, poi in Svizzera, Francia, Polonia e in qualche altra rara zona, ma si tratta comunque di un’etnia fedele a sé stessa e alla sua patria errante, che in verità trova collocazione in spazi e tempi bene individuati negli archivi della memoria demografica del vecchio continente. C’è, tuttavia, un’urgente istanza di libertà e di accettazione che anima la cultura Jenisch, la stessa che emerge nell’opera della poetessa Mariella Mehr, poetessa che ne rappresenta la voce collettiva, citata da Carlo Mosca: è una poesia di denuncia del furto della vita patito ad opera degli Enfants de la grande-route, che per anni perseguitarono gli zingari svizzeri, con il falso alibi di prestare loro soccorso, fino a spossessarli della facoltà di autodeterminazione e talvolta anche delle libertà fondamentali dell’uomo.
Carlo Mosca prende spunto dalla sensazione di soffoco di un intero popolo zingaro votato alla libertà per costituzione sociale e per tradizione culturale, per sigillare la sua poesia votata alla ricostruzione autobiografica del suo percorso di Homeless, letteralmente di vagabondo, senza una terra come referente di orientamento. Tuttavia, i suoi percorsi compiuti sono bene tracciati: “Calabria, Sardegna e l’amata Umbria / come culla di giovanili crescite, / l’istinto che fa scegliere fra errori / e conferme, la notte per sentirsi / parte di un cielo stellato, pietre / a fossilizzare forme di vita. // Una purezza di pensiero e la ricerca / del bello e del giusto per fuggire / da “LORO” di Witkiewicziana memoria”. Il poeta e filosofo polacco Stanisław Witkiewicz morì suicida per un impeto di eroismo civile vissuto come reazione alla perdita della libertà del suo popolo invaso dalla Wehrmacht di Adolf Hitler nel 1939. Mosca condivide con lo scrittore polacco anche l’endiadi creativa delle due arti, essendo entrambi poeti e pittori, ma più di tutto ne condivide la “purezza di pensiero e la ricerca del bello e del giusto per fuggire da LORO”. E quel “loro”, bene si sa, sono gli uomini-massa che, nell’analisi del poeta e pittore polacco – e quindi anche di Carlo Mosca – hanno perso ogni dimensione di cultura sgretolata dalle lusinghe del consumismo, dopo avere già assistito alla morte della religione e della filosofia.
Carlo Mosca evoca due condizioni che hanno caratterizzato la letteratura del novecento, quella del disagio dell’intellettuale, rappresentato dal “male di vivere” espresso da Montale negli Ossi di seppia e quella del tedio per la vita borghese, fatua e superficiale, rappresentato da Moravia nel romanzo La noia: “Oggi calpesto pozzanghere / di noia, io povero di successi / cogli occhi di un mondo / smarrito, la mia ora d’aria / ridotta a deboli minuti. / Nuovi orizzonti piatendo / per noi figli di una antica / bellezza quando continuiamo / a scegliere tanti barabba / solo perché a noi simili, / noi che piangiamo Cristo / una volta l’anno”. In questo panorama di desolazione morale, spirituale, religiosa e culturale, il Poeta cerca – “fra cuore e ragione” – di ricostruire “invano” la nozione di un “noi resiliente”, cioè di un ideale civile di collettività capace di resistere alla realtà dei fatti, che è in continuo degrado e svilimento.
Nell’evocazione del sogno, della fantasticheria, dell’immaginazione di un lontano passato nel richiamo alla memoria di un tempo poeticamente “antico” nel corso del quale, in luogo della noia, c’era “stupore invece negli occhi del mondo / quando avvinti ballavamo bianchi / arabeschi disegnando”, il Poeta ritrova intatto il piacere trionfante del suo viaggio dentro la vita: “medesime sembianze, dignitosa e altera, / sangallo e timidezza, nel cuore la speranza. / Questa notte in sogno t’ho incontrata / e nel ricordo ti chiamavi giovinezza.”
Si apre una galleria di ricordi nella quale hanno una collocazione prediletta “tanti volti / di donna espunti da stagioni di vita”, che tuttavia appaiono come “volti nel museo della vita che danzano / inutili, consunti e tenaci, strappati / al silenzio degli occhi”. Il nastro della memoria si svolge nella proiezione di scene di vita contrassegnate dalle dita che sorreggono la penna e il pennello, “fantasmi in successione nella piega / di un verso catturano carezze e nepente / per accendere colori fluttuando nel vento”. Così Mosca può fare da eco a Neruda che scrive il libro Confesso che ho vissuto, e noi leggiamo di converso, “Ho molto vissuto nel bianco della mia solitudine / in attesa di conoscere la vita degli altri / […] / Ho molto vissuto piacere e dolore, bagnato / di sole a navigare indizi d’amore / e sentimenti d’esilio d’oro vestito”. Ma presto il volo della memoria prende coscienza della latitanza delle mete e della gratuità del viaggio: “vestito di vetro, lontano il tempo / del mare, granelli di sabbia dilatano / un’anima stanca dai mille “perché?” / […] / Per noi annegati nel festival dell’ovvio”.
Si fa strada allora la possibilità di avviare una gioiosità della mente, per costituire una “trincea circolare” e costruire dal nulla due stampelle: “il bianco del silenzio a rinnovare / cose e persone. / […] / La realtà dunque e il suo apparire, / vibrazioni tra esistere e non esistere”. E il gioco diviene anche una dissoluzione delle identità, “Io sono non chiedetemi cosa / la porta aperta / la porta chiusa / la vita del mio tutto / perché tutto proviene da un soffio / di non so cosa, evento improvviso / o vento cosmico a sollevare / polvere di stelle”. Le voci della contemporaneità irrompono nella trincea circolare e si impongono con l’orrore della violenza, “Ha ridotto ormai l’autunno l’arco / del sole e mutevoli pensieri come / panorama di nuvole al soffio / di maestrale diradano. / Aprire allora un varco tramite una pausa / assoluta: trasparenza e dissonanze altre / voci incombono al confine della voragine. / La pietra è luce rappresa e la collera / del vento scompiglia l’ordinata natura. / Arabeschi di genti in fuga da guerre, / fame e il nero del mondo che impera / a nutrire l’orrore. // Anime alla deriva delirano un baratro / di sangue”.
Anche i viaggi nel tempo, che la poesia consente di fare si rivelano essere “un elastico contaminato” e c’è un’indifferenza (adiaforia) nell’economia complessiva con la quale il tempo istituisce i suoi trompe-l’œil di realtà ricostruite dalla mente, che sono attimi depleti, che si sgonfiano e perdono di vigore, “appena avvertiti perché / il tempo è solo l’inizio di una fine”. Tutto si trasforma in cenere, nel colore giallo della nevrosi, sullo scenario espressionista della poesia si compongono le immagini della morte, “aspersorio e turibolo intorno alla bara / e un mormorio di preghiere s’innalza / fra le grigie navate. // L’officiante / rivolge ai parenti opportune parole / e lenta una processione si forma / a giustificare il cambio di domicilio. // […] il corteo / si assottiglia e la quotidianità / riprende il sopravvento. / AMEN!”
Si compone, allora, l’immagine caravaggesca, di luminosissima oscurità e di luce iperreale, di una delle più belle rappresentazioni poetiche moderne della senescenza, che richiama alla mente i quadri capolavoro di Angelo Morbelli sul Natale al Pio Albergo Trivulzio di Milano, “I vecchi del villaggio si radunano / a sera per ricordarsi di essere vivi. // I vecchi del villaggio parlano / di cose più grandi di loro, / commentano ricordi e fatti / del giorno, esibiscono idee / coperte di muschio, lo stesso / che hanno alle tempie. / Seduti su scomode panchine, / nella hall di stazioni, al caldo / dei bar, nei supermercati o /al fresco nei parchi estivi. / L’ordito di parole che si / assommano e sovrappongono serve / a nascondere défaillance e / inquietudini, un fuori e un / dentro, vecchie figure approssimate / di saggezza senile. // I vecchi del villaggio si radunano / a sera in attesa di far coincidere / lo spazio e il tempo.”
Si giunge così al congedo di questo splendido poema di Carlo Mosca, Giallo cenere, scritto in forma di una silloge composta da più “stanze” autonome di poesia, eppure concepita come visione organica di un’allucinazione disperatamente gioiosa e luminosamente cenerina, il cui finale è quel gran volteggio autunnale di foglie che non solo richiama Walt Withman, specie l’ultimativo saluto del vate statunitense So long!, ma ancora di più sommuove nella memoria la Sibilla Cumana cantata da Dante nel Canto XXXIII del Paradiso e poi rappresentata da Michelangelo nella volta della Sistina (scrive Dante “Così la neve al sol si disigilla / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla”), e scrive Carlo Mosca, sul tema dello scialo entropico della sapienza e della conoscenza umana attuata anche attraverso la poesia, i versi bellissimi che vale la pena di citare per intero, “Lente volteggiano foglie d’autunno / e raggelati pensieri ai piedi / di stanca esistenza timidamente / inaugurano il nuovo giorno. // Il rosso, il giallo, l’ocra / e l’arancio di foglie moribonde / abbandonano robusti rami / a sillabare tramonti. // Lente volteggiano foglie d’autunno / fra castagne e vino novello, / cultura del cibo e agroalimentare, / sapienza a nobilitare un novembre”.
La poesia di Carlo Mosca è un’affascinante interpretazione e decorazione dello spettacolo inesauribile della vita, più votata a fare emergere i panorami dell’anima dell’uomo metropolitano, tra slanci di avventura letteraria in chiave orfica e repertori descrittivi di momenti iconici della quotidianità ordinaria, con una tensione di metafora sempre tesa come la corda dell’arco che scaglia la saetta al di là del banale e dell’ovvio per raggiungere l’obiettivo incerto di una verità superiore sottaciuta e sovente contraddetta. Il nitore della composizione, sempre asciutta e tirata a lucido, conduce con efficacia il pensiero lungo i cieli e gli abissi dell’intreccio poetico, orientato alla ricerca di un messaggio di ricapitolazione e di rinnovo delle speranze dell’io protagonista, autentica icona bene rappresentativa della condizione condivisibile da tutti i poeti di attualità.
Sandro Gros-Pietro
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