Prefazione

Non poteva mancare l’haiku nel vasto campo d’impegno di Edith de Hody Dzieduszycka, poeta, scrittrice, pittrice, fotografa, la propensione a superarsi, a procedere verso il diverso. Si può pensare che da occidentale, più o meno inconsciamente, la Dzieduszycka sia stata attratta da un Oriente da integrare nel proprio immaginario, con l’adozione di una forma metrica per molti versi estranea alla nostra tradizione; per quanto, in Occidente, poeti del calibro di Rainer Maria Rilke, Ezra Pound, Jack Kerouac, Paul Eluard, Jorge Luis Borges, Paul Claudel, Antonio Machado, Giorgio Seferis, Allen Ginzburg, si siano anche espressi nell’haiku, e in Italia, tra gli altri, Sanguineti e Zanzotto, né dimentichiamo gli influssi dell’haiku sulle icastiche poesie di Ungaretti. Molti poeti, dicevo, negli USA, in Canada, in Sud America, in Europa, in Africa… Tuttavia, oltre l’invincibile attrazione verso l’esotico o l’altro da sé, ci chiediamo ancora perché la Dzieduszycka abbia composto haiku, seppure, in tutta evidenza, pur nel rispetto delle diciassette sillabe, su una soglia di consapevole eresia. La risposta ci proviene forse dal titolo Haikuore: ella ha avuto “cuore” di farlo. Quale migliore giustificazione per cimentarsi in un genere, anche oggi, controverso?
Salta subito agli occhi come la parola cuore, già nel titolo del libro, diventi “Kuore”, forse anche per attenuare l’effetto sentimentale del termine; per altro la stessa Dzieduszycka, in un colloquio telefonico intercorso tra noi, mi ha detto che la parola cuore, inflazionata com’è, non rientrava ormai più nel suo vocabolario poetico. Non ho difficoltà a pensare che un poeta dallo scaltrito e consolidato percorso, che risale agli anni sessanta – ri­cordiamo, a conferma, un premio da lei ricevuto nel ’67, quando ancora lavorava al Consiglio europeo, e la de Hody aveva pubblicato solo su antologie – non poteva non rendersene conto. “Kuore”, dunque, è sempre presente nei titoli delle sei sezioni in cui si suddivide la raccolta e il termine, con la K, ci riconduce al gioco ironico, dissolutivo del canone, che presiede alla composizione di questi haiku e lo connette in qualche modo all’orizzonte anticanonico, anticonfuciano, più vicino al taoismo e alla istintualità eversiva del popolo.
La suddivisione in sezioni della raccolta non è tanto per distinguerne estrinsecamente le parti in oggetto, piuttosto è funzionale a percorrere un sinuoso, labirintico itinerario. Solo in apparenza, quindi, la raccolta ha un inizio e una fine; infatti possono ingannarci i titoli della prima e dell’ultima sezione – Haikulla, Haikulmine –, indurci a pensare a un percorso rettilineo. Ci sarebbe qualche motivazione, non so se consapevolmente perseguita dalla Dzieduszycka – l’inconscio, a volte, è più oscuramente sapiente della coscienza – di collegarsi all’hun-tun (cinese), al caos e al “vuoto”, cifra del Nulla, come all’originario del percorso buddhista-taoista. L’uso della sincope nei titoli, denota, comunque, una procedura compositivamente emblematica dell’haiku, che va per concentrazione e sbalzi semantici ed emotivi. La Dzieduszycka ora innalza ora abbassa, anche allusivamente, il tono: in Haikulto, si esalta l’haiku e la sua forma più tradizionale; Haikuculo è dedicata maggiormente agli animali; nella sezione Haikurva è ancor più accentuato l’intento di torcere il linguaggio verso la dissoluzione ironica.
Ma seguiamo più da vicino e analiticamente le diverse sezioni… La prima, Haikulla, è di poesia e metapoesia; cioè, l’autrice concepisce degli haiku volti alla ri­flessione sulle procedure compositive dei versi. Questa propensione all’autocoscienza corrisponde al condizionamento intellettualistico, (discorso sul metodo) molto francese, direi cartesiano, di riflettere sulla propria arte mentre la si produce. Non mi pare si possa ritrovare un simile atteggiamento nell’haiku giapponese. Il concepire testi metapoetici in poesia appare come una costante di altre opere della Dzieduszycka: La parola alle parole; Lingue e linguacce; Cinque + cinq… Se, così facendo, la poeta mette a fuoco il laboratorio della sua scrittura, per sé e per gli altri, qualcuno potrebbe obiettare che in questo caso non fa propriamente haiku, per quanto, ed è per me indubbio, ella faccia poesia, e questo dovrebbe bastare.
Secondo Roland Barthes, ne L’empire des signes (1970), “l’haiku non descrive mai, è antidescrittivo”; scrive: “l’haiku non è un pensiero ricco ridotto a una forma breve, ma un evento breve che trova, tutt’a un tratto, la sua forma esatta”. Quindi, per questa sua esattezza, non dovrebbe a rigore essere ricondotto alla poesia di frammento, ha una sua completezza, per quanto ossimorica e paradossalmente asintotica.
Oscillazioni, dispersioni, recuperi improvvisi e ancora dissoluzioni ironiche, un percorso complesso e quanto mai problematico è quello della storia dell’haiku; evidentemente la Dzieduszycka ne è consapevole se sembra, nel suo libro, voler ripercorrere una storia come vicissitudine e itinerario verso un culmine. Certo ella oscilla sulla soglia di una tradizione occidentale che la possiede e di una orientale che la attira; affacciandosi su questo nuovo orizzonte, eccola a volte calamitata, come irretita dal groviglio di sempre mutevoli forme. Edith Dzieduszycka tuttavia non ricerca alcuna pacificazione nel vuoto dello zen, perché sta sospesa sulla soglia del silenzio e del nonsense, per cui questi haiku sembrano proporre per un verso un itinerario più profondo, non so quanto vicino allo zen, per l’altro sono una declinazione postmoderna, di qualità tutta personale, disincantata e originale.
Se ritorniamo indietro e percorriamo più analiticamente la raccolta, con citazioni dei suoi versi, per prima cosa dobbiamo ancora insistere sul rapporto tra poesia e metapoesia. 
Leggiamo alcuni di questi suggestivi testi:

          Pozzo profondo
          fucina d’haiku
          folta salto nel buio

          Una scoperta
          può cambiare la vita
          basta provare

          Senza eccezione
          sillabe diciassette
          né più né meno

          Ne va studiato
          il meccanismo oscuro
          ci vuol pazienza

          Partenza cinque
          poi sette  infine cinque
          angusta gabbia

Come si vede qui si stabilisce un costrutto a Renga, non tanto per rispettare l’antica tradizione, quanto per consentire l’evasione formale da ciò che la Dzieduszycka stessa definisce “angusta gabbia”.

          Che cosa fare
          se stretti ci si sente
          un bel respiro?

Continuando analiticamente troviamo nella seconda sezione i testi più vicini all’ortodossia. Essa è intitolata Haikulto, perché l’autrice intende omaggiare l’haiku, non solo con il rispetto della struttura di 5/7/5 sillabe, ma anche con l’uso, pur discreto e limitato, del kigo, che è il riferimento stagionale.
Citiamo alcuni di questi testi

          Viva la viola
          bandita l’orchidea
          senza profumo

          Marcia la rosa
          ormai emana tanfo
          prova vergogna

          A primavera
          sniffando gelsomino
          piacere intenso

          Fremono d’oro
          nella brezza ondeggiando
          campi di grano

Occorre inquadrare storicamente e dialetticamente il poiein di Edith Dzieduszycka.
Esiste un processo di modernizzazione dell’haiku a cui ella pare voler aderire. Noi sappiamo che nel processo che ebbe inizio con Shiki Masaoka (1857-1902) – fondatore della scuola e della rivista Hekigodo, sotto l’influsso della cultura occidentale – non si ritenne più vincolante né la struttura di 17 sillabe, né il tradizionale riferimento stagionale, il Kigo. Da allora quest’ultimo fu da molti abbandonato. Tra i grandi nomi, in Giappone, fu Seinsui a confermare questa tendenza eversiva del “nuovo haiku”. Ovviamente altre scuole nipponiche si richiamavano alla tradizione e si opponevano fieramente alle tendenze occidentalizzanti.
Dal XX secolo e ancora oggi, in Giappone, le scuole di haiku sono state e sono molte, diversissime tra loro e in continuo disaccordo. I poeti spesso passano da un indirizzo all’altro, fondano altre scuole, adottano nuove prospettive. Nella tradizione il kigo serviva come uno scrigno, per contenere, in forte radicamento nella natura, l’eco del frusciare delle piante, il profumo dei fiori, l’impronta climatica delle stagioni; esso evocava la dissolvenza della natura che riempie di nostalgia e vena di soffusa tristezza l’animo umano: è la filosofia del Mondo fluttuante, Ukiyo-e. Questa filosofia ispirò un complesso movimento artistico e di costume: famose le xilografie policrome che ne rappresentano e reiterano il motivo. L’Ukiyo riecheggia a sua volta “l’impermanenza”, concetto di derivazione induista, passato nel buddhismo, nel taoismo, nelle pratiche zen. Già per Chang Tsai (1020-1077), quindi in epoca più antica – scrive in una nota (p.140) della sua raccolta di saggi, Rosalma Salina Borello, intitolata La Maschera e il vuoto (Roma 2005) – il Ch’i, l’energia liberata, nasceva dall’alternanza di due principi, Yin, come energia condensata e Yang, come energia rarefatta, nello hsü, nel vuoto. Un sentimento e una filosofia dell’impermanenza che conservava tuttavia il retrogusto del suo opposto, che è l’attimo immobilizzato nella concentrazione, an­ch’esso vuoto e intuizione del nulla originario. Sospeso nell’attenzione meditativa dell’hic et nunc la concentrazione meditante nello zen è diga contro il flusso inafferrabile del tempo. L’haiku risente del koan zen, si pratica meditando, è un motto che – scriveva Lacan – si rimastica come un rompicapo. Per questo nell’haiku non si saldano mai del tutto tra loro i due ku, perché il kireji ne indica contemporaneamente la relazione e la cesura. Il kireji, come cesura, è una sorta di vuoto; esso porta in sé il senso nascosto dell’haiku, il non detto, ma anche il tobikomu, l’improvvisa illuminazione della mente. Nel terzo ku, attraverso il kireji, l’haiku, può indurre all’inevitabile riconoscimento di una impossibile conciliazione logica di ciò che è esposto intuitivamente, fenomenicamente nei due ku, e obbliga, come il koan zen, alla so­spensione che pone haijin e il lettore sulla soglia sdrucciola di senso e non senso, sul vuoto. L’impossibilità di risolvere il koan, il rompicapo che il maestro propone come un problema irrisolvibile al discepolo, determina l’abbandono dell’intellettualismo, delle pretese conoscitive della ragione. E tuttavia l’attimo, come il kairòs cristiano, è pure accolto come un momento di grazia, in meditazione nel grembo stesso di Buddha, per il superamento del dolore e dell’angoscia. In Giappone lo zen si sviluppa in un intreccio di influssi e penetra ed è penetrato dalla visione dissimmetrica dell’ukiyo-e, del mondo fluttuante. Si procede nell’haiku, fluttuando, fluttuando, yurari, yurari, in una continua condizione di instabilità e di azzardo.

Issa Kobayashi, vissuto tra il XVIII e il XIX secolo, scrisse quest’haiku

          O-botaru                   Una lucciola
          Yurari-yurari to,        Fluttuando – fluttuando
          Tori keri                    Passa davanti

La lucciola che ci passa davanti è oscillante e tremolante come deve essere un haiku, che diffonde una luce piccola, intensa e tuttavia intermittente.
Rosalma Salina, da cui ho riportato questa citazione di Issa, a sua volta tratta dal libro di Dais Suzuki – Zen and Japanese Culture (1959) – riconduce questa condizione di instabilità all’Ukiyo, al Mondo fluttuante e al concetto di impermanenza (Aware)…, in Bashō “fueki-ryūkō”.
L’impermanenza pone ogni esistente sul ciglio del nulla. Nell’evoluzione storica del waka che condusse all’haiku, molti poeti, come il grande antesignano Bashō, adottarono la scelta monastica. Possiamo annoverare in questo indirizzo monastico meditativo Buson Josa (XVIII sec.), e il già citato Issa Kobayashi (secolo XIX), che compose circa ventimila haiku. Anche nell’haiku di questi autori non troviamo una poetica univocità, è come se costoro oscillassero, fluttuassero con i versi tra opposti indirizzi, quello più meditativo, legato al buddhismo e al taoismo, e quello per così dire più laico, legato ai poeti di corte. Questa tendenza si accentua ancor di più per l’evoluzione borghese, mercantile, della società giapponese nel waka popolaresco.
Nell’haiku antico in kanji il calligrafo e l’haijin coincidono, non correggono mai i loro testi. Ciò avviene non perché si soggiace a un malinteso “automatismo” di tipo surrealista, ma perché la straordinaria abilità espressiva del calligrafo fa tutt’uno con la sua concentrazione meditante.
Ora qualcosa di ciò che originariamente era l’haiku trapassa anche nell’haiku occidentale. Esso è interpretato come una tecnica ritmica obbligante; una volta acquisito il meccanismo ritmico diviene condizionante, a prescindere da ogni tendenza eversiva, è come se esso portasse, con il suo ritmico scandirsi, una interna, insormontabile necessità.
Lo riconosce anche la Dzieduszycka, quando pur con ironia, scrive:

          Fascinazione
          fermarmi non mi riesce
          casa di cura

C’è ironia in questo e in altri haiku, come tentativo di trovare una qualche via d’uscita da una gabbia: relativizza qualcosa che si impone come un assoluto; essa vale sempre in poesia, tuttavia non ci si libera dalla forma chiusa meccanicamente.
Sappiamo che questa pratica era conosciuta dagli haijin e abbiamo anche detto dell’umorismo negli haikai no-renga, il waka giocoso più lontano dalle forme primigenie, e quanto fosse largamente e piacevolmente praticato.
Ci sono in questa sezione del libro della Dzieduszycka alcuni haiku che non esiterei a definire anche molto evocativi, con il kigo, il riferimento stagionale; legati alla natura ne esprimono la contingenza, la configurano. A me piacciono particolarmente.

          A primavera
          è tutto uno sbocciare
          smaniose gemme

          Scorre la linfa
          nelle vene del tiglio
          dolce fragranza

          Soave incanto
          nell’ora vesperale
          è nato il gelso

La terza sezione Haikuculo trova in un uccello, nel “cuculo”, il simbolo di un legame dell’umano con la natura animale e con l’intrinseca poeticità di una situazione concreta, esistenziale. Non posso non notare, con qualche sorpresa, che il cuculo (Hototogisu) è anche il nome di una scuola di haijin che ebbe il suo maggior esponente nel poeta Takahama Kyoshi, prima molto vicino al grande innovatore Masaoka Shiki e fondatore con lui della rivista Hekigodo e poi staccatosi da lui. Kyoshi rivendicò l’assoluta fedeltà alla tradizione delle 17 sillabe, al kigo e così via, quelle cose che Shiki, appunto, come sappiamo, aveva abbandonato per innovare.
Questa sezione, Haikuculo, può sembrare a tema, ma per noi l’esito poetico è nel soffio d’anima che percorre i versi e non dipende affatto dai vincoli e dalle norme:

          Nel nido d’altri
          lascia l’uovo la mamma
          cuculo squatter

          Salta la rana
          nello specchio verdastro
          cerchio lucente

La Dzieduszycka insiste molto sull’effetto di spiazzamento che l’ironia induce.
In un altro haiku si esprime la preferenza che l’autrice ha nei confronti dei gatti sui cani. La poeta riesce a produrre in quell’impossibile miagolare del cane alla luna un’arguta icona luminosamente notturna: è come se la vedessimo, la scena, che ci fa sorridere e sognare.

          Se miagolasse
          il tuo cane alla luna
          mi piacerebbe

Ironici anche altri pregevoli testi

          Mucca arrabbiata
          di polvere il suo latte
          poche le stelle

          Con Buffalo Bill
          pascolano tranquilli
          dei bufali blu

Più gnomici, ma sempre corrosivi questi altri

          Teme l’agnello
          le campane festose
          crudele Pasqua

          Dorme lo struzzo
          la testa nella sabbia
          sapere insano

Quest’ultimo testo, mi sembra alquanto aderente alla filosofia del Chuang-su, uno dei massimi testi del taoismo cinese, per cui “la troppa sapienza è esiziale”…
Haikurva – la quarta sezione – è inversione ironica, giocata ancor più sull’effetto di spiazzamento. Citerei per primo l’haiku che forse più s’attaglia al titolo

          Un testa coda
          è finito in scarpata
          correva troppo

L’idea della curvatura ad U, del testa coda, volge verso il “kuore” giocoso del libro; l’effetto è per certi versi zen.
Nel Tao-te ching leggiamo: “se non se ne ridesse, la Via non meriterebbe di essere considerata tale”.
La via è il Tao… e nel Tao e del Tao è possibile sorridere.

Merita di essere citato un altro haiku della Dzieduszycka

          Brava sirena
          scodinzola felice
          furto evitato

Questo haiku è giocato in tutta evidenza sullo scarto sinestesico tra la sirena che nuota scodinzolando come un pesce e la sirena dell’allarme che evita un furto.

Abbiamo pure alcuni haiku collegati tra loro in echeggiamento biblico

          In un baleno
          s’è infilato Giona
          in quel pertugio

          Prudente Noè
          con il bicchiere alzato
          colma la barca

Umoristicamente asimmetrico anche quest’altro haiku, proiezione etica su cose e situazioni con “correlativi oggettivi” di stampo eliotiano: “la goccia”, “il vaso”

          Ha traboccato
          colpevole la goccia
          vaso innocente

L’ironia – oltre a connotare fortemente gli haiku di Haikurva – è presente in tutte le sezioni della raccolta. Inoltre la poeta conferisce ai testi (delle ultime sezioni) una curvatura gnomico aforismatica.

          Il piatto piange
          è stato eliminato
          per un panino

          Al tegamino
          si è arreso l’uovo
          ma per un pelo

          La settimana
          è diventata bianca
          giorni di gesso

          L’albergo a ore
          è pieno giorno e notte
          orgasmo finto

Della penultima sezione, Haikucito, citiamo alcuni haiku che ci piacciono particolarmente, anch’essi ironici e a volte aforistici

          Cos’è la gioia
          vibrazioni segrete
          fuori di seno

          Senso vietato
          la prossima fermata
          settimo cielo

          Quanto sei bella
          l’innamorato dice
          ad occhi chiusi

          Tutti lo sanno
          è una pasta d’uomo
          purché al dente

          La serratura
          se fa il suo dovere
          bacia la chiave

          Se tutto cambia
          affinché nulla cambi
          andiamo a nanna

L’ultima sezione, Haikulmine, è la più aforistica di tutte e ci sono haiku no-renga, alcuni con qualche valenza narrativa e da poesia civile, legati a drammatici fatti di attualità. Rappresentano una rottura nel contesto del libro

          Da clandestino
          ha varcato frontiere
          senza saperlo

          Ha proseguito
          da una città all’altra
          tappe forzate

          Al corpo estraneo
          muro oppone la gente
          l’ordine regna

Ancora legate a tragiche attualità

          Un terremoto
          ha travolto l’ostello
          muri di pianto

Chiudiamo con un haiku che ci stampi il sorriso sulle labbra e ce lo conservi, dopo aver letto l’intero godibilissimo libro.

Nietzsche, d’altronde, sul muro di casa sua aveva scritto: “Ho sempre burlato ogni maestro che non mettesse in burletta se stesso”.

          Di sampietrini
          chi sa se è lastricato
          il paradiso

e ringraziamo Edith de Hody di questa sua prova di poesia audace e alternativa, che allarga i nostri orizzonti verso le frontiere non sempre ireniche dell’intercultura.

Luigi Celi
Roma, 28 gennaio 2017

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