PREFAZIONE

Una delle poesie più significative del libro di Miriam Bonamico si intitola Non toccate i pianeti. La poetessa spiega con un esclamativo la ragione della sua supplica, in quanto dice: Voglio il mistero / con buchi nere e comete. Si tratta di una delle più affascinanti metafore riguardanti l’importanza della vita immaginaria rispetto al prevalere della concretezza della vita reale. L’essere umano non può comunque accontentarsi dei limiti angusti imposti dalla realtà delle cose. Diciamo meglio: se lo vuole, l’essere umano può benissimo vivere all’interno dei confini della materialità, ma solo a patto che rinunci alla sua immaginazione di dilatare la realtà in un’infinità di modi e di mon­di possibili. Se vuole l’uomo può tranquillamente vivere solo materialmente come fanno gli animali superiori. Forse l’avverbio tranquillamente va espunto, perché nessun essere umano può vivere in tranquillità in condizioni di animalità. Cosa gli mancherebbe di più? Per l’esattezza gli mancherebbe l’immaginazione, che gli animali non posseggono. Chiedetevi voi se anche il più intelligente degli animali ap­prezza il mistero dei buchi neri e delle comete? Certamente, no: non c’è altra risposta possibile. Tuttavia, a una sensibile poetessa contemporanea del ventunesimo secolo, vissuta nei migliori ambienti colti della civiltà europea, nella piena consapevolezza dell’infinità del mondo creato e del progresso scientifico, il mistero, che dalla notte dei tempi affascina l’immaginazione degli esseri umani, appare come la ricchezza impagabile della vita. Nel mistero c’è l’arte creativa dell’essere umano, c’è tutta la creazione dell’uomo, la sua dantesca parentela di essere “nipote a Dio”, la sua capacità di superare mentalmente ogni confine e di traguardare ogni contraddizione. Il mistero è la nostra ricchezza, l’inesauribile fonte della nostra sopraffina intelligenza. Il mistero è la grande madre dei nostri sogni, i nostri miti, le nostre culture, la nostra scienza: nel mistero risiede la nostra umilissima ma anche splendente sapienza con cui cerchiamo di esplorare l’inconoscibile profondità della creazione del­l’universo intero. Ridotto all’essenza più semplice e stringata delle cose, quale bene più prezioso potrebbe conservare per sé un poeta? Lo dice con una sola parola Miriam Bonamico: il mistero. Se tutto fosse conoscibile e misurabile con i cinque sensi di cui siamo dotati, noi uomini non avremmo mai inventato neppure la ruota, né avremmo inventato la musica, la pittura e la poesia. Poiché, invece, siamo immersi nel mistero inconoscibile della nostra vita terrena, abbiamo inventato tutto ciò che ha trasformato la realtà delle cose che ci circondano nella potenza sorprendente della nostra immaginazione.

Ho volato tanto esprime esattamente questo fondamentale concetto: vivere profondamente il mistero della vita. Viverlo con generosità, con immaginazione, con stanchezza, con delusione, con speranza, con entusiasmo, con arresa pazienza e con mite attesa. Questa è l’altissima lezione, pura come acqua di fonte, che Miriam Bonamico distilla nella sua poesia. Non abbiamo altra sapienza più alta a cui ispirarci, se non che questo atteggiamento di conclamata umanità terrena che ci contraddistingue da qualsiasi essere vivente appartenente al regno biologico del nostro pianeta: noi siamo consapevoli di essere altra cosa da ciò che siamo nella realtà, perché la nostra mente è invasa dal mistero come una spugna lo è dal ma­re: ne è compenetrata fino al punto da divenire la stessa sostanza costituente.

Sorprendentemente, i voli di gabbiano o di albatros di Miriam Bonamico non sono pindarici e neppure sono l’azzardo di Icaro. La Poetessa quietamente insegna a vivere la vita che si dilata con l’immaginazione oltre i confini della realtà. Il suo fitto dialogo con la figlia perduta continua ininterrotto da lustri a vivificarsi nella quotidianità. L’assenza della figlia diviene una presenza costante, perché l’immaginazione umana costruisce il ponte d’arcobaleno che traguarda la realtà. Anche la mano di Cristoforo Colombo, issato sul piedestallo mar­moreo in Piazza Martiri della Libertà a Santa Margherita, indica un orizzonte che si colloca bene al di là della cittadina ligure, delle Colonne d’Ercole, dell’Oceano Atlantico, perché è l’orientamento immaginario verso un appro­do virtuale, verso un mondo nuovo, cui l’intera umanità deve tendere, visto che “fatti non foste a vivere come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Bonamico si porta la Liguria nel cuore co­me un destino irrinunciabile di appartenenza: poco conta che Lei sia anagraficamente torinese da tutta una vita, quando il suo animo è invaso dalla maccaja cantata da Bruno Lauzi, e la sua culla natia è ancora sita in via Caffa, a Genova. C’è una pagina di poesia di Miriam Bonamico che la dice lunga circa la sua puntigliosa attenzione rivolta alle persone di alta cultura e di grande valore morale, indipendentemente dal prestigio di notorietà o di ricchezza realizzato nella vita quotidiana. Si tratta della poesia In memoria di Giovanni Ramella, dalla Poetessa definito uomo che “Lo spirito di Dio lo aveva reso / Sicuro e saggio. Credeva”. Con parole asciutte e luminose di umanità, Miriam Bonamico rende omaggio a una delle menti più preziose della cultura torinese del secondo Novecento e dei primi anni Duemila: uomo di sconfinata conoscenza enciclopedica e di grande modestia personale, maestro e forgiatore di tante menti nello svolgimento della sua missione di cattedratico e più ancora di raffinatissimo conferenziere su argomenti di storia, filosofia, letteratura e musica, facente parte della direzione culturale del Centro Pannunzio di Torino, fondato da Pier Franco Quaglieni e da Mario Soldati.

La poesia di Miriam Bonamico si arricchisce oggi del quinto libro significativo, dopo l’opera prima Poe­sie, 2009, cui ha fatto seguito l’anno dopo Dolce è il rifugio, mentre nel 2014 esce Scorre il tempo e nel 2018 Emerocallidi, sempre pubblicati presso editori torinesi. Ho volato tanto rappresenta la raccolta più serenamente matura della Poetessa, che trae ispirazione da un desiderio di ricapitolazione meditativa del percorso fino qui compiuto in poesia: una linea letteraria di luminosa sapienza essenziale e sognatrice, con ripresa delle consuete tematiche dedicate agli incanti dei paesaggi naturali, ma con un approfondimento nuovo dei rapporti di peso e di invenzione della vita interiore e dei paesaggi dell’anima.

Sandro Gros-Pietro

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