PREFAZIONE

L’intero scorso secolo è fortemente contrassegnato dal tema dell’evocazione dei genitori morti. Soprattutto, nella prima metà, c’è la vertigine della Madre di Ungaretti, contenuta nel Sentimento del tempo, del 1929: sarai una statua davanti all’eterno. Poi tutto il secolo, a furia e a misura che smarrisce le vie della fede nell’al di là, sempre più sviluppa attaccamento emotivo verso l’origine carnale terrena della vita resa dai genitori ai figli e, ovviamente, tocca alla madre impersonare il ruolo primario di chi non solo rimette in dono la propria carne e il latte ai figli, ma anche li cinge del più dolce conforto, in un patto d’amore che principia come voluttà dei sensi nella Camera da letto dei coniugi narrata da Attilio Bertolucci, ma che subito si trasfonde “in un amore che mai / potrà trovare requie sulla terra”, quello materno, e che la stessa morte stenterà a pienamente dissolvere. La fine dello scorso secolo, se ci riferiamo ai neòteroi con cui si chiude il vecchio millennio, appare forse più contrassegnata dall’evocazione della figura del padre, così è nel Glenn di Cucchi e nel Distante un padre di De Angelis. Ma è un padre che affascina e stordisce per la capacità di essere nei figli a dispetto dell’incombente assenza fisica, e che sviluppa una dote di distanza finitima – dice la nostra Ester Maero – cioè una prossimità prospettica, quasi ieratica o misteriosa o sciamanica, come se il padre fosse il sacerdote sopravvissuto di una primitiva li­turgia d’iniziazione per segreti indicibili e per regole di sopravvivenza nel bosco intricato della vita.
Ester Maero riunisce insieme le due metà del cielo, che all’inizio della vita si congiunsero in un solo respiro, con voluttà dei sensi, in quella camera da letto descritta dal poeta. Ogni figlio, infatti, rappresenta l’unione dei genitori davanti all’eterno, per cui la madre si inginocchia ad implorarne l’assunzione in paradiso. In paradiso dovrà sì, salire il figlio, ma in lui salirà anche l’unione dei due coniugi mai più dissigillati e che solo nel figlio si cementano carnalmente in un progetto compiuto e inscindibile. Questa sintesi biologica è tradotta in letteratura e in poesia con la splendida endiadi poetica che compone quest’unico poema, I colloqui dell’assenza nel giardino dei passi perduti. Le prime quattordici poesie sono dedicate al guerriero, il vir che ha infuso tutta la sua forza nell’amore e nella protezione delle donne che composero l’universo della sua casa, la mo­glie e le figlie. L’incontro con il padre è tanto più com­movente e disarmato, perché si realizza à rebours, cioè inizia con il congedo dalla vita che gli scorre tra le dita affusolate, rese esili dalla morte sopravveniente, per cui è divenuto inutile e prezioso, è ridotto a reliquia e a fantasma di quella tal forza magica che lo animò negli anni del vigore e con cui aveva difeso e conquistato le sue donne. Lontano accanto è il tuo stare / fatica leggera l’amare: la figura paterna si presenta – e quindi si congeda – nel mistero ossimorico delle contraddizioni che costituiscono l’armonia della sua forza in­vincibile. Il padre è enigma irrisolvibile, ma amoroso: I tuoi segni, presenza inaccessibile, / leniscono come un balsamo cristallino. La sua scomparizione sarà una dissolvenza che andrà nel verso della continuazione e del perfezionamento definitivo di quel tal colloquio dell’assenza che egli intavolò già negli anni della convivenza: Sei diventato il sogno / che si inerpica leggero nel mio / tormentato sonno, trasparente / medusa che sfioro e intuisco / solo quando non sento e non penso. La medusa, a cui viene assimilato il padre, fa parte del plancton, l’alimento che si colloca alla base della catena alimentare del mare, il luogo che è la scaturigine di ogni forma di vita.
Non sorprende che la madre sia evocata, invece, col simbolo femminino per antonomasia, la luna, che sovrintende e misura il tempo cosmico con le fasi cicliche della sua eterna trasformazione. Simbolo di procreazione e di continuità, nei confronti della ma­dre scatta immediatamente, da parte della figlia, l’identificazione consustanziale: i gesti minimi / di un’esistenza / che in me si ripeteranno / inavvertitamente, perché tuoi. Se al padre tocca in pertinenza rappresentativa un simbolo marino, la medusa, alla madre toccano, invece, una pluralità di simboli terragni, espressioni di bellezza e fecondità, cioè i fiori: pre­cisamente, la stella di Natale, il non-ti-scordar-di-me, la stella alpina, la ninfea bianca, per arrivare fino a quelli che hanno una cittadinanza poetica possentemente marcata, come sono l’anemone, il narciso e, al sommo della gerarchia, si collocherà ovviamente la rosa, emblema dell’intimità sessuale e sensuale della donna. Non è un caso se la rosa, inoltre, viene richiamata alla memoria letteraria proprio citando la celeberrima narrazione di tal Cielo d’Alcamo, rosa fresca aulentissima, e la ghiotta tradizione del contrasto d’amore che nasce e che si sviluppa in un equivoco ammiccamento di espressioni e di modi tipici sia dello stile alto sia dello stile basso, in una nebbia di segni poliespressivi poetici che fornirono lo spunto a Dario Fo per guadagnarsi buona parte del suo Nobel per la letteratura con l’ideazione di Mistero buffo. Maero proprio in questo intende fornirci il suo preciso segnale di navigazione poetica: nel cercare l’autenticità della poesia non nel rigore astratto dello stile, ma nella plasticità fungibile che il testo deve avere per rendersi interfaccia interagente tra i diversi aspetti della realtà e il soccorso citativo che fornisce la memoria letteraria che tale realtà descrive.

Sandro Gros-Pietro

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