PREFAZIONE

“Ogni buon filosofo sa che è più facile definire la teoria che non la pratica. I simboli astratti possono essere esattamente circostanziati e difesi sotto una campana di vetro, dove si manterranno uguali a se stessi nel tempo. Che cos’è il pi greco? È il rapporto tra la circonferenza e il diametro, amen! Sarà per sempre così e nessuno si proverà mai a invalidare la definizione data. Ma se noi ci chiedessimo che cos’è l’amore, sentimento che ogni essere umano ha sperimentato nella vita – si spera o si presume che così sia – potremmo scrivere interi tomi di enciclopedia senza mai trovare la formula unica. È il punto su cui si chiude la Commedia di Dante:l’amor che fa girare il sole e l’altre stelle. Ma è anche il pensiero su cui si apre il Canzoniere di Petrarca: Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono / di quei sospiri ond’io nudriva ’l core. Un giovane poeta italiano di San Marco dei Cavoti, Mino De Blasio, prematuramente scomparso, poco prima di andarsene ha pubblicato un favoloso centone che si chiama Piùchemille d’amore, in cui sono raccolte circa 1.200 rielaborazioni da lui fatte sul tema. Si tratta di una lussureggiante e sterminata rete definitoria dell’amore che ridonda di sapienza e di applicazione e che appare del tutto insufficiente, come egli stesso gioiosamente premette nell’introduzione, a esaurire in modo definitivo l’argomento. Da Omero a Patrizia Valduga il viaggio nella letteratura dell’eros comporta le più svariate e anche contraddittorie soluzioni. Si pensi a Catullo da una parte e al Marchese de Sade d’altra, entrambi ci parlano d’amore, ma approdano a destinazioni opposte fra loro. Sul più alto degli altari della poesia erotica, va collocato il Cantico dei cantici di Salomone, contenuto nella Bibbia. Ma non per tutti è così, perché per le civiltà medio-orientali i testi sublimi sull’amore sono quelli di Omar Khayyam, mentre per l’estremo oriente si può pensare a Confucio. Non vi è una sola stella polare, dunque, ma vi è una pluralità di orientamenti espressivi diversi. Tuttavia, ciò su cui con beneplacito di tutti si può concordare, è che la letteratura d’amore è stata racchiusa in una specifica nicchia per pochi cultori fino ai primi decenni del ventesimo secolo. Se già la letteratura in genere è sempre stata un’arte umana praticata da un’esigua minoranza della popolazione, quella d’amore, poi, ha sempre rappresentato una rarità nella rarità. Al contrario di quanto si può credere, il popolo si è sempre poco dilettato con l’erotismo. Ha sempre fatto figli in gran quantità, questo sì, ma si è sempre chiesto poco e male quali fossero “le delizie e le pene” dell’eros. Ricordo un favoloso aforisma di Ennio Flaiano, buono a farci riflettere tra la diversità dell’amore in senso lato e l’ambito ristretto del rapporto coniugale: “In amore bisogna essere senza scrupoli, non rispettare nessuno. All’occorrenza essere capaci di andare a letto con la propria moglie”. Le cose sono cambiate con i primi decenni del ventesimo secolo: l’eros ha incominciato a essere riconosciuto come un valore culturale, un patrimonio dell’esperienza e della personalità di ogni singolo essere umano. Ma il lavoro più grande di diffusione dell’eros fra la gente non è stato fatto dagli scrittori, bensì dagli chansonniers, quelli che noi oggi definiremmo cantautori. Sono proprio stati loro a diffondere in tutti la liceità e la bellezza del pensiero d’amore: la profondità e l’ampiezza del sogno d’amore, la delicatezza del dono d’amore, lo struggimento, la nostalgia, infine, anche il tormento dell’amore. Tutte queste sensazioni sono diventate un patrimonio di esperienza e di cultura popolare grazie all’azione di sdoganamento fatta dai cantautori. I quali, è bene dire, si sono sempre ispirati ai grandi poeti, ai romanzieri e ai musicisti per attingere le ispirazioni e la materia delle loro parole e delle loro melodie. Si può dire che, alla fine dei conti, la fonte primaria della cultura dell’eros è sicuramente quell’alta cultura che, appunto, risale fino al Cantico dei cantici. Tuttavia, ai cantautori spetta il riconoscimento di avere fatto sognare l’amore alla ‘gente’, cioè alle masse indistinte delle persone che si muovono in­fluenzate dalle mode e dalle tendenze di gruppo. Trattandosi di una conquista abbastanza recente, va da sé che abbia uno straordinario successo e una dilavante diffusione. Per la maggiore parte delle persone, infatti, la cultura dell’eros è un pianeta scoperto da poco: i loro genitori ne sapevano poco e quasi nulla i loro nonni. Ma le melodie di Frank Sinatra e di Charles Aznavour, ispirate alle poesie di Jacques Prévert e alle vignette di Peynet, hanno elaborato l’armonia sinergica dei facili messaggi multimediatici di suono, scrittura e disegno grazie a cui si avviarono le genti alla conquista dell’eros, come altrettanti pionieri alla conquista del favoloso West. È nato un incantamento, una cultura e una frequentazione dell’eros quasi quotidiana che sono divenute il tormentone dominante della stragrande massa di persone. Basti leggere un qualsiasi oroscopo di diffusione popolare: avere fortuna in amore oggi conta di più che guadagnare quattrini, ottenere la celebrità o addirittura godere di buona salute. L’oroscopo ci pare buono se ci porta amore, mentre ci sembra insulso se ci reca qualsiasi altro dono, ma non l’amore. In questo clima culturale, più di abuso che non di uso dell’amore, è una grande fortuna che scrittori come Angelo Caroli si impegnino, con gusto e con delicatezza, a ridisegnare i contenuti e i confini del sentimento di amore, quale ci si augura possa essere nutrito nell’animo di ognuno. Già il titolo della raccolta serve ad orientarci verso una “frequentazione insidiosa” dell’amore autentico. Cioè, l’autore ci dice che la felicità comporta graffi come piccole ferite. L’amore, dunque, che è la formula più piena della felicità, fa rima con “dolore”, che è la manifestazione diretta della ferita ovvero dei graffi. L’amore è come un ossimoro: è una verità che nasce da una contraddizione nei termini, da una tensione di significati contrapposti. L’amore è vicino ed è lontano, nel senso che è dentro i precordi del nostro cuore, ma è anche negli orizzonti più lontani del nostro desiderio. Si dovrebbe citare Corrado Alvaro: La lontananza è il fascino dell’amore. E, contemporaneamente, si deve citare Mario Soldati: L’intimità è il cibo dell’amore. Ma l’impostazione generale che Angelo Caroli conferisce alla sua poesia d’amore demanda alla visione di Leopardi, il quale afferma che “i momenti migliori dell’amore sono quelli di una quieta e dolce melanconia dove tu piangi e non sai di che.” La cultura dell’amore, secondo i classici, non è solo la gioia dei sensi – gioiosità che pienamente ritroviamo anche in Caroli – ma è soprattutto lo struggimento interiore: il sentimento che ci colma il cuore con una dolcissima melanconia autunnale, e ci spinge alla solitudine dalle tinte crepuscolari, che i romantici definivano spleen, in cui trionfa un irriducibile desiderio di vita accompagnato da una inspiegabile incombenza della morte. Caroli conduce per mano il lettore ad esplorare il nobile sentimento di donare sé stessi alla persona amata e va allo scandaglio degli stati d’animo di delizia e di tormento che ne derivano. Inoltre, egli illustra al lettore anche gli effetti benefici e rigeneranti dell’amore, grazie ai quali la vicinanza della persona amata serve a scacciare la malinconia che normalmente troneggia nel cuore degli innamorati, come leggiamo nei seguenti versi. “Il mio animo somigliava a un cardo malato / un elefante con passi grevi e affaticati / un cielo privo di fosforo e danze stellate / quando le ore smorzano il fuoco del giorno. / Stamani, dopo l’umano sfogo sacrosanto, / è ricomparsa la tua voce che sorride / da tempo non sapevo più rintracciarla / e subito sono scomparse le orme del pianto / e in quell’istante ho sentito la necessità / di averti a me vicino, per qualche carezza / un consiglio e perfino aiuti da chiederci zitti, / per uno sguardo che scaldasse la mia primavera / infine per sillabe che mancavano al mio cuore”. Caroli ci insegna che le parole dell’amore debbono essere piane, confidenziali, armoniose. Debbono appartenere al linguaggio del quotidiano ed essere costruite con metafore che fanno riferimento a situazioni normali, casalinghe, rincuoranti ed usuali, esattamente come è documentato nel Cantico dei cantici, ove tutte le metafore della poesia d’amore sono tratte dalla vita dei campi e dell’alternarsi delle stagioni. L’amore deve essere naturale, sembra dirci Caroli: non deve essere un sentimento sofisticato, costruito o drogato da un’eccitazione artificiosa, ma al contrario, sarà una favola gentile, che permetterà di uscire dalla realtà e di compiere un sogno ad occhi aperti, come è documentato nel libroBrigadoon di Friedrich Gerstäcker, dal quale è stato tratto anche un musical a cura di Alan Jay Lerner e Frederick Loewe, citato da Caroli in più occasione, tra cui la poesia Fionde di luce, negli ultimi versi: “Tu disconosci lo sciame di nebbie / che uccise e rianimò Brigadoon / giardino di case dove se si ama / nulla è impossibile per chi ama”. L’amore è la capacità di ascoltare la persona amata. Ma Caroli ci dice che l’ascolto non consiste solo nell’udire la voce e cogliere il significato delle parole, ma è qualcosa di più profondo, capace di interpretare i silenzi, il movimento degli occhi, le espressioni del volto, la postura della persona e ogni altro segnale di vita, di presenza o di assenza, come il poeta scrive in I silenzi di Spessot: “Ascolto i colori dei tuoi silenzi / non hanno rumori e voci ma hanno vita, / ascolto i tuoi segni chiari come petali / profili che si aggrappano a profumi / liberati dagli occhi che osservano / dietro le tende delle finestre incantate / e dalle forme che esponi con una mano / che mai tradirà le ansiose attese / di passanti sopraffatti da stupori”. L’amore è la capacità di trasfigurare la realtà come facevano gli impressionisti francesi e meglio ancora i simbolisti, fino al punto di riuscire a “dipingere ciò che non si vede”, come raccomandava ai suoi allievi Henri Matisse, in una sorta di corrispondenze di emozioni e di sensazioni che fondono insieme suoni, parole, figure, come leggiamo in Un violino sul volto, dove nei versi si scatena una portentosa forza simbolista di trasfigurazione del reale: “È una canzone la pioggia ai malleoli / il vento stradivari sul volto / la tastiera aghi sulle dita / mentre il legno rosso che galleggia / a un passo dalla riva è una rana grande / e ferma per lo stupore dei bimbi. / Il sole attenua la criniera di puma / quasi si sbriciola in una via lattea / che irradia i fuochi di agosto. / Silenzio, riflessioni, assenze: / monta dalla rena un sussurro / l’onda è una piattaforma afona / lo scirocco sfiora cimose bicrome / di ombrelloni malfermi nella sabbia / la pineta si ramifica silenziosa / come vecchia lucertola senza guizzi / ma con orlo che ondeggia di oleandri: / ed è là dentro che già germogliano / le maraca che squilleranno domani”.
Alla fine, questo canzoniere d’amore di Angelo Caroli, scrittore e giornalista provetto che si è conquistato il pubblico dei lettori con un linguaggio nel contempo familiare e raffinato, adattissimo a raccontare trame gialle o poliziesche sullo sfondo misterico di Torino, dipinge con la stessa scioltezza di parola, ma questa volta improntata a un respiro poetico – e, quindi, resa lieve dalla trasfigurazione e dall’elisione della realtà, delle metafore e dei simboli magici che allignano nel testo –, un percorso dell’anima fatto di sospiri petrarcheschi, di sensualità dannunziane, di confessioni gozzaniane, con la cantabilità delle celebri poesie d’amore di Alfonso Gatto, capace di affascinare il lettore per la ricchezza e la densità del testo.

Sandro Gros-Pietro

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