Prefazione

La leggerezza e l’indefinibilità delle condizioni della vita sono l’argomento centrale della poesia di Paola Pansa, che ripete a sé stessa e al lettore l’identica domanda Ma ti piace la poesia? La conclusione a cui perviene la scrittrice è quella che si scrive per non avere segreti. In altre parole, la scrittura appare come la casa di vetro che rende possibile porre sulla stessa scena del mondo l’esteriorità dei rapporti umani e l’intimità delle nostre condizioni di vita. Più che una vocazione confessionale, la scrittura poetica acquista, allora, una condizione di trasparenza e di visione profonda degli eventi e dei tormenti che costituiscono la normale condizione di vita dell’intera umanità. Ne deriva una sorta di affidamento quasi affettuoso e abitudinario della scrittrice alla liturgia della penna e del calamaio. Viene in mente il motto di Plinio il Vecchio, nullo dies sine linea, che rappresenta l’esortazione a esercitarsi ogni giorno in ciò che ci appassiona di più, affinché con l’esercizio continuo si riesca a trarre da noi stessi il meglio che siamo in grado di offrire. La vita vissuta con tale impegno diventa il cimento che ogni individuo compie con sé stesso nel tentativo di migliorarsi.
Paola Pansa descrive in più occasioni l’inclinazione vocazionale che le urge nell’animo a scrivere poesie, per cui leggiamo Guarda come s’incastrano le parole / come diventano gesti / come ci accarezzano / la serenità che trasmettono. // Guarda come le scrivo / mentre non penso / mentre mi perdo / in una melodia notturna / che mi trasporta / in una dimensione ondeggiante / e tiepida. Si viene quasi a instaurare una condizione di fluidità espressiva che i poeti del passato hanno teorizzato col movimento letterario definito la scrittura automatica, in base al quale compivano esattamente quanto ci dice la scrittrice nei suoi versi, Io non scrivo / prendo le parole / che stanno nei pensieri / e le pronuncio / con l’inchiostro. / Variano il tratto / l’enfasi / e la fantasia / ma ogni volta che non scrivo / lascio che la mano / proceda leggera / l’impeto / non è violento / il trasporto / è solo mentale / senza affanni. Si raggiunge così una completa libertà di scrittura e di espressione, si vive nella casa di vetro, senza paraventi e nascondimenti, si vive im­mersi totalmente nella parola che, come molti poeti hanno spiegato e non ultimo Jorge Luis Borges, è sostanzialmente “dolore e finzione”. Per tale motivo la Poetessa potrà scrivere, con apparente contraddizione, che le sue parole pos­sono essere “ridicole” e anche “perfette”, come leggiamo di seguito Le parole più belle che ho scritto / sono le più ridicole / che io abbia mai letto. […] Le parole più belle che ho scritto / sono perfette / acque limpide / musica lieta / un sentiero / d’estate tra i campi. // Tutto è finzione / ogni cosa / può essere altro. Si conferma, allora, quella percezione che abbiamo rilevato di “leggerezza e indefinibilità” della vita, che ci pare essere il dilemma centrale della poesia di Paola Pansa. Si licet parva componere magnis, sotto questo profilo, il libro Il destino, il sogno tratta la stessa tematica del romanzo di Milan Kundera che si chiama L’insostenibile leggerezza dell’essere, per il qua­le l’unicità della vita è a tal punto personalizzata e irrepetibile, imparagonabile, inimitabile, da divenire anche indescrivibile, ineffabile: si pronunceranno parole che ci diranno tutto e non ci diranno nulla. Ecco, allora, che vivremo dentro un sogno: una realtà trasversale, parallela, indecifrabile o meglio ancora polivalente, indefinitamente interpretabile.
Da tale dimensione del sogno o più esattamente da tale contaminazione e sovrapposizione del sogno con la realtà nasce il trasporto di simpatia della Poetessa per El ingegnoso hidalgo don Quijote de la Mancha, l’antieroe che si copre contemporaneamente di gloria e di ridicolo e che, come ben si sa, rappresenta una delle icone più autorevoli e significative della letteratura mondiale di tutti i tempi. A coprirsi invece di “gloria e d’amor” è l’Imaginifico Gabriele d’Annunzio, che viene velatamente alluso nei versi La mia rivoluzione /sarà il sogno / il sogno che dà mano / alla realtà. / Sarà di gloria e d’amor / sarà il destino / perché il destino è sogno / sarà chimera che s’avvera / sarà battaglia / perché la vittoria è sogno.
L’attrazione per la realtà, che fa riscontro discrasico con il sogno, è tuttavia sempre molto esercitata nei versi di Paola Pansa, non fosse altro per il richiamo di affettuosità e di ammirazione che la Poetessa evoca nei confronti di quella grande montagna di ingegno letterario e di carne umana messa al mondo che fu Ernest Hemingway, il quale si manifesta epifanicamente più volte nei versi di Pansa, anche con accostamenti imprevedibili con Charlie Brown, ma comunque sempre rappresentato con tanto di macchina da scrivere, gatto e bicchiere di rum – anche se probabilmente l’intera bottiglia di rum sarebbe stata più indicata al personaggio!
Il carattere della liricità della Poesia di Paola Pansa, a dispetto della forma sovente antifrastica e antiletteraria del dettato, è assicurato dal puntamento dell’obbiettivo sull’Io-Poeta, il quale rimane l’unico protagonista dell’intero plot epico sviluppato nell’opera. Come accade nei Canti del Giovane favoloso, le dimensioni dell’Io sono gigantesche, per cui non manca anche un devoto omaggio offerto al Recanatese, come si legge in Ma sedendo e mirando / inconclusi si­lenzi / il pensiero si posa /su un nulla / che non conosce confini. Si tratta di un passaggio poetico denso di emozione e di afflato romantico, riflessivo e pensieroso, al quale farà poi da contraltare la bellissima pagina di poesia scritta in tono sarcastico, con l’animo a pendolo tra la tragedia e il gioco, in un modo e una misura che richiama Aldo Palazzeschi, Io piango pianissimo / pianissimissimissimo / e nessuno se ne accorge / nemmeno io! / Ma ogni lacrima / è una musica bellissima / che s’àncora alla guancia e non va giù. / Resta. / Resta sul volto / sotto la maschera / resta / nascosta benissimissimissimo. Ne deriva di conseguenza una presa di distanza dal ruolo dell’Io-Poeta, come leggiamo nella poesia seguente Io io // io io io, si enfatizza con una citazione parossistica e canzonatoria lo strapotere che solitamente si riconosce alla poesia autoreferenziale. Si perviene per questa strada all’inanità della scrittura, cioè alla Scrittura verso il nulla, come recita il bellissimo titolo dell’eccellente studio critico di Giorgio Bárberi Squarotti su Gabriele d’Annunzio. Una scrittura annichilente che provoca la reazione del­la Poetessa, E adesso basta / basta esco. // Basta. // Prendo tutto / e lo butto via. // Prendo / tutte le parole / le accartoccio / e le butto nel fiume. In questo clima di obnubilamento dei significati contenutistici della “parola poetica” non sorprende per nulla, ma anzi quasi appare necessario che la Poetessa proponga anche un riferimento beckettiano al teatro dell’assurdo, come leggiamo in Devo andare dove non so, ma so che lì sono /mi aspetto, m’attendo / è già tardi / è già buio / e da sola non trovo la via. / Se non mi trovo non sono / e se non sono non scrivo / non leggo, non mangio / non vivo, respiro per caso e non va.
La Poesia di Paola Pansa si presenta come un magistrale viaggio creativo, che si realizza con un movimento a circolo tra il gioco e l’impegno, tra la ricreazione e la fatica, nell’attesa di una meta che sia rivelazione di un porto sicuro, ma nel contempo, come vorrebbe Carlo Michelstaedter, appaia collocata nell’occhio centrale della tempesta, nella contraddittorietà e nell’assenza dei significati, per assumere la dissimulazione a oltranza di un messaggio che non è mai esaustivo di per sé, ma che sempre sfocia in nuovi orizzonti, tra l’assurdo e il concreto.

Sandro Gros-Pietro

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