Introduzione

Girolamo Savonarola non ce ne vorrà se abbiamo scelto a titolo di quest’antologia della poesia satirica italiana dal Tre al Novecento un suo clamoroso ‘gesto pubblico’, la cui eco si propagò rapidamente lungo tutta la penisola: il rogo indetto il 7 febbraio 1497 a Firenze di opere d’arte profane, considerate perniciose per la sensibilità religiosa degli adepti.
La poesia satirica ‘brucia’ d’una fiammata non fisica: il suo ardore non è ‘corporale’: e le ‘vanità’ non le incenerisce, ma semmai le smaschera. Sono, queste vanità, gli errori che alcuni poeti constatano ricorrere più di frequente nel comportamento dei propri contemporanei.
Savonarola dal suo pulpito li avrebbe bollati come peccati capitali: l’accidia, l’avarizia, la gola, l’invidia, l’ira, la lussuria, la superbia. Ma la poesia satirica, sin dai suoi più antichi maestri, non solo nel pacato Orazio, ma anche nei diversamente aspri Giovenale, Persio, Marziale, non condanna né tenta di redimere: essa è laica, semplicemente denuncia deridendo le devianze negli altrui costumi.
È vero che altri maestri, non meno antichi né meno autorevoli, come Platone e Cicerone, avevano preso le distanze da questo genere di scrittura letteraria: il primo osservando nel Filebo che essa si discosta troppo dal limite, dalla proporzione e dalla verità, le tre componenti della sofròsine, cioè l’equilibrio della salute spirituale; il secondo rimproverandole d’accostarsi troppo alle forme della retorica, che si propone di persuadere e dimostrare, costringendo le opinioni degli altri a collimare con le proprie (riassumiamo dal dialogo Dell’oratore composto nel 55 a.C.). Ed è altresì vero che il maggior moralista inglese del Seicento, Thomas Hobbes, aveva – sia pure pacatamen­te – messo in guardia i suoi lettori (siamo nel 1651) da questo tipo di attitudine comica come “una gloria improvvisa (sudden glory), che si ottiene primariamente osservando le infermità degli altri e confrontandole con la superiorità (eminency) che è in noi stessi…”.
A queste sacrosante notazioni un lettore non-filosofo, ma puramente letterato può contrapporre l’affascinante prospettiva di un registro di scrittura poetica, che non coinvolge, come tutte le sue consorelle, due referenti soltanto, lo scrittore e il lettore, ma che ne presume addirittura tre: lo scrittore, il lettore e l’individuo, che, volontariamente o no, suscita lo sdegno e dunque l’ostilità comica del primo, il quale è – per così dire – decolpabilizzato della sua aggressività dal riso, più o meno amaro, del secondo.
La satira poetica, insomma, si differenzia da quella in prosa per la sua componente, se così vogliamo chiamarla, di partecipazione e di solidarietà del lettore, che ride di ciò che è scritto e sta leggendo, sapendo che è ‘fittizio’. Mentre la prosa presume un ben altro grado d’investimento polemico e invettivale dello scrivente. Prendiamo due esempi illustri: il primo è un’operetta in prosa, il secondo una collana di liriche. Il primo porta la firma di quel sublime poeta e coltissimo umanista che è Francesco Petrarca. Tra le sue opere latine c’è una Invectiva contra medicum quondam. Era successo che Francesco avesse suggerito in una lettera domestica (è la diciannovesima del quinto libro delle Familiares) a papa Clemente VI di non affidarsi alle cure di una sola persona. Un medico, che è rimasto sconosciuto, si era tremendamente offeso dinnanzi a quella proposta, ingiuriosa per lui e i colleghi. Petrarca gli risponde, ma con una veemenza che lascia stupefatti, che si vergogni di praticare la medicina, una semplice tecnica (sottointeso: e non una filosofia) e per di più moralmente molto ‘pericolosa’ perché va contro l’uomo sotto i vessilli di un materialismo se non ateo, certo poco cristiano.
Il secondo è costituito da un ciclo di sonetti di Dante che – nel suo canzoniere altamente sperimentale, tra una lirica alla Violetta apparsagli all’improvviso, un’altra alla Donna Pietra così caparbiamente crudele, un’altra ancora a colei che sta a metà classifica tra le più belle donne fiorentine – non esita a scatenarsi nel dileggio del suo amico Bicci, alias Forese Donati, che ha il torto di non “coprire” la sciagurata sua consorte, sempre “infreddata” anche “di mezzo agosto”. E Forese gli risponde per le rime, dandogli del figlio d’usuraio e d’affamatore di poveri. Ora non penseremo mica che Dante credesse veramente a quel che aveva scritto del fratello di Corso e Piccarda Donati, che, incontrato da lui nell’aldilà, gli detta parole di intensa commozione: “La faccia tua, ch’io lagrimai già morta, / mi dà di pianger mo non minor doglia” (Purgatorio, c. XXIII, vv. 55-56)? No, di certo: i tre sonetti di Dante e i tre responsivi di Forese costituiscono una tenzone, cioè una gara a scambio di componimenti, in cui non v’ha da essere un vincitore e un vinto, ma una reciproca esibizione di iperboliche ‘figure’ o metafore al limite dell’inverosimile. Ecco la componente essenziale della poesia satirica e il suo elemento distintivo: il ludus, cioè il gioco, senza che ciò comporti una individuale e reale partecipazione. Non c’è dunque nulla di ‘malsano’ nella satira poetica: anche se ciò a cui essa tende è un sovrappiù di sanità nella condotta di ciascuno dei lettori sul piano relazionale e dunque sociale.
Cento sono le liriche comprese nella nostra scelta: un piccolo campione se si pensa ai seicento anni all’incirca in cui furono scritte e agli autori da esse rappresentate. Qualcuno si chiederà inevitabilmente per­ché essa s’arresti alle soglie del Novecento. Rispondiamo che a nostro avviso intorno a quelle date la componente satirica del fare poesia tende gradualmente ad azzerarsi: ciò che sembra scritto dai pochi per irridere ai molti è ludico solo in superficie, ma terribilmente serio, per non dire tragico sul fondo.
Abbiamo incluso, dopo molte esitazioni, un campione di tre scapigliati (Praga, Zena e l’erede postumo Ragazzoni) e del più genuino crepuscolare, Corazzini. Ma la malinconia stoica di un Gozzano, l’aggressività ‘micidiale’ di un Lucini, il ribellismo programmatico di un Marinetti (e dei migliori suoi compagni, come un Farfa o un Folgore), l’impetuosità sarcastica di un Soffici, l’amaro marionettismo di un Palazzeschi non producono fuochi d’artificio nell’irrisione, ma colpiscono a prezzo di una dolorosa tensione, a dispetto di ogni effettismo umoristico. La satira – ed eccoci tornati agli esempi a contrasto dei primi secoli – si è trasferita dalla poesia alla prosa. E coloro che la il­lustrano sono scrittori di prima classe, a tutti gli effetti: si chiamano Campanile e Zavattini, Flaiano e Longanesi. Proprio il nome di quest’ultimo, scrittore, ma anche pittore-caricaturista, ci richiama a due testate, “L’italiano”, fondato a ventidue anni a Roma nel 1927, e il celebre settimanale “Omnibus”, battezzato sempre nella capitale dieci anni dopo, in cui – a dispetto delle simpatie (intelligentemente) ‘reazionarie’ del direttore – si formarono talenti della pubblicistica radicale italiana, quali Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio. Ecco la satira farsi prosa e la prosa giornalismo. Certo intorno a Giambattista Vicari (1909-1978) e al suo mensile romano “Il Caffè” (1953-1981, poi divenuto “Il Caffè letterario e satirico”, e poi ancora “Il Caffè. Trimestrale di letteratura satirica, grottesca ed eccentrica”) si affaccendarono vari poeti, da Saverio Vollaro a Gaio Fratini. Ma i loro interventi satirici in versi avevano sempre più una funzione ‘utilitaristica’: della sacrosanta utilità – intendiamoci bene – di prendere per i fondelli l’insopportabile clan Moravia o i moribondi rimasugli dell’ermetismo fiorentino.
Giornalismo satirico in versi era, insomma, il loro: in sintonia col tempo in cui ancora viviamo e in cui il comico – ha scritto Georges Minois – è “vittima del suo successo”. Stampata, registrata, filmata, la satira d’oggi induce nel suo destinatario una pericolosa assuefazione. Frastornati da un “attivismo panludico” (così l’ha definito Jacques Wunenburger), ci siamo adattati ad una scrittura satirica, che ha perso ogni “potenzialità provocatrice” per sostituirla con un “sorriso passeggero” (la formula è di un altro sociologo della letteratura, Gilles Lipovetsky).
Se questa diagnosi è corretta, osiamo sperare che la nostra silloge, stimolando il lettore a riappropriarsi dei vigorosi umori satirici del tempo andato, eserciti su lui una benefica funzione rivitalizzante.

Guido Davico Bonino

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