Prefazione

Il falso e il vero dire è uno dei libri di poesia più belli e più complessi di Franco Zoja, a conferma che la sua ispirazione poetica è ancora ben lungi dall’esaurirsi. Se la poesia fosse un frutto ovvero una verdura dell’orto, potremmo definirla tardiva – come si costuma fare con il radicchio trevigiano – per indicare quella qualità di gran lunga superiore al comune che spunta al principiare di fine stagione: una poesia nutriente ed energetica, sapida di gusti e croccante per umori e sapori bene maturati nell’azione del tempo, della riflessione, della pazienza applicativa e della ricapitolazione degli studi condotti. Affiorano i temi cari a tutta la produzione di Franco Zoja, gli argomenti che contraddistinguono il suo stile come icone da lui brevettate: la polemica contro le avversità della fortuna, il rimbrotto rancoroso avverso ai privilegiati e agli sfaccendati che vivono da parassiti a danno dei diseredati, le lamentazioni per i disagi e per gli acciacchi della salute, l’ammirazione per la bellezza della natura, la nostalgia della cara terra na­tia e dei verdi Colli Euganei, che rappresentano non solo la Patria mai dimenticata del poeta, ma soprattutto contraddistinguono l’età dell’oro della di lui prima gioventù, fino alla fatidica data del 1958, che lo vede insediarsi a Torino, ma con il cuore bene ra­dicato nella contrada patavina. L’atteggiamento di Zoja è quello del censore. Il suo corruccio è lo sdegno per gli ignavi, i cialtroni, gli oppressori, i privilegiati. Il suo conforto è la bellezza dell’universo, nel piccolo e nel grande. La sua ricchezza è la contemplazione del genio umano nei secoli, cioè delle in­venzioni dedicate a godere, fortificare, interpretare e rappresentare la suprema bellezza con cui il creato dà spettacolo di sé. Le arti, la letteratura, la filosofia sono da Zoja coltivate come fossero le applicazioni del nostro computer di casa: fuori di metafora, esse servono a fare funzionare l’esplorazione del vissuto. In modo che al centro del bersaglio su cui il poeta punta l’interesse altro non v’è che l’impagabile esperienza della vita terrena: il falso e il vero dire, dunque, è una metafora della parola “poesia”, che ci por­ta ad esplorare non altro che la vita, nei suoi incanti e discanti, nelle situazioni di valore e disvalore, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore. Ma quella di Zoja non è una poesia etica, a dispetto degli atteggiamenti accigliati di moralizzatore dei costumi e di fustigatore dei violenti. Infatti, a Zoja interessa di più puntare sulla magnificazione dell’essere: un canto di lode rivolto a ciò che è e che abbia la dote di resistere con strenuità all’erosione apocalittica del tempo. Ne consegue che tutta la sua poesia è un canto bipolare: da un lato è descrizione e commento dell’attualità, dall’altro è celebrazione dell’antichità classica. Ne deriva che si giustappongono nel mondo poetico di Zoja due sponde di “falsità” e di “verita”, contrassegnate dall’invenzione del tempo. Precisamente, la modernità e l’attualità appaiono sballottate dal vortice di degrado, decadenza, sviamento e corruzione che contraddistingue in modo particolare l’infelice congiuntura di questi anni cronici di crisi, che ha colpito sia specificamente il nostro Paese sia la cultura occidentale nella sua generalità. D’altro canto, sulla seconda sponda, e separata da questa da un vallo d’epoca più che di duemila anni, v’è il sogno evocato di un’età dell’oro aggraziata e ispirata al piacere epicureo della vita, corroborata dall’invenzione fantastica di un popolo nutrito dai miti dei campi elisi, di eroi divinizzati, in commistione con le divinità dell’Olimpo, di saggi pensatori, di probi scienziati e filosofi, di osannati poeti. A fare da cerniera fra questi due opposti specchi della realtà storica dell’umanità – rappresentata nel come siamo oggi e nel come eravamo in antichi tempi – viene scelto il poeta prediletto da Zoja, cioè Francesco Petrarca – forse, dovrei dire con più correttezza “uno dei poeti prediletti”, perché Zoja è sostanzialmente un autore policromo e non monocromatico. Sta di fatto che Petrarca rappresenta, più ancora di Dante, il legislatore del sistema poetico italiano e, più in generale, di tutte le più im­portanti letterature europee che andavano formandosi sul finire del basso medioevo e ai primi albori dell’umanesimo e che portò alla teorizzazione di un di­scorso armonico e in chiave soggettiva di visione del mondo, che poi si svilupperà come un’immensa quercia, sempre fedele a sé stessa per circa mezzo millennio, per poi giungere fino alla decadenza del romanticismo e dei suoi derivati. Si intuisce che, per Zoja, più ancora del Canzoniere sta nel Secretum di Petrarca il fascino ammaliante del poeta che discute e scrive un’opera dedicata al “falso e vero dire”, cioè compone quel dialogo segreto in latino, condotto tra il grande Aretino in contradditorio con Agostino, principe della Chiesa, e alla presenza di una donna divinizzata che ascolta muta, presente ma indifferente alle sorti del confronto, e che rappresenta la Verità.
La specialità poetica di Zoja sta nella straordinaria capacità di vivere contemporaneamente nel suo tempo ma anche totalmente al di fuori del secolo che lo ospita e di essere capace di connettere e giustapporre realtà lontane come gli estremi dell’arcobaleno, ma anche riunite in un unico teorema di corrispondenze biunivoche.

Sandro Gros-Pietro

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