PREFAZIONE

Intensa, robusta, essenziale, la poesia di Giovanni Chiellino continua il suo percorso in ascesa con una padronanza tematica e stilistica che attesta lo spessore della creatività. Il timbro è nettamente virile, non perché eluda dati di emotività e di sensibilità, ma per il piglio duro anche crudo, con cui l’autore affronta la dinamica dell’esistere. La raccolta è monotematica, secondo una meritoria scelta e organizzazione del materiale, che ha già visto sviluppati i motivi dell’amore e della memoria, condizionati dalla fugacità del tempo e dalla caducità dell’esistenza. L’analisi si svolge nella catacresi del viaggio, in un primo periodo come anabasi, ricerca di un paradiso, in un secondo tempo come Catabasi, tentativo di ritorno alle origini attraverso il labirinto della fisicità. C’è nel sottofondo la capacità che ha l’uomo di collegare passato e presente al futuro: l’aspirazione alla continuità in una circolarità che comprende spirito e materia attraverso una visione panica del mondo che si confonde con quella panteistica.
La chiave di lettura del Giardiniere impazzito sta, secondo tradizione, nella lirica eponima del volume, in cui Chiellino, con sapienti analogie, sovrappone alla scena del mondo e alla devastazione della natura la sostituzione degli ordigni di guerra. Per inciso, anche se è sempre da evitare la facile lettura biografica dei testi, appare evidente la competenza botanica dell’autore, che si trasfigura in descrizione bucolica: “Sradicare le ortensie e il rosaio, / eliminare i bulbi della terra, / tagliare il calicantus: / fredda infiorescenza nel cuore dell’inverno. // Bruciare la tuia, / atto sacrificale, / abbattere l’agrifoglio, / non posso vedere le sue rosse bacche / brillare tra le foglie; / sacrificare l’oleandro e il melograno, / purpureo fiore in forma di corona”. In contrapposizione sono descritte nuove operazioni georgiche per l’impianto dei moduli di guerra: “Bisogna fare spazio a cose / più importanti: mine anti uomo, missili, mitraglie, / un’infinita varietà di armi. // Reticolati, / campi di concentramento, / fosse comuni”.
In realtà la guerra, mai giustificabile, con il suo corteo di morti, di distruzione, di orrore, è solo una metafora della violenza che impera e domina il mondo. Per ogni forma di sopraffazione, fisica o spirituale, l’autore sente una congenita opposizione, comprovata anche dalla scelta di alcuni versi di Celan messi in epigrafe. La sua visione della realtà è pacifista, anche se riconosce l’aleatorietà dell’ipotesi positiva: “Non ci sono cadaveri buoni / se ai vivi danno occhi di vendetta”.
La violenza è però solo una espressione del potere, che impone di autorità indiscriminate scelte. Non per nulla una delle immagini ricorrenti, e non solo in questa raccolta, è quella del gallo che canta, cioè alla presa di coscienza della propria debolezza in funzione della salvezza personale. Ma in antitesi un altro bellissimo topos, presente già in precedenti sillogi, è quello degli occhi dei fanciulli, metafora di purezza e di genuinità, ma anche di speranza nell’avvenire e di diritto a vedere esaurita questa fiducia. La metafisica della luce è essenziale nell’opera di Chiellino, che valorizza la vista sopra gli altri sensi nelle numerose descrizioni reali e d’anima. Se i fanciulli sono i migliori mittenti del messaggio, fra i destinatari la più importante è la madre, della quale è rilevata la voce: “Fuggono gli uccelli, si nascondono, / gli occhi dei fanciulli cercano luce, / la voce delle madri è una preghiera / che batte contro gli argini del nulla”. Potrebbe essere di effetto un richiamo a Quasimodo, ma più sottile e intrigante è quello a Rilke, per la presenza di un angelo ambiguo, ora emblema celeste del bene, ora nero segnale di morte.
Intermediario fra Dio e il mondo, sciolto da ogni impaccio terreno, l’angelo testimonia in noi l’antica caduta e il destino del necessario risveglio nel mistero di Dio. Difficile è definire che cosa intenda Chiellino per Dio (che per altro non è mai – o quasi – nominato) nel suo fervido e inconscio misticismo. Ma Dio è una figura della sua mitologia, anzi la figura fondamentale dalla quale si irraggiano luci e ombre delle cose del mondo e delle cose ultime. Il che sta a testimoniare come l’esperienza umana e poetica dell’autore si sia scostata dalle linee ortodosse, ma ne sia rimasta segnata a tal punto da sentirla come supporto, in parte estetico ma in parte esistenziale, del suo pensare e sentire e del suo stesso mondo poetico. Come Rilke anche Chiellino celebra nei suoi versi la perfetta inutilità di Dio, ma anche la sua assoluta necessità, secondo un tracciato non lineare che va dalla prima a quest’ultima raccolta. Se all’inizio in Galateo per enigmi il peso del mistero e la presenza del vuoto che ci circonda incitavano a una ricerca dell’assoluto e nello Spazio della mente la visione dell’esistenza portava alla coscienza della condanna del peccato originale, nel Giardiniere impazzito l’uomo, non più marionetta, è dotato di libero arbitrio ma abbandonato al proprio istinto e alle proprie capacità razionali. Già mezzo che la natura usa per dare continuità alla materia in Daedalus, scopre Nel cerchio delle cose che in ogni particella fisica si nasconde Dio, ma anche dalla Voce della terra che la Gran Madre lo crea e lo divora. Una ulteriore indagine porta l’autore nel Volto della memoria a considerare che la natura non è matrigna, ma il male derivato da un profondo istinto di distruzione e di morte insito nell’umanità. Il desiderio di morte deriva dalla nostalgia dell’Eden, dal desiderio di liberarsi dalla prigionia della materia. A questa vocazione al suicidio dei suoi figli la natura si ribella con le lusinghe dell’amore, fusione di spirito e corpo. In tutte le raccolte è presente il contrasto fra essere e non-essere, e particolarmente in quest’ultima si fa cruciale la richiesta di Dio e il dramma della sua assenza. Ma, insegna Pascal, chi cerca Dio l’ha già trovato. E se nel Campo Profughi “la terra ha fauci affamate” e “il cielo è freddo”, pure “corrono i fanciulli / si schierano festanti / con l’angelo del cielo, / versano nel pozzo il turbinio dei sogni / e l’angelo degli abissi si confonde I brucia e nasconde il volto deturpato”.
Dietro le quinte del Giardino si nasconde la natura alla ricerca del linguaggio, della purezza della parola, cioè del verbum. Chiellino intende il linguaggio come comunicazione e le parole come mezzo per esprimere una coralità di sentire. Controllata, senza eversioni, mai viscerale, la sua poesia è tesa a fare emergere i significati legati all’essere, alla dimensione umana. Il discorso fluisce con naturalezza, capace però di toccare i punti nevralgici di una ermeneutica profonda ancora in fase di elaborazione e che certo troverà nuovi sbocchi nelle espressioni future. Si intona perfettamente il ritmo corposo, di solida struttura, di non superficiale orecchiabilità, di personale modulazione, derivato da una sicura competenza musicale e da una acuta tensione e indagine interiore. L’itinerario di stampo dantesco si svolge in quell’inesausto viaggio celeste e terrestre che la lingua poetica compone nella dimensione dell’umano, coinvolgendo i singoli ma al tempo stesso il mondo come totalità nel suo enigma, in una ricerca che non è teologica ma prettamente e apertamente conoscitiva: così che esso avviene sul piano del perfettibile e del non mai definito.

Liana de Luca

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